I naufraghi dello Spitzberg/8. I naufraghi della Tornea
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CAPITOLO VIII.
I naufraghi della “Tornea„.
Ad un tratto Oscar si rialzò rapidamente, esclamando:
– Ma sì, capitano, degli uomini parlano lassù:
– Vedete che non mi ero ingannato, rispose Tompson.
– Che siano i marinai delle due navi?...
– Lo credo, professore. Alle Spitzberg non vi sono abitanti.
– Ma noi non abbiamo veduta alcuna casa su queste rocce, prima che la nebbia scendesse.
– Può trovarsi in qualche avallamento o dietro a qualche rupe. Saliamo, professore.
– Sì, sì, saliamo!...
Ripresero la marcia fra i turbini di neve, scalando le rocce con grande slancio, spinti dalla speranza di poter in breve trovarsi dinanzi ai disgraziati naufraghi della Tornea e del Gotheborg.
Fra i fischi del vento si udivano sempre delle voci che scendevano dall’alto, ma non si potevano ancora afferrare le parole. Pareva però che gli uomini che parlavano fossero parecchi.
Il baleniere, impaziente di sapere con quali persone stava per incontrarsi, si mise a gridare con voce tuonante:
– Ohe!... Ohe!... Chi parla lassù?...
Le voci per un istante si tacquero, poi si udì un uomo a gridare in norvegiano:
– Che un orso bianco mi mangi vivo, se questa non è la voce d’un marinaio!...
– È uno scherzo del vento, disse un altro.
– No, del vento, tuonò Tompson. È una voce che viene da Vadsò!...
– Vadsò!... Vadsò!... urlarono parecchie voci: Chi parla di Vadsò?... In nome di Dio, parlate!...
– Sono il baleniere Tompson e mi manda da voi il signor Foyn.
– Il signor Foyn!... hurràh!... Siamo salvi!... hurràh!...
Attraverso alla nebbia e alla neve, il baleniere ed il professore videro delle forme umane scendere a precipizio le rupi e poco dopo si trovavano stretti fra venti braccia, sollevati e trasportati in alto prima ancora che avessero potuto pronunciare una sola parola o vedere in viso quei naufraghi.
Quando si sentirono liberi, si trovarono nell’interno di una capannuccia costruita coi rottami di una nave, di vele e di massi di ghiaccio, illuminata da due strane lampade formate da due grasse procellarie nelle cui gole era stato introdotto un lucignolo incatramato.
Dieci uomini li circondavano, pallidi, cogli occhi infossati, le guance ed il naso gonfi pel freddo, le labbra screpolate e sanguinanti pei gelidi soffi del vento polare, sparuti e colle vesti lacere.
– Chi siete voi? chiese Tompson, gettando su quei disgraziati uno sguardo compassionevole.
– Noi siamo i superstiti della Tornea, dissero sei di costoro, facendosi innanzi.
– E noi naufraghi del Gotheborg, risposero gli altri quattro.
– Ed io sono il capitano Tompson qui mandato a salvarvi, rispose il baleniere.
– Capitano, disse il più vecchio dei marinai. Noi vi ringraziamo di essere venuto in nostro soccorso e di esservi spinto fino su queste isole in una stagione, in cui tutte le navi fuggono verso il sud.
– Sì, signore, tutti vi ringraziamo, ripeterono gli altri.
– È il signor Foyn che mi ha mandato, disse Tompson.
– Un vero marinaio di cuore, dissero i naufraghi.
– Ma... siete voi soli? chiese Tompson. – Non vi eravate salvati in trenta?
– Sì, capitano, rispose il vecchio marinaio.
– Dove sono adunque gli altri?
– Nell’Eis-fiord.
– Tutti vivi?
– Tutti, ma sono alle prese colla fame. Quando noi li lasciammo, sei giorni or sono, per metterci in osservazione su quest’isolotto, essendo certi che il signor Foyn non avrebbe mancato di mandare qualche nave in nostro soccorso, non possedevamo che pochi chilogrammi di biscotti e mezza foca, che era stata uccisa il giorno innanzi dal capitano Jansey.
– È ancora vivo il capitano Jansey?
– Sì, signore.
– Sono lontani i vostri compagni?
– Mezz’ora di canotto.
– Avete una scialuppa voi?
– Sì, ma l’interno dell’Eis-fiord è ormai tutto gelato e non potrà più servirci.
– Non importa: ho quindici marinai e due slitte. Bisogna affrettarsi o la mia nave verrà trascinata lontana da queste coste. Avete fame?
– Ieri sera abbiamo divorato due procellarie e una gazza marina, dopo quaranta ore di digiuno.
– Disgraziati! mormorò Oscar.
Tompson uscì dalla capanna e formando colle mani una specie di portavoce, tuonò:
– Ohe! marinai della Torpa!... Dei viveri quassù!... Lasciate le slitte sul banco.
Pochi minuti dopo, dieci marinai carichi di viveri, giungevano nella capanna ed abbracciavano i loro camerati, che avevano già creduti morti di fame e di freddo su quelle coste inospitali.
Tompson fece distribuire dei biscotti, del cioccolato e dei liquori, poi fece fare ai naufraghi un thè bollente e quando li vide un po’ rinvigoriti, diede il segnale della partenza.
Sarebbe stato ben contento di accordare ai disgraziati superstiti delle due navi naufragate un paio d’ore onde si allestissero una colazione calda, ma un ritardo poteva diventare fatale a tutti. Il vento del nord cominciava a soffiare ed il banco che teneva prigioniera la Torpa, poteva venire trascinato al largo.
Nevicava sempre abbondantemente, ma la nebbia si era un po’ dileguata e la luce era tornata. Si poteva quindi procedere con maggior lestezza ed evitare più facilmente i pericoli.
I ventisei uomini, radunatisi alla base dell’isola rocciosa, si misero animosamente in marcia inoltrandosi nell’Eis-fiord, il quale era ormai tutto coperto di ghiaccio.
Il vecchio marinaio guidava i due drappelli in compagnia del baleniere e di Oscar.
Essendo i banchi quasi lisci e ben uniti, la marcia non presentava difficoltà, ma la neve rendeva malagevole l’avanzarsi delle slitte, quantunque Tompson avesse prima fatti spalmare i pattini con un miscuglio di zolfo e di grasso.
Mentre procedevano attraverso ai ghiacci, il vecchio marinaio raccontava al capitano e ad Oscar la storia della doppia catastrofe, che aveva costato la vita ad uno dei due comandanti ed a trentasette uomini.
La Tornea ed il Gotheborg avevano navigato assieme fino nei pressi delle coste meridionali delle Spitzberg, seguendo le tracce delle balene. Avendo osservato che in quei paraggi abbondavano i banchi di boete,1 cibo prediletto dei giganti del mare, si erano spinti fino a quelle alte latitudini.
Il 24 agosto avevano già preso due balene, quando le due navi si videro assalite da un furioso uragano che veniva dal nord, il quale spingeva innanzi a sè gran numero di ice-bergs, di palks e di streams. La Tornea, dopo una notte orribile, era stata imprigionata fra i ghiacci. Avendo cercato di rompere il cerchio che la stringeva sempre più, era andata a dare di cozzo contro un ice-berg male equilibrato.
Il colosso si era tosto rovesciato addosso alla nave con impeto irresistibile, sfracellandola. La catastrofe era stata così rapida, che solamente undici uomini erano riusciti a salvarsi su alcuni rottami.
Il mare era però così burrascoso, che di quando in quando strappava qualche naufrago. Il capitano Dikson, che era fra i superstiti, investito da un’onda in prossimità del capo sud, era stato pure trascinato via.
Per alcuni istanti era stato veduto dibattersi fra i cavalloni e le scogliere, poi era stato inghiottito.
Per quarantadue ore i naufraghi, ridotti a sei soli, avevano errato sul mare tempestoso, aggrappati disperatamente ai rottami della Tornea, finchè le onde li avevano spinti sulla costa meridionale delle Spitzberg, in prossimità del capo sud.
Intanto il Gotheborg, disalberato dalla furia dell’uragano, era stato trascinato verso la costa e si era fracassato sulle scogliere, pure nei paraggi del capo sud, perdendo un terzo dell’equipaggio.
I naufraghi delle due navi si erano incontrati due giorni dopo ai piedi del promontorio. Avendo potuto salvare due scialuppe baleniere e dei viveri e alcuni fucili, avevano deciso di rifugiarsi nell’Eis-fiord, sapendo che colà vi era una capanna costruita due anni prima da alcuni balenieri, e che in quei dintorni abbondavano le renne selvagge.
Rizzata un’antenna sormontata da due bandiere e sepolta una scatola contenente un documento, si erano imbarcati e dopo sette giorni avevano potuto rifugiarsi nell’Eis-fiord e prendere possesso della capanna.
Fino agli ultimi di settembre erano vissuti alla meno peggio, ma poi i viveri erano cominciati a mancare essendo la selvaggina assai scarsa. In trenta giorni non avevano potuto abbattere che due renne, tre foche, una morsa ed un orso bianco.
Avevano ormai perduto ogni speranza di ricevere dei soccorsi da parte del signor Foyn e si erano già rassegnati a morire, certi che il tremendo inverno non li avrebbe risparmiati.
– Il signor Foyn non vi avrebbe lasciati su queste isole senza risorse, disse Tompson. Appena lo avvertii dell’incontro da me fatto del rottame del Gotheborg, aveva messo a mia disposizione i suoi equipaggi e le sue navi.
– Ma avete incontrato un pezzo del Gotheborg? chiese il vecchio marinaio, con stupore.
– Sì, al sud dell’isola degli Orsi.
– È stata una grande fortuna.
– Lo credo, poichè senza quel rottame, il signor Foyn avrebbe tardata la spedizione di soccorso e forse nessuna nave avrebbe poi potuto aprirsi il passo attraverso la barriera dei ghiacci.
– È vero, capitano. Ma sperate di poterci condurre a Vadsö, senza svernare su queste coste?
– Lo tenterò, ma ne dubito. La Torpa è stata bloccata dai ghiacci la scorsa notte.
– E non si potrà liberare più?
– Lo temo, ma non inquietatevi. Abbiamo viveri per un anno e carbone in tale quantità, da sfidare i più intensi freddi.
– Alto!... Siamo vicini e le slitte non potranno salire la costa.
– È lassù la capanna? chiese Tompson, indicando un’alta sponda, che si distingueva confusamente fra la neve e la nebbia.
– Sì, capitano.
Il baleniere comandò ai suoi uomini di arrestarsi, ne scelse dodici dei più robusti facendo a loro prendere delle provviste e dei liquori, e si diresse verso la costa guidato da due naufraghi della Tornea.
Giunto a mezzo pendio, armò il fucile e scaricò in aria due colpi.
Pochi istanti dopo alcuni spari, che venivano dall’alto, vi risposero.
– Chi s’avanza? gridarono parecchie voci.
– Il capitano Tompson coll’equipaggio della Torpa! M’invia il signor Foyn!...
Un grido immenso, lanciato da venti voci, rispose:
– Salvi!... Siamo salvi!...
Note
- ↑ Piccolissimi granchi che si radunano in grandi estensioni.