I naufraghi dello Spitzberg/9. Il ritorno
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CAPITOLO IX.
Il ritorno.
Quei disgraziati piangevano e ridevano ad un tempo, avendo ormai perduta ogni speranza di venire salvati.
Erano ridotti in più deplorevoli condizioni dei superstiti della Tornea. Erano sfiniti per le privazioni e pel freddo, magri, pallidi, stracciati ed alcuni erano stati già presi dallo scorbuto, in causa dei lunghi digiuni, dell’umidità e delle sofferenze d’ogni specie.
Da trenta ore avevano divorato i loro ultimi biscotti e si erano coricati nell’interno della capanna, una catapecchia mezza rovinata, aperta ai venti ed alle nevi, attendendo la morte.
Tompson fece distribuire i soccorsi portati dai suoi marinai, poi informò i naufraghi della necessità di abbandonare subito l'Eis-fiord. Cominciava già ad essere inquieto, temendo che la Torpa fosse stata trascinata al largo.
Con alcuni pezzi di legno strappati dalle pareti formarono alla meglio alcune barelle, vi si collocarono coloro che lo scorbuto aveva ridotto in uno stato di debolezza da non potersi sorreggere, poi tutti scesero la costa abbandonando, senza rimpianto, quell’abituro meschino che doveva diventare la tomba degli ultimi superstiti del Gotheborg.
Sui banchi, il numeroso drappello si unì agli altri cinque marinai della Torpa ed ai naufraghi della Tornea, quindi tutti si misero in marcia verso lo sbocco dell'Eis-fiord, tirando e spingendo le due slitte e portando gli ammalati.
La neve non era cessata, anzi cadeva con maggior rabbia, volteggiando vorticosamente sotto le raffiche del vento polare, ed il freddo era così acuto, che l’alito di quegli uomini si gelava attorno ai baffi e alle barbe in forma di sottilissimi aghi.
I ghiacci non erano più tranquilli. Quel rapido abbassamento di temperatura aumentava il loro volume, producendo delle pressioni irresistibili.
Tuonavano sordamente sotto i piedi dei marinai, poi muggivano come sotto di essi soffiasse un vento formidabile, scricchiolavano, si fendevano, poi si riunivano rialzando i margini. Talora invece su quei banchi si formavano delle screpolature concentriche e poco dopo si aprivano sbalzando in aria blocchi di ghiaccio, si slanciavano fuori colonne o piramidi che subito precipitavano con cupi rimbombi.
Tompson, le cui inquietudini crescevano, incoraggiava tutti ad affrettare la marcia.
– Presto presto, ripeteva, o non potremo più giungere alla Torpa.
Erano già giunti presso l’isolotto su cui erano stati raccolti i primi naufraghi, quando verso il mare si udì a echeggiare una fragorosa detonazione.
– Il cannone da caccia delle balene! esclamarono i marinai della Torpa.
– Sì, disse Tompson. Ci segnala di affrettare il ritorno. Professore, capitano Jansey, seguitemi, e voi altri marciate più rapidamente che potete.
I tre uomini si slanciarono fra i turbini di neve, cercando di dirigersi verso il margine dei banchi. Il cannone da caccia delle balene continuava a tuonare, ad intervalli di cinque in cinque minuti.
La Torpa doveva correre qualche pericolo, perchè il suo equipaggio richiamasse a bordo il comandante. Probabilmente il wacke si era messo in movimento, trascinando la nave al largo.
Dopo una corsa di un quarto d’ora, Tompson ed i suoi due compagni giungevano presso il mare, là dove erano state lasciate le scialuppe. Una baleniera, montata da un fiociniere e da sei marinai, stava allora approdando.
– Cosa succede? disse Tompson a quegli uomini.
– Capitano, disse il fiociniere. Il vento spinge il wacke verso il sud ed il mare diventa cattivo. Se non vi affrettate, non potremo più raggiungere la nave.
Tompson lanciò un rapido sguardo sul mare, ma la neve e la nebbia impedivano di scorgere la Torpa. Il grande banco di ghiaccio però scintillava a circa tre miglia dalla costa.
– Saremo a bordo prima che si allontani troppo, disse. I miei uomini e i naufraghi stanno per giungere. Intanto avvertiamo l’ice-master del nostro ritorno.
Armò il fucile e lo scaricò tre volte in aria. Quel segnale era stato stabilito per avvertire l’equipaggio del ritorno della spedizione, nel caso che la nebbia avesse impedito di scorgersi vicendevolmente.
Uno sparo del pezzo da caccia fu la risposta, seguìta poco dopo da una salva di fucilate.
– Tutto va bene, disse Tompson. Ci aspetteranno sul margine esterno del wacke.
L’avanguardia dei naufraghi cominciava a comparire fra i turbini di neve.
Furono gettate in acqua le due scialuppe, che erano state issate sui banchi per tema che le onde le fracassassero contro i ghiacci, o che i palks e gli streams le danneggiassero, poi cominciò l’imbarco.
Diciotto uomini presero posto nella scialuppa maggiore, quattordici nella seconda e gli altri si accomodarono nella baleniera.
Il mare era sconvolto, spazzato da cavalloni spumeggianti che trascinavano con loro pezzi di ghiaccio strappati ai banchi, ma il tragitto era breve.
Arrancando con lena disperata e cercando di evitare le onde troppo elevate, le due scialuppe e la baleniera poterono guadagnare il wacke, sulle cui sponde le attendevano alcuni marinai della Torpa guidati dall’ice-master.
– A bordo, capitano disse questi a Tompson. Il wacke va alla deriva ed il bacino minaccia di gelare tutto e di restringersi sotto le pressioni.
– Ormai me ne rido dei ghiacci, delle pressioni e delle derive rispose Tompson, che era in preda ad una viva allegria. La mia missione è finita felicemente e non temo più nulla.
– Sì, mercè la vostra audacia e la vostra abilità, disse il capitano Jansey. Signor Tompson, lasciate ora che vi ringrazi a nome di tutti i miei marinai che avete strappati ad una morte certa.
– Un abbraccio, camerata, e non si parli più di ringraziamenti rispose il baleniere. Gli uomini di mare, voi lo sapete, non vogliono sentirne.
I due uomini si precipitarono l’un fra le braccia dell’altro, mentre i marinai urlavano a piena voce:
– Viva il capitano Tompson!...
– Silenzio, ragazzi miei, a bordo! disse il baleniere, cercando, ma invano, di vincere la commozione. Ognuno abbiamo fatto il nostro dovere e basta.
Le scialuppe e la baleniera furono issate sul wacke ed il numeroso equipaggio, portando gli ammalati, sostenendo i più esausti e spingendo le imbarcazioni, attraversò il banco, mentre i marinai rimasti a bordo della Torpa lanciavano fragorosi urràh!
Il bacino stava per gelare, ma il ghiaccio fu spezzato a colpi di remi e le tre scialuppe poterono giungere felicemente presso la nave.
Quando i naufraghi della Tornea e del Gotheborg si trovarono fra i loro vecchi camerati, diedero libero corso alla loro gioia che fino allora, durante quella ritirata precipitosa, avevano dovuto soffocare. Ridevano, piangevano, si abbracciavano gli uni gli altri, balzavano al collo dei marinai della Torpa e acclamavano a piena gola il bravo ed audace baleniere che aveva sfidato i ghiacci polari, le nebbie e gli uragani, per andarli a raccogliere su quelle terre della desolazione.
Quando quello scoppio di gioia e di entusiasmo si fu calmato e che i naufraghi furono condotti sotto coperta per rimettersi in forza con un pranzo, Tompson, il capitano Jansey, Oscar e l’ice-master si raccolsero a consiglio per decidere sul da farsi.
La Torpa, provvista come era di viveri d’ogni specie e di carbone, poteva affrontare uno svernamento in quelle alte latitudini, ma se poteva liberarsi da quel cerchio formidabile di ghiaccio, che minacciava di rinserrarla come una morsa, e fare rotta verso le coste della Norvegia, era ben da preferirsi. Riparati in una baia o dentro un fiord, lo svernamento è noioso ma non pericoloso, ma in mezzo ad un banco diventa difficilissimo e la nave può venire stritolata dalle pressioni.
Avevano poca speranza di aprirsi il passo, pure vollero accertarsi se rimaneva qualche probabilità, visitando accuratamente il wacke.
Si fecero condurre sul banco e procedettero a una serie di scandagli minuziosi, per assicurarsi dello spessore del ghiaccio. Speravano di trovare qualche parte debole o qualche spaccatura che permettesse loro di aprire un canale colle mine, colle seghe e coi picconi.
Il wacke fu percorso in tutti i versi, fu traforato in due o trecento punti ma senza speranza. Il ghiaccio aveva dappertutto uno spessore così enorme, che le aste di ferro, lunghe perfino cinque metri, non riuscivano a traforarlo ed era compatto, senza la più piccola fenditura.
Visitarono l’uscita del canale che era stata chiusa dagli ice-bergs, ma dovettero convincersi che anche da quella parte la ritirata era assolutamente impossibile. Quattro montagne di ghiaccio di dimensioni colossali, vi si erano cacciate dentro, l’una dietro l’altra e ormai formavano un blocco solo col wacke. Ci sarebbero occorsi almeno dieci quintali di polvere, per farle saltare.
– Tutto è inutile, disse Tompson. Noi siamo prigionieri e non riacquisteremo la libertà, se questo banco non si frantuma contro qualche ice-field o non si scioglie.
– È vero rispose Jansey. Ogni tentativo per aprire il passo alla Torpa, sarebbe inutile.
– Dunque siamo forzati a svernare qui, disse Oscar.
– Sì, professore, rispose Tompson.
– Ma il banco mi pare che scenda verso il sud.
– La corrente ed i venti lo spingono in direzione dell’isola degli Orsi.
– Ed in sei ore ci siamo allontanati dall’Eis-fiord di quattro miglia aggiunse l’ice-master.
– Che una corrente scenda lungo le coste occidentali delle Spitzberg? chiese Oscar.
– Sì, signore, disse Jansey. L’ho notata anche l’anno scorso, durante la stagione della pesca.
– E avete rilevata la sua direzione?
– Sì, professore. Si dirige verso il sud-sud-ovest, e sarei certo di non ingannarmi nell’affermare che va a rompersi verso le coste occidentali della Norvegia.
– Buono disse Tompson. Se il wacke non viene arrestato da altri banchi o non viene spezzato, andremo a finire sulle coste della Norvegia. Sarebbe un ritorno molto lento, è vero, ma sempre da preferirsi ad uno svernamento alle Spitzberg.
– Purchè le pressioni non ci guastino la nave, disse Jansey. Non c’è da fidarsi dei ghiacci.
– Cercheremo di mantenere libero il bacino, finchè lo potremo. Intanto prenderemo le misure necessarie per lo svernamento, perchè prevedo che la nostra prigionia sarà ben lunga e che i grandi freddi non tarderanno a giungere. Quest’anno la stagione buona si è prolungata fin troppo e l’inverno prenderà la sua rivincita senza misericordia per noi.
– Comincia già ora il tempo mettersi a male, disse Oscar. In dodici ore il termometro è disceso di dieci gradi.
– A bordo, signori, disse Tompson. Prima che il bacino del wacke geli, bisogna che la nave sia in grado di poter resistere alle pressioni.
S’imbarcarono e fecero ritorno alla Torpa, mentre la neve, che era cessata per pochi minuti, tornava a cadere in maggior copia ed il vento del nord aumentava di violenza, sconvolgendo il mare.
I marinai, avvertiti che si dovevano prendere le misure necessarie per lo svernamento, si misero febbrilmente al lavoro sotto la direzione dei due capitani e dell’ice-master.
Innanzi a tutto si procedette alla costruzione di un magazzino che doveva erigersi sul banco di ghiaccio, in un posto elevato, precauzione necessaria, potendo la nave venire schiacciata dalle pressioni prima che l’equipaggio avesse il tempo necessario di porre in salvo le provviste occorrenti per così tanti uomini.
Formata una specie di piattaforma sulla cima di un’altura che si trovava a circa duecento passi dal bacino, fu eretta una grande capanna formata di blocchi di ghiaccio rinforzati con travi e tanto vasta da poter riparare, all’occorrenza, tutto l’equipaggio.
Dentro vi accumularono provviste d’ogni qualità, sufficienti per nutrire tutti quei marinai per due mesi, poi coperte, vele, attrezzi, carbone, una stufa e le due più grandi scialuppe.
Attorno furono erette delle muraglie di neve e di ghiaccio per difendere la costruzione dalle copiose nevicate e si coprirono di tettoie, onde i marinai potessero passeggiare a loro comodo, senza esporsi alle intemperie.
Eretto il magazzino, i due capitani rivolsero le loro cure alla nave.
L’ancorarono solidamente al margine del bacino per impedire che il vento non la spingesse contro le pareti di ghiaccio, poi immersero attorno alla carena numerose e grosse travi disposte obliquamente, in modo che i ghiacci stringendosi, sollevassero la Torpa invece di comprimerle i fianchi. In tale modo potevano, in parte, evitare le tremende pressioni.
Furono poi levate le vele, calati gli alberetti del trinchetto e dell’albero maestro, ma non vennero levate le manovre, per essere più pronti, nel caso che il banco si aprisse, a prendere il largo.
Fu coperto il ponte con un tetto di tavole, rivestito di carta incatramata, a due tetti pioventi, in modo da ottenere una sala spaziosa, riparata accuratamente dai freddi esterni. Quattro finestre furono aperte per la luce e per la ventilazione.
La stiva fu accuratamente raschiata, lavata con acqua mescolata a calce e convertita in un dormitorio per l’equipaggio e anche per sala da pranzo.
Furono finalmente collocate a posto le stufe, fornite di lunghi tubi assai curvi per impedire la dispersione del calore, una nel quadro di poppa, l’altra nel dormitorio. A ognuna era stato aggiunto un grande recipiente di lamiera galvanizzata, destinato a sciogliere la neve per avere l’acqua necessaria alla cucina e per la pulizia dei marinai.
Per ultimo fu sparsa sul ponte della sabbia e della cenere per impedire le incrostazioni di ghiaccio e per assorbire l’umidità, nemica formidabile in quei climi, causa d’infiniti malanni per la salute degli equipaggi.
Il 12 ottobre quei diversi lavori erano terminati e l’equipaggio e la valorosa nave, si trovavano pronti a sfidare i terribili geli dell’inverno polare.