I pescatori di trepang/14. La Nuova Guinea
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CAPO XIV.
La Nuova Guinea
uantunque la Nuova Guinea o Papuasia, sia una delle più grandi isole del nostro globo, una delle più splendide e fors’anche una delle più produttive e più atte alla colonizzazione1, cosa davvero strana, inesplicabile, è una delle meno note ed a tale punto, che anche oggidì non si conoscono esattamente le sue coste, senza parlare poi dell’interno che è stato visitato da pochissimi esploratori.
Magellano, Serrano, Gaetan, Villalobos, Mendana, Drake, Cavendisk, Wan Noort, Quiros, Schouten, Hertoge, Edels, Witt, Pool, Tasman, Dampier, Roggewin, Byron, Wallis, Carteret, Boungainville, Cook, Surville, Lapérouse, Marshall, Gilbert, Baudin, Flinders, Dillon, Dupetit Thouars, ecc., che solcarono l’Oceano Pacifico in tutti i sensi, alla scoperta di nuove isole e d’isolotti senza importanza, o che rilevarono esattamente le coste del continente australiano, quasi tutti trascurarono quella grande isola, ed è molto se si degnarono di toccarla in qualche punto.
Due soli, due esploratori italiani, il Rienzi nel 1826 e ultimamente il De Albertis, s’occuparono della Nuova Guinea, esplorando una parte delle sue coste ed alcuni fiumi, malgrado le ostilità degli abitanti.
Quest’isola però, fu una delle prime scoperte, perchè il portoghese Abron vi approdò fino nel 1511, poi fu visitata da Ortiz de Retz e da Bernardo della Torre nel 1545 e da questi fu chiamata Nuova Guinea per essere direttamente opposta alla Guinea africana secondo alcuni, e secondo altri perchè i suoi abitanti che hanno la pelle nera, somigliavano agli africani; poi dal pirata Dampier nel 1669, che impose il proprio nome ad un gruppo d’isole che si trova sulle coste settentrionali ed a uno stretto, quindi da Boungainville nel 1768, da Cook nel 1770 e da Entrecasteaux nel 1793, ma come si disse, non fecero altro che toccare quelle spiagge.
Gli olandesi però, tentarono di occupare qualche punto. Nel 1822 stabilirono una colonia sulle coste occidentali ma l’abbandonarono dopo sette anni, pure trafficano ancora con quegli isolani, e anche nel 1858 mandarono una spedizione col vapore Etna, occupando alcuni punti.
Comunque sia, quest’isola è la più vasta dell’Oceania, dopo il continente australiano, e la sua superficie si calcola a 38.000 leghe geometriche, con una lunghezza di quattrocento leghe e una massima larghezza di centotrentotto.
Questa grande terra, ha delle vaste baie che potrebbero ricevere comodamente delle intere flotte, quale quella di Geelvinc ad occidente, larga ben settanta leghe e profonda più di sessanta; quella di Macluer che è assai stretta ma che s’interna nella terra per lungo tratto; quella d’Huom sulla costa orientale, quella dell’Astrolabio e di Humboldt al nord, il porto naturale di Dori nella penisola più occidentale, molto frequentato dagli olandesi, dai malesi e dai chinesi, sicurissimo, essendo protetto da due isolotti, poi la baia del Tritone, poco lontana dal mar delle Molucche.
L’interno è poco noto, ma si sa che contiene delle grandi catene di montagne, di cui alcune sono altissime. Quelle dell’Astrolabio spingono le loro vette a milletrecento metri, gli Arfak a quasi cinquemila, ma si dice che ve ne siano altre ben più elevate.
Poche notizie si hanno sui corsi d’acqua. Si conosce la Durga, che sbocca presso il promontorio di Valk e si afferma che sia uno dei più grandi, ma molti altri si scaricano al nord ed al sud, e uno di considerevoli dimensioni deve trovarsi verso l’ovest poichè molti navigatori hanno osservato, che non lungi dalla punta orientale della baia di Geelvinc, le acque del mare sono scolorite a parecchie leghe dalla costa.
L’interno è tutto coperto da foreste immense le quali nulla hanno da invidiare a quelle tanto splendide delle isole della Malesia. A migliaia si contano le specie degli alberi e quanti di questi sono preziosi!... Le noci moscate crescono senza cultura accanto agli alberi del garofano; i tecks dal robusto legno così ricercato dai costruttori di navi, crescono presso gli alberi del cedro; i pandani alle casuarine, gli alberi del cocco a quelli del pane, il prezioso sagù al betel, al pepe nero, all’arenga saccarifera, ai latanieri, agli alberi che danno la cannella, ai bambù, ecc.
Ma là, sotto a quelle immense foreste, dove svolazzano i più splendidi uccelli della creazione, vivono altresì degli uomini che godono una fama assai triste e che non vedono di buon occhio gli stranieri.
Se taluni trafficano colle navi degli uomini bianchi, vendendo a loro il trepang che abbonda anche su quelle spiagge, le preziose spezierie, i meravigliosi uccelli del paradiso per le eleganti europee, o l’argento e l’oro che traggono in gran copia dai loro monti, nell’interno vivono gli alfurassi, gli arfaki ed i karon, montanari bellicosi che hanno una spiccata passione per la carne umana allo spiedo e sulle spiagge abbondano i pirati i quali esercitano specialmente la tratta degli schiavi, vivendo anche di rapina, e lo sanno le tribù costiere, le quali li temono e assai.
Wan-Stael, che conosceva la Nuova Guinea ed i suoi abitanti, avendo più volte trafficato cogli indigeni di Dori ed avendo pescato il trepang parecchie volte in diverse baie, conosceva pure i pirati papuasi e non ignorava la loro ferocia, per cui appena la scialuppa si trovò nascosta dietro l’isolotto, organizzò tosto la difesa, per impedire agli inseguitori l’entrata nel fiume.
— Presto, prendete le armi ed imboschiamoci fra questi paletuvieri, diss’egli ad Hans, Cornelio, al chinese ed a Wan-Horn. Guardatevi soprattutto dalle freccie, poichè chi viene toccato è uomo morto.
— Le munizioni abbondano e siamo tutti buoni bersaglieri, disse il vecchio marinaio. Non oseranno entrare nel fiume.
— L’acqua di questo corso è poi così scarsa, che non sarà bastante per le loro pesanti imbarcazioni, osservò Cornelio.
— Ma sono capaci di salire lungo i boschi, disse il capitano. Si vedono?...
— Sì, disse Hans, che si era aperto il passo attraverso a quelle folte piante, esalanti miasmi pestilenziali.
— Cosa fanno?
— Cercano di entrare nel fiume.
— Vediamo.
Wan-Stael strisciò fra le piante e giunto all’estremità dell’isolotto, si curvò innanzi, cercando però di non farsi scorgere.
La piroga aveva girato il banco di sabbia e si avanzava lentamente e con precauzione, lungo la sponda destra, cercando di non arenarsi sui bassifondi.
Alcuni uomini scandagliavano l’acqua coi remi per accertarsi della profondità, mentre altri cercavano di discernere i naufraghi, celati fra le piante dell’isolotto. Si udivano a parlare ad alta voce, e si vedevano agitarsi ora a prua ed ora a poppa.
Quei selvaggi erano tutti di statura alta, bene sviluppati ed a prima vista sembravano africani avendo la pelle fuligginosa ma con dolci sfumature rosso-cupe od olivastre, ma avevano i tratti del viso più eleganti, il naso regolare e non schiacciato, labbra sottili, bocca piccola, volto ovale. I loro capelli erano abbondanti, lanosi, raccolti attorno ad un grande pettine di legno dipinto di rosso.
Il loro vestito si componeva d’un semplice sottanino, chiamato da loro tiidako, fabbricato colle fibre d’una corteccia d’albero, ma avevano abbondanza d’ornamenti: collane di denti di maiale e di scagliette di tartaruga e braccialetti di spine di pesce e di conchiglie.
Uno solo indossava una specie di camicia di tela rossa, ma quello doveva essere il koranas, ossia il capo.
Erano tutti armati di lancie, di pesanti sciaboloni chiamati parangs ed alcuni portavano delle cerbottane di bambù, le quali dovevano contenere delle freccie intinte nel succo estremamente velenoso dell’upas.
La loro piroga s’avvicinava all’isolotto inoltrandosi lungo la spiaggia occidentale, ma con grande fatica, non trovando forse acqua sufficiente, quantunque la marea montasse con discreta rapidità.
Giunti a circa centocinquanta metri, s’arrestarono bruscamente. Pareva che la piroga si fosse arenata, poichè si videro i pirati correre da prua a poppa osservando la corrente, poi mandare delle grida furiose.
— Si sono arenati, disse il capitano.
— Ma la marea sale e fra poco ci raggiungeranno, disse Wan-Horn.
— Se cominciassimo il fuoco? chiese Cornelio. Sapendoci provvisti di armi, potrebbero spaventarsi e rinunciare all’attacco.
— L’idea non è cattiva, Cornelio, ma finchè non aprono le ostilità, non sprechiamo le nostre palle. Per ora non ci hanno fatto nulla.
— E se approfittassimo della loro immobilità per fuggire? disse Horn. Aspettando, avremo addosso anche l’equipaggio della seconda piroga.
— Ma dove ci condurrà questo fiume? chiese Cornelio.
— Non ne so più di te rispose il capitano. Lo risaliremo finchè troveremo un luogo adatto per accamparci e quando i pirati saranno ripartiti, riguadagneremo il mare e continueremo il viaggio.
— Imbarchiamoci, signor Wan-Stael. Ecco la seconda piroga che giunge.
Il marinaio non si era ingannato. La seconda piroga, che era rimasta indietro, era giunta alla foce del fiume e cercava di unirsi all’altra che era ancora arenata.
Quel rinforzo poteva riuscire fatale ai naufraghi, poichè aumentava considerevolmente il numero dei pirati. Quantunque nella scialuppa vi fossero abbondanti munizioni, non era il caso d’impegnare una lotta contro cinquanta o sessanta selvaggi muniti di freccie avvelenate.
— Fuggiamo, disse il capitano. Giacchè la via è libera, rimontiamo il fiume.
Ritornarono verso la scialuppa e s’imbarcarono, mettendo i fucili sulle banchine, per essere più pronti a servirsene.
Tenendosi dietro l’isolotto, le cui piante erano sufficienti per coprirli, si misero a salire il fiume remando in silenzio aiutati dall’alta marea che rimontava, respingendo le acque dolci.
I pirati occupati a disincagliare la prima piroga, non si erano accorti di nulla, a quanto pareva, poichè non si udivano più a gridare.
— Che brutta sorpresa per loro, quando non ci troveranno più sull’isolotto! disse Cornelio.
— Ci cercheranno però, ne sono certo, disse il capitano. Quei furfanti non rinunceranno così facilmente alla loro preda, ma ci troveranno pronti a difenderci e non ci lasceremo sorprendere.
— Che ci siano dei villaggi su questo fiume?
— Non lo so, ignorando perfino come si chiami questo corso d’acqua. Procederemo però con prudenza e se vediamo un villaggio, ci affretteremo a nasconderci nei boschi.
— Mi pare che il fiume descriva lassù una curva, disse Wan-Horn.
— Meglio per noi; sfuggiremo più facilmente agli sguardi dei pirati. Avanti e non perdete di vista le due sponde.
Il fiume conservava sempre la sua larghezza di cinquanta o sessanta metri, ma era scarso d’acqua e seminato di banchi sabbiosi che i naufraghi erano costretti ad evitare.
Le due sponde erano coperte di alberi enormi e così addossati gli uni agli altri, da rendere quasi impossibile il passaggio. Si vedevano i giganteschi tek lanciare i loro grossi tronchi a sessanta metri d’altezza, sostenendo delle reti di liane e di nepentes; dei mangostani, somiglianti ai nostri olmi, ma carichi di frutta grosse come aranci, colla buccia bruno-violetta, delicatissimi e squisiti a mangiarsi; dei superbi artocarpi, detti anche alberi del pane, le cui frutta danno una polpa giallastra la quale si cucina sui carboni e che ha il sapore di certe specie di zucche e dei carciofi; delle magnifiche arenghe saccarifere, specie di palme con lunghe foglie piumate, le quali danno il gomiti, ossia una specie di crine vegetale che viene adoperato nella fabbricazione di certe stuoie assai pieghevoli, mentre incidendo il tronco dell’albero si ricava un liquido assai dolce, che può convertirsi in zucchero; degli alberi di cocco pure carichi di frutta, poi numerosi gambir, piante arrampicanti che danno un liquido molto attaccaticcio, adoperato con molto successo per fissare i colori sui tessuti di lusso e specialmente sulle sete; poi casnarine, alberi della gomma e bambù che formavano delle vere piantagioni.
In mezzo a quelle piante si vedevano svolazzare bande di splendidi uccelli, pappagalluzzi grossi come un gabbianello, coi becchi gialli, pappagalluzzi rossi e neri forniti di lunghe code gialle appartenenti alla specie dei charmasirra papua; poi dei promerops superbi, grossi come un piccione colle penne nere ma che sembrano di velluto, la coda lunga e larga adorna, superiormente, d’uno stravagante ciuffo e alcuni di quei magnifici cicinnuros regii; grossi come un merlo, ma colle penne scintillanti dei più bei colori che immaginare si possa. Sembrano fiori svolazzanti o meglio ancora gemme mescolate confusamente e gettate in aria, avendo riflessi rossi come i rubini, verdi come gli smeraldi, e gialli come l’oro o argentei.
Se abbondavano le piante e gli uccelli, mancavano però assolutamente gli uomini, poichè non si scorgeva alcun isolano su quelle rive. Erano approdati, i naufraghi della giunca, su di una costa deserta? Bisognava crederlo, ma per questo non erano inquieti, anzi tutt’altro, non potendo sperare alcun aiuto da parte di quegli abitanti, anzi avendo molto da temere invece.
Alle due, a circa tre miglia dalla foce, il capitano fece accostare la scialuppa alla sponda più vicina per dare un po’ di riposo ai rematori e per allestire la colazione, non avendo ancora avuto il tempo di rosicchiare un biscotto.
Non osarono però accendere il fuoco, per non attirare l’attenzione dei selvaggi che potevano accampare in mezzo a quei fitti boschi e s’accontentarono d’alcuni biscotti e d’una scatola di aringhe affumicate, alle quali aggiunsero alcuni durion, frutta squisitissime, grosse come la testa d’un uomo, armate esteriormente di spine assai acute, ma contenenti nell’interno dei semi avviluppati in una polpa bianca, delicata come una crema, ma che tramanda uno sgradevole odore di cacio marcio. Per chi non è abituato a quell’odore, riesce difficile il mangiare quelle frutta, ma quale squisitezza quando s’inghiottono!... Sono senza dubbio le migliori di tutte, superiori perfino agli ananas ed ai mangostani.
Alle quattro, non vedendo nulla di sospetto sulle due rive, e volendo frapporre una notevole distanza fra loro ed i pirati, che forse avevano ripreso l’inseguimento, ripartivano salendo il fiume il quale non accennava ancora a restringersi.
La loro corsa però non durò molto, poichè verso le sei, mentre le tenebre cominciavano ad addensarsi sotto i boschi e la marea a ridiscendere rapidamente, la scialuppa si arenava su di un banco di sabbia, situato quasi in mezzo al corso d’acqua.
Note
- ↑ Nel 1879 in Italia era sorta l’idea di occupare una parte della Guinea e di mandarvi degli emigrati, circa 3000, ma poi fu abbandonata e forse a torto.