I rossi e i neri/Primo volume/XIII
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XIII.
Di una gita che fece il dottor Collini nel vicolo di Mezza Galera.
Conoscono i lettori il vicolo di Mezza Galera? È uno di due, che salgono da piazza delle Erbe (detta dal popolino Piazza Nuova da basso) fino al celeberrimo vicolo del Fico. Quei luoghi, tra Sant’Andrea, Sarzano e San Donato sono ancora, insieme coll’altra regione da Scurreria fino a Banchi, tra i più sudici e tetri della vecchia Genova; e il vicolo di Mezza Galera, ai tempi del nostro racconto, era degno più che mai del suo nome, poichè raccoglieva nel bel numero de’ suoi abitanti la famiglia Garasso, nella cui casa dobbiamo oggi recarci.
Non ci sarà da turarci il naso, badate. Entreremo in una scala abbastanza pulita, col vestibolo imbiancato di fresco, e certi scalini di lavagna sui quali si sono già commessi piedini più riguardosi dei nostri; i quali piedini salivano, al pari di noi, fino al secondo piano, dov’era un uscio dipinto a nuovo tutti gli anni, con un picchiotto di ferro, per farsi udire dalla gente di casa. Il campanello sarebbe stato arnese di troppo sfoggio colà, e i monelli del vicinato non avrebbero posto gran tempo a strapparne la corda, o a tagliare la nappa.
L’appartamento di quel secondo piano è piccolo; ha tre camere, la cucina e qualche bugigattolo dei soliti. Le masserizie sono vecchie e malinconiche, segnatamente in una sala più grande, che ha l’aria d’essere il salotto della casa, se si badi ad una tavola quadrata posta nel mezzo e coperta di un grosso tappeto di lana rossa, con due stoini da’ piedi; ad un vecchio stipo intagliato, con suvvi una scarabattola di cristallo, nella quale si vede un Gesù bambino vestito di raso bianco, che tiene il mondo in mano; ad un sofà, con due cuscini ritti a mo’ di spalliera; finalmente ad un grosso armadio di noce, a sportelli, sull’alto del quale fa bella mostra di sè una civetta impagliata.
Un’altra civetta, ma non impagliata, è seduta presso la finestra, su d’una larga sedia a bracciuoli. È la padrona di casa, a cui diamo quel nome per una certa aria di parentela che il suo volto ci aveva con quell’uccello di rapina, quantunque ella, a’ suoi tempi, fosse stata in voce di donna belloccia anzi che no, e coi suoi quarantacinque suonati, con la esorbitanza adiposa delle forme, potesse ancora, presso taluni di più facile contentatura, passare per un bel pezzo di femmina. Era una femmina alta e di grosso calibro, come le vecchie colubrine dei nostri antenati, e chiudeva la prepotenza smisurata delle forme in una casacca di velluto nero, orlato di fettucce di seta marezzata, e in un gonnellone di lana verde, partito a larghi quadri, molto appariscente, sebbene un po’ stazzonato dall’uso.
Quella donna aveva fatto di molte cose, nella sua gioventù; ma nel tempo di cui si narra, aveva anche messo di costa qualche migliaio di scudi, e da quattro anni si centellava le purissime gioie di un matrimonio d’inclinazione.
In quel cuore, coperto a sette doppi come lo scudo di Aiace, era dunque penetrato il dardo d’amore? Sissignori; la nostra signora Momina (a chi nol sapesse diremo che Momina era un vezzeggiativo di Geronima) aveva un cuore fatto a bella posta per amare, a malgrado di tutte quelle cortine, rivellini e bastioni di carne, che vietavano gli approcci della fortezza.
Fin da quando ella era a’ servigi del signor Omobono, vecchio calzettaio, il quale appunto da quattro anni aveva tirate le calze, la signora Momina, che allora aveva titolo di donna di casa, ed ufficio di serva padrona, aveva adocchiato un giovanotto dalla zazzera bionda e dalla faccia rosea come le mele carle, il quale passava tutti i giorni sotto le sue finestre.
Costui era stato garzone di bottega presso uno stipettaio; poi si era accomodato da un fabbro; più tardi aveva mutato d’arte e di principale, ma non imparando altro che a darsi bel tempo e suonare la fisarmonica. Gli amici lo chiamavano il Bello, e tale pareva alla signora Momina; la quale si reputò la più avventurata femmina del quartiere, quando si fu avveduta che quel giovinotto era tutt’occhi per lei, e che alla notte andava a farle la serenata col suo malinconico strumento a manticino.
Tutte quelle cose le andarono cosiffattamente al cuore, che non istette lunga pezza a farsi trovare sull’uscio di strada; e colà, poichè la signora Momina non era donna da volerlo far sospirare e struggersi, con troppo danno di quelle guance rosee, furono fermati i primi patti della resa. D’allora in poi il Bello salì fino in casa; dapprima raramente e con molti riguardi, poi tutti i giorni alla libera. Il vecchio calzettaio era a letto e non aveva nulla a vedere di quell’intruglio; di guisa che il Bello non ebbe più mai a piatire in casa propria per desinare e cenare, come faceva senza portarci quattrini.
Là, in casa del vecchio bietolone, egli ci aveva ogni cosa; i bocconi prelibati, le vestimenta e i denari per le male spese. La provvidenza gli s’era fatta incontro, sotto le spoglie della signora Momina, e figuratevi che gran provvidenza l’avesse ad essere, una provvidenza innamorata.
Il vecchio padrone morì, e quella sera se ne bevve un bicchiere di più, per dargli l’estremo vale all’uso degli antichi. Gli eredi non avevano potuto ritogliere alla signora Momina quel tanto che il vecchio le aveva lasciato, in ricompensa delle sue cure assidue, nè quel tanto che ella aveva saputo metter da parte, di roba e denaro. Però, quando ella profferse la sua candida mano al biondino, egli non se lo fece dire due volte; e due mesi dopo, il parroco delle Vigne celebrava le nozze.
Il Bello la faceva contenta fra tutte le mogli. Di tanto in tanto correva qualche manrovescio, ma le lividure erano sempre colorite d’un tal poco di gelosia: onde la signora Momina, se per avventura le dolevano le carni, aveva a ricattarsene largamente nella soddisfazione della sua vanità femminile. E poi, era un così leggiadro garzone, e sapeva chiedere così bene la pace, quando aveva bisogno di denaro! Chi bene ama, soleva dire la signora Momina, chi bene ama, bene bastona.
Costei, come si è detto, ci aveva in serbo un bel gruzzolo di scudi; ma guadagnava anche piuttosto largamente, facendo l’indovina coi mazzi di carte, e in casa sua ci bazzicavano molte signore, senza contare le gran dame che la mandavano spesso a chiamare. Questa di sapere il futuro è sempre stata una manìa delle donne, e talvolta anche degli uomini; laonde la nostra indovina del vico di Mezza Galera faceva quattrini a bizzeffe ed aveva modo di mettere il naso in un visibilio di pettegolezzi, i quali è fama andasse poi a rifischiare ad un certo valentuomo che li pagava ad oro sonante.
Che cosa faceva intanto il Bello? Si occupava di cose politiche; era un Verrina in sessantaquattresimo, un Bruto che avrebbe ucciso non uno ma dieci tiranni, e che, mancandogli la buona occasione di trovarseli sotto le mani, passava il tempo nelle ultime sale della bottega da caffè del Gran Corso, giuocando grosse poste a biliardo e a picchetto. Leggeva l’Italia e Popolo e si vantava anzi di aver contribuito coi suoi denari al sostentamento di quel democratico giornale, nè si riteneva dal dire qualche volta (in un crocchio di amici profani alla politica) come egli avesse stretto la mano a Giuseppe Mazzini.
Queste cose, già s’intende, non si arrisicava a dirle al cospetto di Francesco Bartolomeo Savi, direttore di quel giornale, ed ottimo cittadino di cui Genova rimpianse nel ’64 la morte luttuosa, nè d’altro dei capi del partito, ed amici del Mazzini; i quali, parte non lo conoscevano neppure, parte lo avevano in conto di un semplice gregario, e gli perdonavano l’ozioso vivere e la mania del giuoco, in grazia del fervore che egli mostrava per la causa comune.
Parecchi di questi ottimi popolani sapevano bensì della vita oziosa del Bello, e del bazzicar che faceva in certi luoghi; ma, buona gente ed aliena dai cattivi giudizi, non ci guardavano tanto nel sottile. Alla fin fine, spendeva del suo, e nessuno andava a grattare quella superficie per vedere sotto l’intonaco. D’altra parte, egli era così ardito nella affermazione de’ suoi propositi, si mostrava così bollente ne’ suoi entusiasmi, che sarebbe stato proprio un fargli villania, il non aggiustar fede alla saldezza ed alla onestà de’ suoi intendimenti.
Questo bel mobile era il marito della signora Momina, dottoressa in cartomanzia. Adesso vedremo che cosa andasse a fare in casa loro quel signore dai capelli rossigni, il quale, mentre noi eravamo intenti a dipingervi quella coppia felice, saliva le scale e bussava all’uscio del secondo piano.
— Serva umilissima, signor Magnifico! — esclamò la signora Momina, aprendo l’uscio al dottor Collini; che era appunto egli il visitatore della famiglia Garasso.
— Buon giorno, signora Momina; è in casa suo marito?
— Sissignore, è in casa; ma il poverino è ancora nel primo sonno. Questa notte, per far servizio a Vossignoria, come mi ha detto, è venuto a casa molto tardi. Ma non dubiti, corro a svegliarlo.
— Brava! gli dica che si spicci, perchè ho fretta. —
La signora Momina andò nella camera da letto a scuotere il marito, che borbottò un poco e bestemmiò per giunta; ma quando ebbe udito che c’era il magnifico dottor Collini ad aspettarlo, fu pronto a sedersi sul letto e a stropicciarsi gli occhi.
— E così, signora Momina, come vanno le faccende? — chiese il Collini alla femmina, quando ella tornò in sala a fargli compagnia.
— Oh, non c’è male; io non posso lagnarmi della fortuna. A proposito, sono già stata questa mattina dal signor Bonaventura. Quello è un uomo che si alza per tempo! Tra l’altre cose che ho potuto raccontargli ce n’è una, la quale egli mi ha detto di riferirla a Vossignoria; e sebbene io non sappia quanto le possa premere....
— Dite, dite! Di che si tratta?...
— Si tratta di una cameriera alla quale sono andata a far le carte ieri mattina, di là dall’Acquasola. Costei ci ha un suo innamorato, del quale voleva conoscere la fedeltà, e mentre stavamo nella sua camera a fare il giuoco, è sopraggiunta la padrona, una gran dama, che ha voluto fermarsi a vedere, e poi le è frullato in capo che indovinassi qualcosa anche a lei.
— E come si chiama questa signora? — chiese il Collini. — Se il signor Bonaventura vi ha detto di raccontarmi questa, gli è segno che mi sarà necessario di conoscere i personaggi.
— È la contessa Cisneri; — disse la signora Momina, — una bionda....
— Ah, sì, la conosco, proseguite.
— Orbene, ho fatto il giuoco anche alla signora contessa, ed ho scoperto un fante di fiori, il quale era cotto straccotto per la regina di quadri: che essa non lo vedeva di mal occhio; che lo aspettava e che egli era appunto per via.
— Benissimo, e poi?
— La signora contessa ha riso molto, ed ha voluto che continuassi il giuoco, stando molto attenta a tutte le cose che io le narravo, segno che le carte dicevano la verità. Poi mi ha congedato, dandomi due scudi.
— È qui tutto?
— No. Quando la signora contessa se ne andò, la cameriera mi disse che avevo indovinato tutto per bene; che il fante di fiori c’era da parecchi giorni; un certo signor Sovani.... Silvani....
— Forse Salvani? — interruppe il Collini, a cui quelle storpiature della signora Momina avevano fatto aguzzare gli orecchi.
— Sì, per l’appunto, Salvani; un signore bruno, che si è battuto in duello. Così mi disse la cameriera, e infatti nelle carte, il duello c’era sempre alle spalle del fante di fiori.
— Ah! — disse il Collini tra sè. — E come diamine lo ha conosciuto, la Cisneri? Sta bene che per ora io non posso andare in sua casa, dopo quel maledetto negozio.... Ma esserci andato subito egli.... Oh, adesso più che mai è necessario che io mi vendichi di tutti costoro. —
Poi, volgendosi alla signora Momina, e simulando un’aria contenta, il Collini le disse:
— Vi ringrazio della storia; ma in fede mia non capisco perchè il signor Bonaventura vi abbia detto di raccontarmela. Conosco la Cisneri; ma che abbia un fante di fiori o non l’abbia, non è cosa che possa premere a me. Vedremo poi, se ci sarà una continuazione; e chi sa che non n’abbia a nascere cosa che torni utile di sapere.
— Certo, signor Magnifico, ed io sarò sempre disposta a dirle ogni cosa. Ma ecco mio marito. —
«Mio marito!» Per dire queste due parole, la signora Momina compose le labbra ad un sorrisetto vanitoso che pareva dicesse: guardate che bell’omino gli è mai!
Ma il Collini non ci badò più che tanto; e dopo aver, risposto ai saluti del Bello, entrò con lui nella camera da letto, dove si sedette e cominciò subito a parlare di cose importanti.
— Orbene?
— Ci siamo; — disse il Bello, — vogliono fare da senno.
— Ma egli, come c’entra?
— A capo fitto; è dei più caldi.
— Ma via, raccontatemi tutto. Dove si radunano? Quali sono i loro mezzi? Che cosa intendono fare? —
Il Bello non rispose a questa furia di domande se non stringendo le labbra più volte, abbassando gli occhi, e simulando l’esitanza di un uomo che sente un po’ di rimorso.
— Suvvia! — disse il Collini. — Che cosa vi ho mai rifiutato, io? Non sono ricco, e mi levo, sto per dire, il pan di bocca per voi. Volete di più? Fin dove la mia borsa consentirà che io giunga nello spendere, giungerò. Eccovi intanto questi altri sul conto. —
E così dicendo, il Collini, posto mano al portamonete, ne cavò fuori un biglietto rosso che diede al Bello, e che questi, non che ricusarlo, si affrettò a mettere in tasca, accennando al Collini che parlasse più sommesso, per non essere uditi da quella colomba di sua moglie.
— Che cosa? — disse il Collini. — Vostra moglie non sa nulla....
— Nulla, signor dottore. Le ho detto che dovevo farle servizio in una certa faccenda; ma ella non s’immagina che Vossignoria mi abbia a dare la croce di un quattrino. Per dinci, se lo sapesse, sarebbe donna da voler la sua parte.
— Mentre in cambio voi volete la vostra di quelli che essa guadagna.
— Eh, signor dottore, come fare? Perdo sempre, a quel maledetto giuoco! E poi, alla mia età, bisogna bene che mi dia un po’ di bel tempo.
— Avete ragione; tristo chi non sa pigliare il mondo pel suo verso. Ma veniamo al buono, e ditemi tutto quello che sapete. —
Il Bello faceva ancora lo schizzinoso, per non aver l’aria di cedere così presto. C’è il pudore dei bricconi, come quello dei galantuomini.
— Ma gli è.... vede Vossignoria?... vi sono di certe cose!... Alla stretta de’ conti, si tratta d’amici, e non vorrei....
— To’! avete degli scrupoli di coscienza?
— Oh no, signor dottore. So pure che Ella è un uomo per la quale, e non vorrà giovarsi di queste cose a fin di male. E poi, sono certi segreti, che ognuno li conosce a menadito.
— Io, per esempio, — disse il Collini, che cominciava a stizzirsi di tanti preamboli, — non ne so ancor nulla, ed e per questo che vi dò dugento lire al mese.
— Via, non si scaldi! — rispose il Bello, arrossendo un poco; — le dirò tutto quello che so. Gli è fino dell’anno scorso che se ne parla. È un disegno nato nel cervello di parecchi popolani.
— E non vi sono capi?
— Cioè.... Non ho detto che non ce ne siano. Da principio quella gente operava di suo capo; ma poi se ne apersero con Giuseppe Mazzini, il quale è venuto a bella posta in Genova.
— Quando?
— Oh, alcuni mesi or sono, e adesso deve tornare.
— L’avete veduto, voi?
— Io no; ma lo seppi, quando c’era, e parecchi furono a vederlo. Il disegno da prima non gli andava a’ versi; ma quando gli fu detto degli apprestamenti fatti, del gran numero di uomini sui quali si poteva contare, se ne capacitò. Si tennero molte conferenze, e fu nominato, sotto la sua direzione, un comitato misto di artigiani e di signori, per dividersi il lavoro e provvedere a tutte le occorrenze.
— E il danaro? Senza danaro non c’è musica; lo saprete pure!
— Oh, del denaro ne hanno, e col denaro si è potuto avere delle armi a carra.
— E ora cosa s’argomentano di fare?
— Non lo so. Probabilmente non lo sanno neppur essi.
— Badate, Garasso! Io voglio saper tutto; se no, smetto la musica.
— Sicuro! — rispose il Bello, ridendo sgangheratamente. — E la sua musica, signor dottore, io non son uomo da disprezzarla. Ma veda, quando io le dico che non lo sanno ancora neppur essi, gli è che non lo sanno davvero, ed io non voglio mangiarle il pane a tradimento. Che so io? Parlano di una spedizione nel regno di Napoli, nella quale entrerebbero tutti questi emigrati che sono a Genova. Altri vorrebbe tentare anche un colpo a Livorno. Altri dice che non si devono spartire le forze; insomma non c’è ancora nulla di stabilito. Qui poi si vorrebbe mettere il governo in angustie, perchè non mandasse a monte il negozio; epperciò v’ha chi propone di impadronirsi dei forti e della Darsena, come avvenne nel ’49; altri pensa che quando s’è presa una cosa, non bisogna lasciarsela fuggire di mano, e che si potrebbe fare un governo provvisorio per aspettare l’esito certo della rivoluzione a Napoli, e mettere in fiamme tutta la penisola. Ma finora sono discorsi accademici, e bisogna aspettare una risposta di laggiù.
— Da dove?
— Da Napoli. Si dice che là sia già tutto preparato, le armi distribuite, e gli animi disposti all’impresa, appena una mano di patrioti giunga a sbarcare su quelle spiagge. Ma qui vogliono esserne ben certi, e non dir quattro fino a tanto non sia nel sacco; epperciò si è mandato qualcheduno a pigliar lingua, a vedere come stiano le cose.
— Perdio! — esclamò il Collini. — E voi dicevate che non c’era anche nulla di fatto? A me pare che ce ne sia d’avanzo. E il nostro bel signorino, che fa in mezzo a costoro?
— È dei primi. Lo hanno anzi nominato membro del comitato, e lo tengono in grandissima considerazione, sebbene in molte cose mostri di non intenderla a modo loro.
— È dunque uno dei capi?
— Sì, certamente. Pare che egli non aggiusti gran fede a certi disegni; ma nessuno lo crede uomo da ciurlare nel manico, il giorno delle busse. La si figuri; si voleva menar le mani subito, e fu egli che, con le sue storie, persuase gli altri a rimettere il colpo a tempo opportuno.
— E che occasione si aspetta?
— Non ha inteso? Si aspetta la risposta di laggiù.
— E quanto credete che l’abbia a tardare?
— Non lo so. L’uomo è già partito, e non si aspetta altro che il suo ritorno per pigliare una deliberazione.
— Lo avete voi veduto?
— Chi? l’uomo che è partito?
— No; vi parlo di lui, del nostro signorino.
— Oh sì, l’ho veduto parecchie volte alla Società degli Operai, dove dà lezioni di storia, e tutti stanno ad udirlo con tanto d’orecchi. Infatti parla molto bene, e vi racconta le cose in modo che tutti le capiscono, e par quasi di toccarle con le mani.
— Questo m’importa poco, anzi nulla; — soggiunse il Collini. — E non avete altro da dirmi?
— Le ho detto tutto quanto sapevo.
— Bene, bene! Badate a non nascondermi nulla, quando vi avvenga di saper qualche cosa; e anzi tutto non perdete tempo. Sapete dove sto di casa, e potete venirmi a cercare.
— Non dubiti, signor dottore; ma Ella mi promette....
— Che cosa?
— Che il mio nome non uscirà fuori per nessun modo. Se s’avesse a risapere, io non potrei dirle altro. E poi....
— E poi, che cos’altro?
— Vorrei, — disse il Bello, — che i miei amici non ne avessero a patire. Ella sa, signor dottore, che se dico queste cose a Lei, gli è perchè la credo un galantuomo.
— E perchè vi pago profumatamente. Suvvia, non mi fate quel muso. Patti chiari, amici cari, dice l’adagio, A voi mette conto il parlare, a me il sapere; e una mano lava l’altra.
— Orbene, — soggiunse l’altro, crollando le spalle, — sia come Ella vuole. Io del resto so che sono tutti pazzi da catena, e me ne lavo le mani.
— Bravo! questo è parlare da savio. Lavatevene le mani. E intanto a rivederci. —
Dopo queste ed altre parole di minor conto, il dottor Collini se ne andò, non senza aver salutato la signora Momina, che lo accompagnò fino sul pianerottolo della scala, come si conveniva ad una persona tanto ragguardevole.
— Ve’! ve’! — disse il Bello, mentre infilava la giacca per uscire a sua volta. — È un comodo mestiere, la politica, e ci si guadagna da vivere, senza molta fatica. Chi sa che diamine vada mulinando nel suo cervello, questo medico del malanno? Basta; vengan danari; al resto pensi chi vuole, io no, certo. —
Che brava gente, quella famiglia Garasso! La moglie, con l’aiuto delle carte, diceva la buona ventura e faceva la spia nelle case. Il marito, pel vizio delle carte, vendeva i segreti degli amici. L’asso di quadri, simbolo del danaro, lo avevano ambedue al posto del cuore.