I suicidi di Parigi/Episodio terzo/XI
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XI.
In cui si vede come si abborracciano i paradisi.
Il secondo mese del connubio del duca di Balbek con Morella toccava a fine.
I teatri e le passeggiate di Parigi avevan visto di tempo in tempo Morella apparire e passar come una cometa, ma alcuno non aveva saputo quale dio o quale demonio trascinasse ella nell’orbita sua, o le desse impulso.
Il duca di Balbek era restato nell’ombra — che si preoccupasse del suo nome, della dignità di sua moglie, o del riserbo impostogli dal suo ufficio di diplomatico, poco monta.
Il signor di Linsac aveva custodito Morella per circa due anni in una specie di gabbia incantata, cui egli indorava del suo spirito non potendo indorarla dei suoi luigi: madama di Maintenon che serviva un aneddoto per rimpiazzare un arrosto!
Morella vi si era formata — osservando il mondo per spiragli, che lo rivelavano molto e le facevano indovinare molto più ancora. Ella arrivava dunque quasi sconosciuta e si levava sull’orizzonte della vita elegante di Parigi come una girandola in una festa. Fissava gli sguardi; spronava le brame.
Non vi fu che una voce: Chi è dessa? a cui è dessa?
E tutti ad invidiare il fortunato sultano che accendeva quel sole nelle notti del suo harem.
Era egli felice quel sultano?
Forse sì.
La morte per congelazione non à dessa le sue voluttà? La forca non à anche dessa le sue delizie? La felicità è dessa altra cosa che lo stordimento?
Dante à scritto sulla porta del suo inferno: «Lasciate ogni speranza.»
Avrebbe dovuto scrivere sulla porta del paradiso: Lasciate ogni memoria, o voi che entrate! La gioia è l’oblio.
Il duca di Balbek, come i gaudenti romani che depositavano sulla soglia del triclinium le nere preoccupazioni, atræ curæ, traversava le procelle, e, dominando le regioni delle nuvole, si trovava in presenza di Morella — l’azzurro vertiginoso di cui s’inebriava!
Se egli fosse stato un’anima nel mondo, soffrendo qui, arrossendo colà, sopraffatto da angosce nel suo palazzo, alle prese col destino dovunque, ricevendolo nella sua camera, Morella, questa Circe, ne avrebbe fatto un senso.
Il primo che inventò l’anima aveva dovuto essere supremamente infelice, onde avere poi quella divina intuizione!
In realtà, quale era la situazione del duca?
Il principe di Lavandall riceveva sulla sua vittima, quasi ogni giorno, due rapporti: l’uno da madama Thibault, proveniente da Pradau; l’altro, dal signor di Linsac, scritto da Morella.
— Timoteo — diceva Augusta a Tob, o Pradau — tu mi annaspi là un brogliamini, ove io non veggo nè testa, nè coda. Bisogna pertanto bene che io mi vi raccapezzi.
— Non temete nulla, madama. Altri possono smarrirsi; voi vi troverete sempre. Voi avete la tavola pitagorica nel sangue.
— Imbecille! non è mica di tavola o di stipi che è questione, ma delle tue storie.
— Voi volete dire della mia conversazione? Per esempio! voi sareste la prima che non ne gustereste il profumo. Il duca, lui, ne fa le sue feste. Egli mi consulta. La finezza del mio spirito lo penetra. Io mi aspetto ch’e’ mi dimandi un giorno che io gli detti i suoi dispacci! Io gli ò fatto rimarcare che l’ambasciadore d’Inghilterra à la vista cortissima e che quello di Prussia è sordo. Quando io lo tengo dal naso, radendogli la barba, e’ sente la mia superiorità morale. Il naso, madama? Ma desso è l’indice — di cui il cervello è la sfera. Impugno l’indice, l’ora si ferma.
— Ài tu finito, animale?
— O’ letto in uno zibaldone che un poeta italiano à chiamato la donna animale grazioso e benigno. E’ sognava di voi, madama! Il duca mi rispetta. Io gli spiego il listino della Borsa, scolpendo il nodo della sua cravatta. Ah! se egli mi ascoltasse, come io lo ascolto, e calpestasse le mie pedate! Io ò guadagnato trentadue mila franchi. Egli à cento cinquanta mila franchi di debito.
— Tu esageri.
— Madama, voi ignorate l’ottica dell’anticamera. Sappiate, che si addiziona nell’anticamera, mentre si moltiplica o si sottrae nella camera da letto. Noi abbiamo dunque decomposto il duca in cifre, ed abbiamo ottenuto i resultati seguenti. Al signor Claret, il maestro di casa, 80,000 franchi — per due mesi e mezzo di spese che egli à avanzate; a diversi fornitori del signore e della signora — per fatture non pagate — 10000 franchi. Ora io, io aggiungo — dallo estratto delle carte del duca che ò percorse: 40,000 franchi, al dottore di Nubo — per danari prestati; 30,000 franchi gioielli di madama, messi al Monte di Pietà; 10,000 franchi, dovuti a gioiellieri — per gioie somministrate, e che non son mica venute al palazzo dell’ambasciata; 25,000 franchi, reclamati con un viglietto compitissimo da M. De Lionne, agente di cambio — per non so quale operazione... ed altre somme dovute qua e là. Eh! snocciolate la coronella e conchiudete con un gloria patri.
— Il duca deve dunque tutte codeste somme?
— Egli deve tutte quelle somme; che perciò? Il debito, madama, è la considerazione dell’uomo. Un uomo senza debiti, è un Dio senza altare: chi crede in lui? E quindi, bisogna vedere le udienze che noi diamo ogni mattino! Un mercante porta desso la sua nota? M. Claret lo chiama un bottegaro, e minaccia di pagarlo e ritirargli le somministrazioni. Un sarto viene a reclamare il suo avere? Io gli ordino una mezza dozzina di brache e due o tre soprabiti, per farlo aspettare. L’orefice manda il suo conto? Il duca lo sferza della sua migliore prosa, e dimanda un monile, un braccialetto, un anello — ciò che ispira confidenza al negoziante. Bisogna vederli, eh! Quei segugi — che dan la caccia ad un piccolo debitore fino alla morgue, fino alla fossa nel cimitero — restano come allocchiti alla porta dell’ambasciata. Ma, c’est egal! noi passiamo dei terribili quarti d’ora.
— Come a dire?
— Eh! giuochiamo il whist al club con fortuna — ciò che ci permette di azzittire le voci le più stridenti. Ma la fortuna si stanca talvolta: e questa mattina avevamo per tutto tesoro al palazzo 13 franchi e 45 centesimi. E su codesto gli è arrivato un vaso di fiori per madama la duchessa, che costava 97 franchi! È stato d’uopo che Maria, la cameriera, rovistasse nei peduli delle sue calze per pagare.
— La cameriera?
— Sissignora! Io non so come ciò avvenga, ma quella ragazza à sempre dei quattrini, quando trattasi di pagare qualche cosa per madama. Non pertanto, l’è una ragazza savia — eccetto che va ogni domenica a messa, ove resta talvolta tre o quattro ore. Io non conosco di pievano così lungo in la bisogna.
— Alla messa! alla messa? — obbiettò madama Thibault. E la duchessa?
— La duchessa? Vedete! il nostro hôtel è una strana residenza, in fede mia! Mentre che in un appartamento gli aquiloni infuriano e fischiano, in un altro il sole e l’azzurro non si velano giammai di nuvole. Appo il duca, l’ansietà terribile dell’uomo alle prese con i bisogni, con i creditori, con le passioni; dell’uomo obbligato a mentire ad ogni istante per non pagare i debiti; che si ruina, che si disonora, che subisce tutto le torture, tutti gli affronti dal mercante — balbuziando ogni specie di scusa; che nasconde la lepre della sua anima sotto i suoi crachats; che si vede eternamente innanzi lo spettro della giustizia — la quale l’obbliga a pagare — e di bisogni infiniti, i quali l’obbligano a contrattar nuovi debiti. Appo la duchessa, tutto è serenità e candore. Ella ignora tutto ciò che à luogo in casa sua. Non si avvede di nulla — neppure che, da due mesi, ella non à visto suo marito tre volte!
— Il duca non l’ama dunque?
— Ecco ciò che io non sono giunto ancora a sbrogliare. Quando gli affari di Stato mi daranno un po’ di tregua, intraprenderò questo subietto. Ma come volete che io mi prodighi adesso ad interrogarlo su queste minuzie, quando io ò il tempo appena di estorquergli i tradimenti di quel botolo di Metternich, i segreti di quel mastro di astuzie di Nesselrode, e di farlo pronunciare sulle intraprese del signor Thiers e del signor Guizot? Dietro questi informi, io mi reco alla Borsa e vi fo l’alto e basso. Mi vi mettono a partito — ve lo giuro! Io li forvio e smarrisco con delicatezza. Ma dò ordini a proposito, ed il père Claret mi adora come un dio. Il duca à perduto grosso ieri. L’ò visto rientrare un momento in casa, alle cinque, e mi aveva l’aria di un impiccato. Però l’è colpa sua.
— Come ciò?
— Il mattino egli era di cattivo umore, di cattiva grazia. È sempre così quando capita in visita il dottore di Nubo. Io aveva bisogno di farlo chiacchierare, perocchè io meditava un colpo di hausse alla Borsa. Io gli fo dunque, vestendolo, un nodo di cravatta mostruoso, con una punta che gli solleticava il naso e lo faceva starnutire. Guardandosi nello specchio, egli grida: Che diavolo ài tu affazzonato qui, idiota? Io rispondo: Mille scuse, eccellenza; oggi io non ò il capo a me. Mi lasciai tentare ieri sera, e diedi l’ordine al mio agente di cambio di comperarmi tre mila franchi, al rialzo.
— Non desolarti tanto, imbecille, perchè la tua sciocchezza potrebbe forse riescirti come tutte le sciocchezze.
— Era vero ciò ch’egli diceva?
— No. Ma io sollecitai a spicciarmi di lui per correre alla Borsa. Arrivai alle 2. Cerco il mio agente di cambio per dargli l’ordine, lo spio, ascolto, m’informo, interrogo... Che è, che non è? in cinque minuti i fondi avevan bassato di 3 franchi, in seguito ad un dispaccio ricevuto dal signor Rothschild sugli affari di Spagna! Il duca, come il dottore, avevano probabilmente giuocato al rialzo. Perocchè, per lo innanzi, il dottore veniva ad annasare le notizie e giuocava solo, ora giuocano insieme.
— Questa perdita sarebbe quindi ad aggiunger al debito di 150,000 franchi. Ma, a proposito: ài tu guardato per le carte cui avevo detto di scovrire?
— Pena perduta, madama. Io, ò frugato dappertutto ove ò potuto — anche nel suo scrittoio particolare. Non ò avuto il tempo di leggere tutte quelle cartacce — di cui una parte è anche in cifra. Ma il colpo d’occhio che vi ò gettato non mi à nulla fatto scovrire che si riferisca al matrimonio del re Taddeo IX. Tutti quelli scritti sono zeppi di maldicenza contro la Corte, il governo, i ministri della Francia; di esecrazione contro la stampa libera, e di diatribe contro i rivoluzionari di Parigi e di Londra — i quali, sia detto in passando, si spiano a chi meglio meglio, reciprocamente. Ecco tutto.
— Credi tu avere rimuginato dovunque?
— Sì — eccetto un piccolo mobile che è a capo del suo letto, che à una toppa a secreto, conosciuto dalla duchessa sola forse, ed ove il duca chiude i suoi crachats, i suoi danari, e tutto ciò che à di prezioso. In passato, le gioie della duchessa erano anche conservate lì; poi, ella le confidò a Maria e le conserva nel suo appartamento...
Augusta riassumeva queste conversazioni col suo ex-intendente e le comunicava al principe di Lavandall.
Dal lato suo, Morella scriveva a Sergio di Linsac dei vigliettini come questi qui:
«Avvisate se volete: il mio malato à la vita dura. «M.» — Martedì.
«Giovedì. — Una goliera di 7000 fr. Il duca era raggiante donandomela. Eran dunque delle fibre della sua anima ch’egli mi dava. Ne ebbi pietà.
«M.»
«Sabato. — Dieci mila franchi per le spese di casa. Lasciandoli sul mio caminetto, la sua mano tremava. Io lo guardava nello specchio. Poi, dei baci frenetici che ànno decorticato le mie labbra. Si inebria. Io non resisto più: voi lo volete. Io tappezzo la strada del suo suicidio di foglie di rosa e di incantesimo.
«M.»
«Lunedì. — Ebbrezza folle... ed uno scheggiale di diamanti. L’ò trovato bello, ed ò abbracciato il donatore. Se mi avessi un cuore di ricambio, glielo confiderei. Mi fa pietà. La pietà è la grande porta dell’amore. Poi, delle lunghe, lunghe distrazioni, e dei pallori sùbiti. La lettura del giornale della sera lo à fatto abbrividire. Non à guardato che il listino della Borsa.
«M.»
«Venerdì. — Un cashmire di 6000 fr., che io ò scelto al Persan. Entriamo nella regione del credito, m’immagino. Si fa mandare le note all’ambasciata, e compera a nome di sua moglie. Sera e notte di soprassalti. Mi à servito dei calembours, perlati di lagrime! Il delirio dei suoi abbracci è convulsivo. Che agonia — sopra un motivo di valzer!
«M.»
«Domenica. — Primo rifiuto. Avevo domandato une rivière. Ò tenuto il broncio fino all’una del mattino. Disperazione lacerante. Ò avuto pietà, all’alba. Egli è pazzo.
«M.»
«Giovedì. — Ò la rivière di diamanti. L’è forse l’ultima goccia di sangue del suo cuore. Cangiate di carnefice. Positivamente, io non terrei più. Egli non à più un gioiello sopra di lui. Io fiuto la miseria. La sua anima è una ruina, un precipizio. Che à dunque egli fatto che lo soffochiate con questa catena di serpenti a sonaglio — cullandolo fra le carezze?
«M.»
«Domenica. — Altro rifiuto. Avevo domandato una casa di campagna, che è a vendere nel parco di Madrid. Aveva l’agonia nella voce; Gesù dimandava da bere. Ò tenuto sodo nel mio broncio. È partito alle 8 del mattino. La sua calma mi à spaventato. L’ò richiamato e baciato. Una lagrima è caduta sulle mie guance. È la prima volta che lo mi lasci vedere. La miseria è estrema. Date il colpo di grazia, o io metto giù le armi. Io mi credeva altra. Ahimè! ò il vizio spavaldo.
«M.»
«Martedì. — Un terzo rifiuto. Finiamola. Ieri sera, egli non aveva che cinque franchi nella borsa. Partì alle dieci per rendersi al club, e non è ritornato nella notte. Non ride più; non parla più. Si tuffa nel mio amore come se si inabissasse nel fondo del mare per perirvi. Clarence, annegato in una botte di malvagìa! Finiamola! Finiamola! Voglio uccidere, ma non leccare il sangue dell’assassinio.
«M.»
I voti di Morella restavano senz’eco. Le si ingiungeva, al contrario, di raddoppiare le sue imposizioni, le sue esigenze, e sopratutto le sue carezze.
Lo scopo degli agenti del principe di Tebe era di ridurre il duca di Balbek al limite dell’indigenza, accollarlo al disonore. Allora il principe di Lavandall, munito di pieni poteri dal principe di Tebe ed autorizzato dal conte di Nesselrode, si presenterebbe a lui e negozierebbe la vendita delle carte tanto sospirate.
Questo piano infernale doveva avere uno scioglimento imprevisto.
Ma s’insistè; e si raddoppiò anzi di accanimento. Qualche giorno dopo l’ultimo viglietto di Morella, questa ricevè la lettera seguente del principe di Lavandall:
- «Signora contessa,
«Son proprio desolato del malanno, cui ieri ò mancato poco di commettere, al Bois de Boulogne. Ve ne dimando mille scuse. Ò cacciato via il cocchiere. Ma, d’altra banda, è desso possibile che un astro come voi si nicchi in un veicolo il quale non si distingue da un fiacre endimanché che per la livrea ridicola di cui il cocchiere è azzimato? Per riparare a quella stupida malavvertenza non oso, madama, offrirvi una calèche a due cavalli inglesi ed un cocchiere a cipria, un hôtel ai Champs Elysées, 120,000 franchi l’anno per intrattenere tutto codesto. Vogliate degnare, madama la contessa, d’incoraggiarmi, e voi farete di me il più felice dei vostri sudditi.
«Principe Aless. di Lavandall.»
Questa lettera arrivava a proposito del calesse del principe, che aveva addentato un tantino il coupé di Morella al Bois de Boulogne — si dava a credere. La galanteria del Russo si spiegava naturalmente.
Morella fece trovare questa lettera sul poggio del caminetto. Il duca, che conosceva la scrittura e le armi del principe, di cui era geloso, afferrò la lettera in un lancio, mentre Morella si dibatteva per riprendergliela.
Balbek divenne eccessivamente pallido, gualcì convulsivamente la lettera. Nel tempo stesso, le sue unghie allividivano i polsi della sua amante.
— Che ài tu risposto? — dimandò egli infine, tremando di tutta la persona, lasciandosi andare, malgrado suo, sur un seggiolo e tirando a sè Morella, che cadde a ginocchio.
— Non ò risposto ancora — ella balbutì.
— Che risponderai tu? — riprese il duca di una voce che somigliava ad un singhiozzo.
Morella, forte commossa, esitò. Non sapeva se dovesse gittarsi al collo di quel meschino, confessargli tutto, abbracciarlo, ovvero se dovesse dargli il colpo di grazia.
Il duca ebbe la dappocaggine di ripetere la domanda non un accento di collera.
Allora Morella sillabò lentamente:
— Risponderò che accetto.
Il duca si alzò, rilevando Morella ancora ai suoi piedi, e gettolla sul seggiolone. E’ passeggiò in silenzio per qualche minuto nella camera, infine sclamò, come parlando a sè stesso:
— Al postutto, perchè non accetterebbe dessa? Un rifiuto, darebbe a supporre un cuore; e costei non è che un baratro. A che titolo potrei io pretendere d’imporle una simile perdita? Perchè io l’amo? Io la amo per me: dunque l’è un balzello per lei: dunque occorre un’indennità; dunque...
— Che vi piaccia di ferneticare, io non posso impedirlo — osservò Morella. Ma che mi insultiate così... voi non avete, io non ve ne dò il diritto.
— Morella, una grazia — mormorò il duca fermandosi innanzi a lei.
— Voi siete assurdo.
— Ti domando una settimana di respiro.
— Per che fare?
— Fra quattro giorni vi sarà ballo dal principe di Lavandall. È venuto di persona a pregare la duchessa di assistervi. Ella vuole andarvi. Credi tu che io non debba almanco questo a quella povera abbandonata? Ò bisogno di esser tranquillo per questi quattro giorni. Ò le mie ragioni per questo. Dopo, tu deciderai del mio destino — forse del mio onore e della mia vita.
— Accettato! — e non più una parola su codesto — gridò Morella di una voce soffocata, gettando la lettera del principe nel fuoco.
Il duca non fiatò motto in tutta la sera. Borbottava delle interiezioni fra sè. Si sarebbe detto che ruminasse una grande risoluzione.
Alle 10, partì ed andò a terminare la serata con Vitaliana — la quale non capiva nulla alla tenerezza infinita che le mostrava suo marito.
Era il rimorso del ritorno o il dilaceramento dell’addio?
Il duca trattò Vitaliana come Morella.
Vitaliana, confusa, fuori di sè, abbagliata, colpita, intravide degli orizzonti d’amore sconosciuti, e réva — vaneggiò!
L’indomani, alle 9, il dottore di Nubo si presentò.
Il duca di Balbek si trovò rigettato nella realtà del suo disastro.
— Ebbene? — domandò il duca abbordandolo con un’ansietà terribile.
— Tutto precipita — rispose il dottore. Dio à scatenato Satana sopra Giobbe, ed egli suona l’hallali.
— Da banda le metafore e la Storia Sacra. Mi portate voi danaro?
— Vi porto, al contrario, dei rifiuti e degli intimi a pagamento.
Il duca sorrise a far fremere.
— I vostri ebrei — egli urlò — chiudon dunque la cassa?
— E ne gettano la chiave alla fiumana. Non un centesimo di più, ad alcun prezzo. Shylok non accetta neppur più la libbra di carne dalla parte del cuore.
— À ragione. È la sola carne che io non mi abbia più.
— Voi sarete felice, quando codesta millanteria sarà una verità.
— L’agente di cambio accord’egli la dilazione dimandata?
— Se dinanzi, a mezzodì, non è pagato, ci traduce innanzi ai tribunali.
— L’è una minaccia?
— No, perocchè vi potrebbe essere qualcuno dei vostri colleghi che gli salda il nostro debito a questa condizione.
— Ed il conte di Muys? L’avete visto! Consent’egli ad aspettare?
— Egli dice — io vengo adesso di casa sua — che i debiti di giuoco si pagano sul tavolo o si saldano con la spada. Chi attende, deroga; e che egli è di vecchia razza. Per conseguenza, se non riceve in giornata, o domani, i quindici mila franchi che gli dovete, egli vi schiaffeggerà al club, in presenza di tutti. Bisogna vederlo! Si è sempre più ruvidi con gl’intermediari che col soggetto principale.
— Io mi annego! — sclamò il duca alzandosi.
— Ne ò ben paura — proseguì il dottore con calma. Al club, si à l’aria di sospettare che la nostra buona fortuna al giuoco non è sempre di buona lega. Ci sorvegliano. Anche questa risorsa si dissecca per qualche tempo. Occorre, anzi, perdere e pagare.
— Insomma, ditelo di un motto solo; voi mi portate una corda per impiccarmi!
— In ogni caso c’impiccheremo insieme; perocchè voi mi avete attirato nel vostro abisso. Ma — rimarcò di Nubo, voi non avete altro scampo, altra possibilità di salute?
— A meno che voi non mi consigliaste di svaligiare i viandanti o di trafficare di mia moglie.
— Non mi avete voi parlato un giorno, per allettarmi a venirvi in aiuto, di non so che carte cui possedevate, che valevano milioni?
— Io non vi ò mentito. Io possedo quel tesoro. Ma, giustamente perchè quelle carte valgono milioni, non bisogna sciuparle per dei soldi.
— Caspita! Dugento mila franchi di debito non sono poi così mica soldi che voi vi piacciate a ribassarli. Ma infine, se quelle carte ànno nel grembo dei milioni, perchè non le obblighereste voi ad espettorarli?
— Perchè chi deve espettorarli — poichè espettorazione vi à — non è in misura di ciò fare. Quelle carte interessano la regina Bianca e suo cognato, il principe di Tebe. La regina non può nulla in questo momento. Il principe è più povero di noi. La regina non può al presente comperar quelle carte. Il principe ne darebbe un boccon di pane — perchè gli è tutto ciò ch’e’ possiede. Fra un anno o due, quei documenti saranno una miniera. I gallioni arrivano alla morte di Taddeo IX.
— Allora, bisogna liquidare ed aspettare.
— Si liquida pagando. Avete voi un mezzo per pagare?
— No. A meno che...
— A meno che? — obiettò il duca.
Il dottore si alzò per partire borbottando:
— No: voi nol fareste. Ciò sarebbe assurdo.
— Ma infine, che cosa — dimandò il duca.
— Che cosa? — ripetè il dottore lentamente, camminando verso l’uscio.
— Dite dunque?
— Ebbene, — sclamò il dottore, volgendo il bottone della porta...
Tob, che aveva ascoltato questa conversazione alla toppa, dovè allontanarsi e non udì le ultime parole.
Vide partire il dottore, ed il suo padrone, restato sulla soglia come pietrificato, accompagnarlo d’uno sguardo senza vista, gli occhi sbarrati o smarriti.
Quando il duca ebbe richiusa la porta, Tob ritornò al suo osservatorio. Tenne il suo occhio incollato al buco della toppa un’ora al meno. Poi rinculò come sbigottito, allampanato. Si fregò gli occhi, dubitando quasi di avere ben visto. Ritornò al posto, guardò ancora, sembrò turbatissimo... e corse fuggendo da madama Thibault.
Qualche minuto dopo, questa mandava il suo lacchè di sala al principe di Lavandall con una lettera urgentissima.
Leggendo quella lettera, il principe trasalì sulla sedia. Un lampo strano traversò la sua figura. Si riassise. Appoggiò la sua fronte alle sue mani per riflettere con più comodo.
Qualche minuto di poi, e’ parve aver presa una decisione, perchè scrisse due lettere a due suoi amici, il conte di Kormoff ed il principe di Storkine.
Forse pure li invitava alla sua festa — e niente altro che questo!
Alle dieci della sera, Vitaliana era di già pronta. Sembrava felice — bianca, bella come un angelo che presenta a Dio un’anima cui à salvata! Pensava ella forse che a quella festa rivedrebbe Adriano, il quale, dopo la sua confessione ed il suo bacio, non aveva più dato segno di vita?
Il duca di Balbek, lui, era orribilmente pallido e sembrava annientato, come uomo che marcia al patibolo.
La sua ora era suonata. Egli l’aveva udita suonare come i rintocchi di funerale.