I rossi e i neri/Primo volume/XIV

XIV

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XIV.

Nel quale si comincia a sapere chi fosse e che cosa facesse l'uomo vestito di nero.

Il dottor Collini uscì dal vicolo di Mezza Galera molto contento de’ fatti suoi. Dal caso di San Nazaro in poi, era quella la prima volta che il valentuomo si mostrava quasi ilare in volto e si stropicciava le mani.

Quantunque la gente non gli avesse apposto a grave colpa l’essersi malamente diportato in quella sua contesa col Montalto, il Collini non aveva per fermo a lodarsi della figura fatta, e fra le cose che più gli dolessero, c’era questa del non poter più andare dalla Cisneri, e di dover troncare così il suo romanzetto al primo capitolo.

Ma più ancora venne a sapergli male che il suo padrino, l’uomo che si era battuto in sua vece, fosse andato in casa della Cisneri, dove un mazzo di carte e le parole di una cameriera dicevano troppo chiaramente in qual conto egli fosse tenuto. Come aveva potuto andarci, egli che non conosceva punto la contessa? E perchè c’era andato? Il Collini non lo sapeva ancora; ma l’amarezza che ne sentiva in cuore, gli faceva indovinare come i suoi proprii diportamenti fossero la cagione di tutto, e com’egli ne avesse il danno e le beffe.

Povero Collini! Con tutto il suo ingegno e la sua avvedutezza, esser riuscito a fare la parte del bietolone! — Oh! ma se ne avranno a pentire! — pensava egli, stringendo i pugni nel segreto delle sue tasche, mentre la signora Momina gli raccontava la sua gita in casa della Cisneri. E allora gli tornavano in mente le acerbe parole di Lorenzo Salvani nella chiesuola di San Nazaro, e sentiva odiarlo lui più fieramente, più profondamente, che non odiasse il suo vero avversario Aloise di Montalto.

Ma perchè, con tutta questa amarezza, nell’uscire dal vicolo di Mezza Galera, egli si andava stropicciando le mani, a guisa di uomo contento? Or ora lo sapremo, se i lettori vorranno seguirci.

Il dottor Collini se ne andò per la via dei Giustiniani: voltò a destra verso la piazza di San Lorenzo, scese per [p. 116 modifica]Scurreria e Campetto, donde risalì per un labirinto di vicoletti fino alle Strade Nuove, e proprio rasente ad un gran palazzo, nel cui portone entrò con la spigliata franchezza di un uomo, il quale avesse fatta quella strada centinaia di volte.

Salì per un largo giro di scale fino al piano nobile; dov’era un grand’uscio, a cui volse lo sguardo della volpe d’Esopo al famoso grappolo d’uva, ed entrò per un andito in una scala più stretta, la quale andava su per altri due piani. Giunto all’ultimo, suonò il campanello, e poco stante l’uscio si aperse appena quel tanto che consentiva il ritegno d’una catena tirata attraverso i due battenti, lasciando scorgere il viso di una donna attempata, alla quale il naso bitorzoluto e i peli del mento, la gonna di lana nera, la cuffia e il grembiule di tela bianca, davano aria d’una portinaia di monache.

Costei, appena riconobbe il Collini, spiccò la catena dal gancio, e dischiuse l’uscio per lasciar passare il noto visitatore.

— È in casa il signor Bonaventura? — chiese il Collini.

— Sissignore, è sul terrazzo, intorno ai suoi fiori. Aspetti, e corro a chiamarlo.

— No, no, signora Marianna, non s’incomodi; andrò io stesso. —

E così dicendo, il Collini s’inoltrò per due o tre camere fino ad un corridoio, che riusciva appunto sul terrazzo. La signora Marianna, che vedeva quasi sempre ogni giorno il Collini, lo lasciò andare, e dopo aver chiuso l’uscio e rimessa la catena, gli tenne dietro fino alla camera dov’essa accudiva alle sue faccende domestiche.

Il terrazzo del signor Bonaventura, era come tutti gli altri dei nostri palazzi genovesi, lastricato a quadri bianchi e neri, coi suoi orticini dai lati, molti vasi bellamente posti in giro, nei quali fruttificavano alcune piante di aranci e di limoni, una vasca di marmo col delfino che gettava il suo zampillo d’acqua, e un pergolato di rose gialle e di gelsomini.

Il signor Bonaventura, che noi chiameremo alla spiccia il padre Bonaventura, a cagione della sua antica ascrizione alla compagnia di Gesù, stava presso un orticino sarchiellando il terreno e nettandolo dalle erbe selvatiche, per seminarvi lattuga ed altre ortaglie di stagione.

Era vestito, come sempre, di nero, e in cambio del cappello, portava in capo una berretta di velluto. Cosa strana [p. 117 modifica]per un giardiniere suo pari, accanto al sarchiello ed all’innaffiatoio, e’ ci aveva un grosso cannocchiale da teatro.

Il padre Bonaventura andava pazzo per l’arte del giardiniere, e l’educazione dei fiori, come di tutte le pianticelle degli orti, era il suo passatempo prediletto.

Orticultura, fioricultura, sollazzi proprii delle anime innocenti! Ma se il padre Bonaventura, che amava tanto i fiori, le lattughe e il prezzemolo, non era un’anima innocente, non era neanche un tristo, nè un furbo volgare; bensì qualche cosa di più grosso, un uomo d’ingegno, nato per comandare a’ suoi simili. Un tempo, il suo gran diletto era stato quello di far discepoli. Era gesuita, maestro esercitato nelle più astruse discipline, e i giovani posti nelle sue mani facevano ottima prova; testimone il Collini, che era stato suo discepolo, e si chiariva profondo nell’arte sua, com’era sottile in ogni maniera di accorgimenti.

Non avendo più giovinetti da tirar su nello studio, il padre Bonaventura educava i garofani e le camelie con lo stesso amore, con la stessa perseveranza di assidue cure. A Genova dimorava per antica consuetudine, e sebbene fin dal tempo della cacciata dei Gesuiti egli avesse gittato l’abito, rimaneva in Genova ugualmente utile alla Compagnia, per tutte quelle cose che verremo dicendo, e teneva carteggio pressochè quotidiano col padre generale dell’Ordine.

Uomo di lui più destro ad ogni maniera di lavori non si sarebbe potuto trovare. Egli però continuava ad essere come ministro plenipotenziario in un luogo dove i suoi non erano più ufficialmente rappresentati, e più utile assai di un vescovo nominato in partibus infidelium, egli poteva dirsi un agente segreto, ma potentissimo, in una città dove non avrebbe potuto stare, nè giovar molto, con aperta dignità di padre provinciale. Era quello un posto difficile, epperò fatto a bella posta per un uomo di fede provata e di accorgimento sopraffino, come veramente appariva il padre Bonaventura; nè poco era il lavoro, nè lieve la malleveria dell’ufficio.

A Genova, nel tempo di cui parliamo, la libertà aveva largamente fruttificato. Quello spirito d’indipendenza che deriva dall’uso dei traffichi, e dal continuo muoversi d’una popolazione marinara, la lontananza dalla sede del governo, e le stesse ricordanze repubblicane del paese, erano un potentissimo aiuto allo svolgimento dei concetti liberali consacrati dalla rivoluzione del 1847 e dalle riforme legislative che l’avevano accompagnata. [p. 118 modifica]

Ma se a Genova c’erano i più gran rompicolli di tutta Italia, se qui era il centro più temuto e più sospettosamente vigilato della rivoluzione, c’erano anche i più ostinati fautori dell’antico ordine di cose, e forse la più operosa officina della reazione.

C’era anzi tutto il volgo ignorante degli uomini avvezzi a millantare le più arrisicate dottrine, in quella che lasciavano le loro famiglie pensare a operare in tutto altrimenti: spregiudicati a parole, liberi pensatori senza sapere che cosa pensare, audacissimi mangiatori di grasso in venerdì e sabato, ma fuori di casa, e destinati a diventare la gente più divota e insieme la più codina della cristianità, nella stagione dei malanni insanabili.

C’erano poi i ricchi patrizi, i quali, la più parte, astiavano il governo piemontese e ricordavano il patrio Consiglietto: e tra essi la gente più strettamente divota al Papa e all’Imperatore nella loro significanza da medio evo; epperò tale, per larghezza di censo ed autorità di nome, da doversi accarezzare e tenere in carreggiata, oggi blandendola cogli onori e la reverenza alla grandezza dei titoli, domani spaventandola col fantasma minaccioso delle plebi irruenti.

C’erano i titolati meno abbienti, anzi poveri addirittura; gente da sostentare in ogni modo migliore, la mercè di Opere pie acconciamente sfruttate, di antichi legati, di pubblici uffizi, e da scrivere intanto nelle file della tenebrosa legione, nella quale avevano a militare per vecchia tradizione e per nuovo debito di gratitudine.

C’erano i ricchi plebei, i villani rifatti da tirare, spinte o sponte, nel girone superiore, per la naturale attrattiva del vivere sfoggiato, per la cupidigia degli onori e di tutti gli altri amminicoli della superbia mondana.

C’erano i liberali sinceri da combattere, da traccheggiare, da molestare di continuo e in ogni ragione di cose, fossero poveri o ricchi, nobili o plebei, sicchè avessero a guastarsi il sangue, a perdere gli uni la costanza dei propositi, gli altri il loro buon nome nelle angustie della necessità.

C’erano sopra tutto i giovani da domare, i vigorosi intelletti da isterilire nel fiore della pubertà. Con quali armi? Anzitutto un ordinamento meraviglioso, ragnatela finissima, le cui cento fila mettevano capo in ogni ceto di persone, in ogni ragione di negozi. Il beneficato e l’ambizioso, mutati di subito in acconci stromenti di propagazione, erano tutti sfruttati secondo la misura delle forze loro, dell’ingegno, delle particolari attitudini e delle aderenze domestiche. [p. 119 modifica]

Però le opere pubbliche, le amministrazioni in mano loro, gli instituti di carità e di beneficenza soggetti al loro indirizzo. La reazione, sempre padrona delle coscienze nei tre sommi momenti della vita, la nascita, il matrimonio e la morte, signoreggiava del pari le moltitudini, la mercè di questa intromissione dei suoi creati in ogni garbuglio mondano, in ogni gara di private ambizioni, in ogni dramma domestico. Si esercitava la virtù come un mestiere, e si sfruttava il peccato come una cartella del debito pubblico.

Il governo d’allora non avversava punto la setta, che anzi aveva a tenersela cara, come quella che gli guerreggiava i partiti avversarii e gl’indocili. Il popolo, svogliato, facile a mutar consiglio, ateniese insomma fino al midollo, lasciava correr l’acqua al mulino e una cosiffatta congrega girare a sua posta le chiavi nella toppa mal custodita del santuario domestico. Che cosa potevano i pochi, i rivoluzionari da caffè, contro tante forze riunite? Non mai il demonio fu così degno del nome di Legione, come quando era incarnato nella mente di padre Bonaventura. Era egli infatti che muoveva tutte quelle fila svariate secondo il suo ordinato disegno.

E poi, oltre al disegno generale, il padre Bonaventura ci aveva altri fini da conseguire, altre reti da tendere. Alla Compagnia doveva andare quanto più si potesse di denaro, ma soprattutto le ricchezze del banchiere Vitali, le quali erano frutto, diceva egli, di un grosso deposito confidato dai gesuiti a quello specchio di probità, sebbene non vi fosse modo di farglielo confessare o di metterne fuori le testimonianze.

Il Vitali era stato fin dalla sua giovinezza uno dei più fidati amministratori del denaro della Compagnia, e la sua fortuna, fatta legalmente alle loro spalle e mercè il loro aiuto, s’era illegalmente rimpinzata di quel grosso deposito. Ma il padre Martelli, che sapeva di tutto quel negozio, era morto poco dopo la cacciata del sodalizio da Genova, non avendo tempo a dir altro se non che il danaro lo aveva il Vitali. E il Vitali negava.

Che cosa fare? Armato di tutto punto e forte di mille spedienti contro un uomo giovine, il quale si combatte nel rigoglio di tutti i suoi affetti, buoni o malvagi, l’astuto Bonaventura era impotente, o quasi, contro un vecchio come il Vitali. Non c’era altro che una speranza, poggiata sulla paura che il vecchio Vitali aveva grandissima della morte, e sul terrore che gli metteva addosso il pensiero della [p. 120 modifica]dannazione dell’anima. Senonchè, fino a tanto si sentiva in gambe, non c’era verso di cavarne un costrutto, e le fiamme dell’inferno, che gli davano molestia quand’era ammalato, gli sfioravano a pena la cute, quando era sano ed aveva fatto una buona digestione.

Il signor Giovanni Vitali era stato nella sua giovinezza un libero pensatore de’ suoi tempi, che aveva letto il Voltaire e citava il Dizionario filosofico con tutte le sue celie da scomunicato. Ma egli ci aveva pure una religione, quella dell’oro, che è maestra e consigliera di tutte le altre. In Turchia, per far quattrini, non avrebbe tardato a diventare un fervente seguace del Corano; da noi, per la stessa ragione, si acconciò all’andazzo dei tempi e diventò una creatura dei Gesuiti. Questa è una strada che molti hanno fatta, antichi miscredenti, ai quali ha messo conto venire a patti e aprir banco di mercatanti sulla gradinata del tempio.

Ora questo signor Vitali, che s’era ingrassato alle spalle della Compagnia, non voleva restituire il mal tolto. Il padre Bonaventura, che conosceva i suoi polli, aveva fatto il disegno di levargli le forze, e (ci si condoni la frase, perchè qui viene a taglio davvero) di accarezzargli una cronica malattia in cambio di combatterla, affinchè, spossato e pauroso della morte, consentisse di buona voglia a far testamento, a pagare con qualche milione la sua pace con Dio. Ed è agevole il vedere come, con l’aiuto del discepolo Collini, il padre Bonaventura avesse avviato per bene il negozio, che Aloise di Montalto (caso non preveduto) gli cominciava a guastare.

C’era dunque assai più di un furbo volgare sotto quella giubba nera che teneva apparenza mezzana tra il laico e il cherco. C’era infatti il generale d’un corpo d’esercito, mallevadore di tutte le sue operazioni, colla sua fama a repentaglio innanzi a que’ giudici severi della Compagnia di Gesù. La voluttà del combattere e l’agonia del vincere, levavano il padre Bonaventura molto più su di tutti i suoi compagni e di tutti quei miseri strumenti che egli educava al proseguimento dell’opera comune e delle loro private ambizioni.

Il lettore non reputerà che noi ci siamo dilungati troppo in questa sposizione, la quale vuol essere considerata come una di quelle chiavi di ferro che sono necessarie a stringere insieme le parti di un edifizio. E noi d’altra parte non potevamo farne senza, per le necessità del nostro racconto.

— Oh! siete voi? — esclamò il padre Bonaventura, voltandosi al rumore dei passi, e riconoscendo il Collini. [p. 121 modifica]

— Sì, padre mio, e vi porto molte novità.

— Davvero? Mettetele fuori! —

Così dicendo, il padre Bonaventura s’era rimesso a sarchiellare il suo orticino.

— Tengo finalmente nel pugno il Salvani! — disse l’altro, cominciando ex abrupto.

— Bene! ottima preda! — rispose il padre Bonaventura. — E in che modo?

— Sono padrone del suo segreto.

— Di bene in meglio! E qual è questo segreto?

— Egli si è gittato a capo fitto nelle imprese dei rompicolli. Costoro vanno maturando una rivolta, e il Salvani è tra i primi.

— È tutto qui? — chiese il padre Bonaventura con quell’aria sbadata che aveva assunta fin da principio.

— O che? — esclamò meravigliato il Collini. — Non vi pare che basti?

— Per che farne? — ribattè il padre Bonaventura, stringendosi nelle spalle.

— Per che farne, voi dite? Per andare a Palazzo, avvisarne le autorità, e quando costoro siano invischiati per bene, farli cogliere e mettere in gattabuia.

— Benissimo, Collini! Aspettare che siano caduti in trappola.... che non possano più dare indietro.... Sì certo, è un accorgimento di buon conio; ma chi vi dice che le autorità non ne sappiano quanto voi?

— Oh, è impossibile che ne abbiano sentore. Fino ad ora non c’è nulla di fatto; sono discorsi accademici, tra i caporioni, i quali non li hanno certamente lasciati trapelare.

— Sì, lo so che non c’è nulla di fatto.... — soggiunse il padre Bonaventura.

— Lo sapete?

— Sicuramente; perchè farne le meraviglie? Voi pagate per sapere; io so senza pagare.

— Come? da chi?

— Da quel tale che spaccia queste primizie a voi. Non forse per mezzo mio avete conosciuto quel fior di donna della signora Momina, e quel pendaglio da forca di suo marito? La signora, parlandomi di molte cose, mi ha toccato anche delle vostre confabulazioni col Bello. Io le ho detto che non se ne avesse a stupire; che si trattava di cose innocentissime, per non guastarvi il negozio. Il Bello poi mi ha parlato schiettamente, sebbene abbia negato di ricever denaro da voi. Ma io conosco il galantuomo! [p. 122 modifica]Ditemi, Collini; quanto avete dato al Garasso, per cavarne questi segreti?

— Dugento lire.

— È troppo salato, il vostro segreto. Io invece so tali cose del Garasso, che egli viene da me come la biscia all’incanto, e mi spiffera tutto, parendogli grazia che io voglia star zitto sui fatti suoi.

— Ma io non sapevo nulla di ciò; — sì provò a dire il Collini, mortificato. — Voi, padre mio, la sapete più lunga....

— Del diavolo, volevate dire? Sia pure. Il Garasso, tanto che lo sappiate, ha dimestichezza con una certa combriccola di ladri, che la Questura non è anche venuta a capo di scovare, e tiene il sacco a costoro, nascondendo o facendo vendere alla cheta qua e là i frutti della loro industria.

— Che cosa mi narrate voi mai, padre Bonaventura! E coi guadagni che farà certamente in questo ramo di commercio, ha egli bisogno di giuocare? Io so che il suo denaro egli lo manda a male a picchetto e a biliardo.

— Lo sapete! Ve lo avrà detto egli. Io so invece, e l’ho di buon luogo, che non è un giuocatore sfortunato. Il biliardo e qualche partita a picchetto non sono poi la botte delle Danaidi. C’è anzi qualche luogo riposto dove si giuoca alla carrettella e alla roulette, e dove il Garasso ha trovato il filone di una miniera; ma ci vuol altro a saziare le voglie della Violetta!

— Della Violetta? Chi è questa Violetta?

— Ah, non lo sapete? È una mala femmina, molto bella e molto capricciosa. Si fa chiamare così, per scimiottare quella tal donna che hanno messa sul teatro.

— La Traviata?

— Sì, che è una figlia naturale della Signora delle Camelie.

— E voi dite che il Bello....

— È innamorato fradicio di questa donna, e tutto il danaro che egli ruba agli altri, passa per le mani della Violetta, come pel buco dell’acquaio!

— E la signora Momina non ne sa nulla?

— Bravo! se lo sapesse, gli caverebbe gli occhi. Quella vecchia peccatrice è pazza del marito, e gli dà anche una parte de’ suoi denari, perchè la sfoggi cogli amici e tiri innanzi a volerle bene. Anche costei ci ha trovato la penitenza de’ suoi peccati, in quel suo bel maritino; e chi sa che un bel giorno egli non le faccia scontare tutte le sue ladrerie!... — [p. 123 modifica]

Il padre Bonaventura faceva quel discorso edificante, in quella che proseguiva a sarchiellare i suoi orticini e a mettervi le sementi di lattuga. Era un uomo assennato, il padre Bonaventura, e soleva dire che chi ha tempo non aspetti tempo.

Il dottor Collini era rimasto muto, e tutto vergognoso in cuor suo per la soverchiante saviezza del maestro, il quale sapeva tante cose e cavava profitto da tutte.

— Eccovi dunque, mio buon figliuolo, — proseguì il gesuita, — in che modo io tenga stretto il Garasso, e perchè io abbia a così buon mercato i segreti che voi pagate così cari. Ma non ve ne date pensiero più del bisogno; tutti i giorni se ne impara una, ed io sono molto più innanzi di voi nella vita. Soltanto io vi raccomanderò di studiare, di non perdere una parola di tutto quello che udrete narrare da altri, sebbene a prima giunta non v’abbia a parere di molto rilievo. Non v’è nulla d’inutile a questo mondo, e presto o tardi ogni cosa viene in taglio. Sapete la storia del ferro di cavallo?

— Io no; che storia è questa?

— È una storia dell’Evangelio: di uno degli Evangelii apocrifi, intendiamoci bene; che non vorrei esser preso da voi per uno spacciatore di frottole ed un cattivo cristiano. Ve la racconterò, perchè mi pare che calzi mirabilmente al caso vostro.

— Raccontatela, padre mio, se è vero che io debba cavarne profitto.

— Una volta.... Come vedete, la storia incomincia al modo di tutte le altre. Una volta, nostro Signore (e così dicendo il gesuita si cavò umilmente la berretta di velluto) andava a diporto per un paesello, che non so bene se fosse Emaus, o Cafarnao, e gli veniva ai panni l’apostolo Pietro. Andando innanzi, quest’ultimo incespicò in un piccolo arnese di ferro che stava per terra, e chinati gli occhi a guardare, e veduto che era un ferro di cavallo, gli diede un calcio per buttarlo sprezzatamente da un lato della strada. Nostro Signore, che vedeva tutto, si volse e andò a raccogliere quel pezzo di ferro. Pietro, il quale a que’ tempi non era ancora il principe degli Apostoli e quel valentuomo che divenne poi, crollò le spalle, come se quella del maestro fosse stata una fanciullaggine. Ma il maestro non disse nulla, e come furono giunti dinanzi alla bottega di un maniscalco, vendette quel ferro di cavallo per due soldi, che gli servirono poco stante per comperare una manata di ciliegie.

— È una graziosa storia! — esclamò il Collini, ridendo. [p. 124 modifica]

— Statemi a sentire, che viene il buono: Pietro non aveva badato più che tanto a quei traffichi, e quasi rideva sotto i baffi di quella lezioncina del maestro, la quale non gli pareva poi molto rilevante. Ma egli avvenne poco dopo che dovessero fare una lunga strada in un luogo deserto, sotto il flagello del sollione. Pietro si lagnava dell’arsura, e non si sentiva più gambe da tirare innanzi. — Se trovassimo una fontana! — diceva egli tra sè. Ma la fontana non c’era, e il povero apostolo moriva di sete. Ma vedete miracolo! Andando con gli occhi bassi e la lingua penzoloni, alla guisa dei cani, vide a terra una ciliegia; la colse e se la mangiò con un gusto da non dirsi a parole. Più oltre gli avvenne di trovarne una seconda, poi una terza, una quarta e via discorrendo, le quali andavano tutte a rinfrescar l’ugola arsiccia dell’apostolo. Sapete il proverbio, Collini?

— Una ciliegia tira l’altra; — rispose il discepolo; — è questo il proverbio al quale accennate?

— Sì, per l’appunto. Una ciliegia tirava l’altra, perchè la tasca di nostro Signore era bucata, e le ciliegie cadevano sempre, senza che egli avesse aria di addarsene. Quando non vi furono più ciliegie, erano giunti al loro destino: Pietro non pativa più la sete, e sebbene non ardisse parlare, ringraziava in cuor suo la previdenza del Maestro. Questo allora sorridendo si volse e gli disse: — O Pietro, uomo di poca fede, crederai tu ora che non c’è nulla di inutile a questo mondo, e che anco un ferro di cavallo, trovato in mezzo alla strada, può giovare a qualcosa?

— L’apologo è bello, — disse il Collini, chinando il capo, ed io voglio farne il mio pro’. Ma intanto, facessi male, o no, a pagare così profumatamente il Garasso, questo Salvani è in nostro potere.

— Non lo nego. Io già ve lo avevo detto là sulla spiaggia di San Nazaro: tutti costoro daranno nella pania da per sè. Sono scapati, pieni di fumo e di vento, e noi potremo, quando ci paia, farli ballare sulla croce di un quattrino. Ma credete voi ora non ci sia nulla, proprio nulla di meglio da fare?

— E che cosa? — esclamò trasognato il Collini.

— Prendete questo cannocchiale.

— Per che farne?

— Ora vedrete. Aggiustate le lenti alla vostra veduta a guardate laggiù, su quel tetto aguzzo, che cade appunto nella visuale del Molo vecchio.

— Vicino al porto? — chiese il Collini, guardando. [p. 125 modifica]

— No, molto più vicino a noi. Quando vi dico che casca nella visuale del Molo vecchio, gli è per farvi intendere la direzione. Vedete su quel tetto aguzzo un terrazzo con quattro pali verdi sugli angoli?

— Ah sì, presso il campanile delle Vigne.

— No, più a sinistra. C’è anco in un cantuccio una pianta stecchita, che a guardarla così senza cannocchiale sembra un gran ramo secco, ed è in quella vece un pèsco od un mandorlo, come potrete vedere dai fiori che ha messo.

— Sì, sì, vedo; c’è anche una donna su quel terrazzo.

— Molto bella, non è vero?

— Sì, molto bella. E chi è?

— Non capite. Quella è la casa di Lorenzo Salvani.

— Ah! — disse Collini. — Sua sorella....

— Sua sorella! — esclamò con piglio ironico il padre Bonaventura. — Lo dicono; ma non è sua sorella.

— Oh oh! Un altro segreto? — soggiunse il dottore, levando il cannocchiale dagli occhi e guardando il maestro.

— Perchè no? — rispose questi. — Ce n’ho di molti, io, e vi so dire che escono tutti a suo tempo dal bossolo.

— Voi dunque dicevate che non è sorella del Salvani?

— No, certo; ma il dirlo non basta, e bisogna averne in mano le prove. Quella bella fanciulla che vedete lassù, intenta a gettar le briciole di pane ai colombi del vicinato, fu condotta dal padre Lorenzo Salvani in casa della moglie, che poteva avere otto anni, o in quel torno. Taluni credettero che fosse il frutto di un amorazzo del colonnello rivoluzionario; ma questa era un’invenzione delle male lingue, ed io so che la fanciulla non è in nessun modo consanguinea del vostro signor Lorenzo.

— Il mio! — borbottò il Collini tra i denti. — Così diceste il vero!...

— Sarà, sarà, non dubitate, uomo di poca fede! Ma pensiamo ai modi. È una buona e savia giovinetta, quella che vedete, ed io so ancora di certi misteri domestici che le tornano ad onore grandissimo. Insomma è l’angelo di quella casa, e occorre levarla di là, combattere l’avversario nel suo campo.

— E come fare? — chiese il Collini che stava con tanto l’occhi a guardare il maestro.

— Eh! bisognerà scoprire anzitutto il segreto di quella nascita. C’è in casa Salvani un certo cofanetto d’ebano nel quale potremmo trovare il fatto nostro; ma quel cofanetto è molto ben custodito; e per averlo in mano.... [p. 126 modifica]

— Qui sta il busilli!

— Sicuro, il busilli sta qui; ma è già un gran che averne scoperta l’esistenza.

— Certo, padre mio; ma in che modo avete potuto trapelare tutto ciò?

— Questo, poi, — disse il padre Bonaventura inarcando le ciglia e stringendo le labbra con aria di sussiego, — è il mio segreto. Io ve ne ho già detti tanti in mezz’ora, che non ve l’avrete a male se vi tacerò questo.

— Avete ragione, vogliate perdonare. Ma non sapete altro finora, di questa fanciulla? Non avete sospetto di nulla intorno all’esser suo?

— Eh, in quanto ai sospetti, sì certamente ci ho i miei! E se fossero fondati sul sodo, io metterei pegno di poter toglier la ragazza da quella casa. Ma per esserne certo, occorre mettere il naso in quel benedetto cofano.

— E questi sospetti si potrebbero sapere? Sarebbe questo per avventura un altro dei vostri segreti, padre mio?

— Vi siete apposto; è un altro de’ miei segreti, e ve ne starete a becco asciutto per ora.

— Oh! non mi preme punto di sapere il vostro segreto; — rispose il Collini. — Purchè io mi vendichi, non ho altro da chiedere. Voi non sapete, padre mio, quanto mi crucci questo pensiero, e che inferno mi sia diventata la vita, aspettando il giorno che mi vengano sotto le mani costoro!...

— Adagio, Biagio! — interruppe il padre Bonaventura. — Non vi scaldate così per tempo. Una cosa non può stare senza l’altra, e la vostra vendetta non può scompagnarsi, per correre più spedita, dallo adempimento del debito vostro.

— E l’ho forse dimenticato, il mio debito?

— No, figliol mio, non lo avete dimenticato; ma si può dire che lo trascuriate un tantino. Avete veduto il Vitali?

— Sì, l’ho veduto ieri. Perchè mi fate questa dimanda?

— Non avete notato, — proseguì il padre Bonaventura, senza aver l’aria di rispondere alla inchiesta del discepolo, — come il vecchio sia indurito nel peccato.... e nella sanità di corpo?

— Eh, certamente l’ho notato; ma che farci? Quel vecchio ha una complessione più salda che non paresse da prima. La dieta rigorosa e l’estratto di acònito stentano ad infiacchirlo.

— Ah! ah! Voi dunque portate opinione che la sua [p. 127 modifica]resistenza al male e ai rimedii sia proprio l’effetto della sua complessione robusta?

— Sì, lo credo; e che cosa volete che sia?

— Buon uomo! tre volte buono! — esclamò il gesuita. — E poi dicono che siete un gran medico!...

— Padre! — rispose il Collini, rizzando il capo con aria di corruccio.

— Suvvia, non andate in collera! Voi altri medici sapete sempre in un modo o nell’altro tirar l’acqua al vostro mulino, e capacitarvi anche di tutto quello che ha minore apparenza di ragionevole. Ma io, vedete! io, che non so un iota di ricette, vi so dire che gatta ci cova, e che il vecchio ci sfugge di mano, se non ci mettiamo tutta quanta la nostra avvedutezza. —

A quelle parole del padre Bonaventura, il Collini diede uno sbalzo indietro.

— Che dite mai? — gridò egli. — E come potrebbe avvenir ciò? Donde cavate questa vostra congettura?

— Da certe mie considerazioni, le quali giudicherete da per voi. Ascoltatemi. Sono oramai parecchi giorni che il Vitali sta più contegnoso del solito, e, cosa strana, non si fa più pregar tanto, quando si tratta di mandar giù qualche cucchiaiata della vostra emulsione. Anzi, per dirvela schietta, ogni qual volta io gli consiglio di bere, si affretta a prendere, non una, ma due dosi (scusate se non vi so parlare con le frasi dell’arte) e di sovente me ne domanda una terza. Ora, questo fare mi ha dato nel naso, e ier l’altro appunto ho voluto indagarne la cagione, se mi fosse dato trovarla. Avevo l’aria di uno sbadato, e guardavo, dondolando la testa, gli affreschi del soffitto; ma con la coda degli occhi stavo attento all’infermo. Vorreste crederlo? Quel manigoldo mi guatava con que’ suoi occhietti di cinghiale, e pareva farsi le beffe del fatto mio. Oh, qui c’è del buio, — dissi tra me, — e bisognerà vederci dentro.

— Ma perchè non dirmi nulla? — soggiunse il Collini.

— Perchè? Perchè non volevo dir quattro, fin che il pan non era in sacco. Anzitutto mi bisognava chiarire il sospetto. Sapete già, figliuol mio, che io sono l’uomo dei sospetti. Che diamine! Il mio buon Collini lo ha ridotto allo stremo con le mignatte, l’estratto di acònito e la fame, e il catarro cronico, in cambio di durare, vuol mentire al suo nome? E l’ammalato sta saldo e se la ride per giunta? perciò mi sono messo a studiare....

— E che cosa avete scoperto? [p. 128 modifica]

— Nulla, allora; ma ieri sera qualche cosa. Erano forse le undici, ed uscivo dalla casa del vecchio. In cambio di volgere per la via della Maddalena e ridurmi a casa, tirai innanzi dalle parti di Fossatello, per un mio negozio, anzi appunto per la faccenda di quella ragazza che vedete là sul terrazzo. Spesi forse un’ora; e al ritorno, mentre ero per risalire nella via di San Luca, vidi uscire dal portone di casa Vitali due persone, le quali vennero incontro a me con passo spedito. Io mi feci da un lato, e siccome nulla è inutile a sapersi, li guardai un po’ nel mostaccio. Ora indovinate chi fossero! Aloise di Montalto, e quel tal mediconzolo che lo accompagnava nella gita di San Nazaro.

— Chi? Il Mattei?

— Sì, appunto il Mattei. Figuratevi come rimanessi di stucco! Essi non mi riconobbero, anzi non guardarono neanche dalla mia parte. Ah, questi signorini sono pure scapati! S’argomentano di far la guerra, e non ne sanno i primi rudimenti. Hanno letto le storie moderne dell’America e dell’India, e non ricordano gli accorgimenti sottili delle Pelli rosse e dei Thugs, pei quali un ciottolo smosso, un filo d’erba piegato, sono indizio del passaggio di un nemico. Perchè vivono in un paese civile, costoro non pensano che ci sia da studiare il terreno, e da guardare, verbigrazia, ogni volto di persona in cui s’avvengono di nottetempo. Povera gente! Perciò sono sconfitti, e la loro baldanza va in fumo.

— Ma come mai, — disse il Collini, — come mai il Montalto e il Mattei avevano da trovarsi colà? Non è nemico del nipote, il vecchio Vitali?

— Anch’io dissi tra me; come mai? — proseguì il padre Bonaventura. — Ma a questo mondo bisogna aspettarsene di tutti i colori. Qui, pensai tosto, qui s’ha da trovar la chiave del segreto. Il vecchio che sta saldo e se la ride alle mie spalle; Aloise che esce di notte dalla casa del nonno, dove è certamente entrato alla cheta, appena ne sono uscito io, e che si fa accompagnare da un medico.... Qui giace nocco! Ora non è da cercare perchè fu fatta la pace; piuttosto è da sapersi in che modo.

— Sicuro! — interruppe il Collini. — È da sapersi in che modo.

— E come ve la cavereste voi, figliuol mio? Sentiamo un po’ il vostro consiglio.

— Il vecchio, — soggiunse il Collini, — non può’ muoversi dal letto, e di questo non possiamo dubitare. Egli ha dunque avuto bisogno di un intermediario. [p. 129 modifica]

— Benissimo! — esclamò il padre Bonaventura, accennando del capo.

— E bisogna trovare questo intermediario; — aggiunse il Collini.

— Arcibenissimo! Voi volete andar molto innanzi, col vostro ingegno. Ma chi potrà essere questo intermediario del malanno?

— Un servitore, di certo.

Optime! E questo servitore qual è? Il vecchio Vitali ne ha tre, senza contare la governante.

— Ah! qui, padre mio....

— Qui vi casca l’asino, non è vero? Io invece vi dirò che ha da essere il servo prediletto, quello di cui si fida maggiormente, e quello che gli ruba di più.

— Ma se v’ingannaste?... — disse con esitanza il Collini.

— Oh, non abbiate paura. Tra i servitori c’è sempre quello a cui mette più conto accattarsi la benevolenza del padrone, e qui non si sgarra. Per fortuna anche noi ci abbiamo il nostro tornaconto a invigilare i servitori come i padroni, e messer Battista vedrà com’io so aggiustarlo pel dì delle feste, se per avventura si mette a farmi l’indiano.

— Ah! il Battista!...

— Certo, il Battista; e chi altri volete che sia?

— Avete ragione, padre mio; andiamo dunque; non c’è tempo da perdere. E quel figuro del Mattei, che mi vien sulla mano? Non è un trattar da collega, il suo, e bisognerà che io gli renda pan per focaccia.

— Sì, come vorrete; — rispose il gesuita. — Intanto c’è da parare il colpo di questi signori, e questo, appena io abbia dette due paroline al Battista, sarà compito vostro. Siete un valente medico, e non dovete fallire al vostro buon nome.

— Oh, in quanto a ciò, se voi avete il modo di guastare il tranello di que’ signori, abbiatelo per cosa fatta.

— Ed io vi prometto che vi darò tanto in mano da vendicarvi dei vostri nemici; parola di Bonaventura Gallegos. Andiamo dunque. —

E così dicendo, il padre Bonaventura, degno concittadino di Torquemada, come i lettori hanno già indovinato dal suo cognome, andò a lavarsi le mani sotto lo zampillo di acqua che mandava per le nari il delfino della vasca; poi prese il suo cannocchiale e precedette nelle sue stanze il discepolo.