I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento/Dei Santi Quaranta/Destinazione dell'edifizio

3. Destinazione dell’edifizio

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Dei Santi Quaranta - Descrizione dell'edifizio Dei Santi Quaranta - Età dell'edifizio
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3. destinazione dell’edifizio


Questa della destinazione dell’edifizio è una indagine difficile, imperocchè nè la storia, nè la tradizione ci porgono il minimo accenno. Bisognerà affidarci completamente alla critica.

Il P. Raffaele Garrucci1 asserì per incidente, parlando di una certa epigrafe da lui copiata su di una pietra, che questa «dovette appartenere a quella immensa fabbrica che è fuori porta S. Lorenzo in luogo detto Santi Quaranta e sul Calore da levante a ponente, reliquia grandiosa di magnifiche terme.» Ambedue le affermazioni, che quella pietra sia appartenuta a questo edifizio e che questo abbia avuta la destinazione di terme, non hanno fondamento; chè, se l’avessero avuto, l’autore non avrebbe risparmiate parole per dircelo. Dovettero essere piuttosto sue congetture del momento, figlie di impressione passeggiera, rimaste impropriamente scritte nel suo libro. Ma queste affermazioni azzardate producono assai male, imperocchè d’ordinario fanno il giro del mondo; e, massimamente quando l’autore ha un nome nelle lettere e nelle scienze, per distruggerle, se pur vi si riesce, devesi lottare non poco. [p. 326 modifica]

Stimo che non ci voglia gran fatica per dimostrare che questi avanzi non sieno appartenuti a terme; la enorme lunghezza, di metri 546.00, la forma molto allungata, il giro di corridoi poco o nulla illuminati, l’altezza all’interno delle finestre del corridoio longitudinale, il rivestimento alquanto rustico di opera pseudo-reticolata, il quale altro non ne ammetteva sopra di se, meno l’intonaco tutto al più, ma di rado, sono elementi bastevoli a fare escludere a prima giunta l’affermazione di Garrucci. Nè la presenza dei due canali mu e tu (Tav. XLIV) verso il corridoio D può giustificare la sua affermazione, avendo potuto avere essi altra destinazione.

L’erudito Professore Saverio Sorda2, il quale fu membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti per questa provincia, opinò che questo edifizio sia stato un crittoportico. La sua ipotesi è più seria certamente di quella di Garrucci, ma neppure sembrami accettabile, come andrò dimostrando. Bisogna pria ricordare che cosa era il crittoportico, cryptoporticus, voce formata della greca cripto, nascondo, e dalla latina porticus, portico. Era chiamato pure cryptae porticus3. La etimologia del nome spiega di per sè in che consisteva, in genere, siffatto edifizio: era un portico chiuso intorno intorno, o una specie di gallerie o lunghi corridoi a volta, o addirittura sotterranei, o per metà sotterra, o infine interamente fuori terra4. Era un luogo di passeggio, e siffattamente costruito da potervi restare a lungo sia nei grandi calori estivi come nei rigidi freddi invernali. Canina parla di quello di Balbi in Roma5, dell’altro esistente in Pompei6; parla pure, e lo descrive e ne dà la icnografia, di quello della celebre villa di Plinio Secondo a Laurento7, villa che lo stesso Plinio descrisse [p. 327 modifica]splendidamente nella sua lettera a Gallo8. È bene riferire le parole di Plinio istesso a riguardo del crittoportico: «Quindi si stende un crittoportico, che par quasi un’opera pubblica. Ha finestre da ambo le parti, molte da quella del mare, meno da quella dell’orto, ciascuna delle quali corrisponde a due dell’altra. Quando l’aria è serena e quieta si aprono tutte; ma se quinci o quindi tira un vento molesto, si aprono senza offesa quelle sole dove tacciono i venti. Dinanzi al crittoportico ci è un sisto olezzante di viole. Il calore del sol che vi batte è accresciuto dal riflesso del crittoportico, il quale come mantiene il sole, così scaccia e respinge i venti boreali; e quanto è il caldo che si ha sul davanti tanto è il fresco che si gode di dietro. Esso arresta del pari i venti australi, e così rompe e doma i venti più opposti, gli uni da un lato, gli altri dall’altro. Ameno nel verno, lo è ancor più nella state. Poichè prima del mezzogiorno il sisto, dopo di esso lo stradon gestatorio e la vicina parte dell’orto sono confortati dalla sua ombra; la quale, secondo che cresce o cala il giorno, qua e là cade, or più corta, ora più lunga. Lo stesso crittoportico non è tanto mai privo di sole, quanto allora che il più cocente raggio di esso cade a piombo sovra il suo colmo. Oltre a ciò, per le aperte finestre vi entrano e giuocano i zefiri; nè il luogo è mai molesto per un’aria chiusa e stagnante9.» Lo stesso Plinio in un’altra lettera ad Apollinare10, descrivendo la sua villa di Toscana, parla di due altri crittoportici, l’uno estivo di sotto, l’altro invernale di sopra; «quello disotto, simile ad un sotterraneo; «rigido nella state per ragion del fresco, che vi si imprigiona, e contento dell’aria che ha, non sa desiderarne, nè volerne di più». Canina e Winckelmann11 parlano pure di un genere di costruzioni simili ai crittoportici esistenti nella Villa Adriana a Tivoli, e dette inferi dallo storico Sparziano12.

Dalle descrizioni e dai disegni del Canina intorno ai [p. 328 modifica]menzionati crittoportici rilevasi che vi sia poca o nessuna analogia con l’edifizio sul quale ci stiamo intrattenendo. Tanto quelli di Balbi e di Pompei, quanto quelli delle ville Tiburtina e Laurentina hanno per lo più forma di portici quadrilateri, racchiudenti nel mezzo giardini o boschetti, laddove nel nostro caso si ha un corridoio lungo più di mezzo chilometro con qualche altro corridoio normale ed altri paralleli al primo, disposti nella maniera che di sopra ho descritta.

Ci fa sapere poi Plinio che le finestre del suo crittoportico di Laurento potevansi chiudere; e quelle, invece, dell’edifizio nostro non conservano affatto tracce dalle quali possa argomentarsi che abbiano avuti gli infìssi; anzi appare più che manifesto che non ne abbiano avuti affatto. Nè pare che possa neppur corrispondergli il crittoportico inferiore della villa di Toscana di Plinio medesimo, non potendosi ritenere che la scarsezza di luce e di aria di quello dovessero addirittura intendersi per assoluta privazione. Sarei stato indotto a seguire la opinione di Sorda, se nel nostro edifizio fosse esistito solamente il corridoio longitudinale di occidente; ma non saprei comprendere la destinazione e il bisogno dei corridoi secondarii.

Non dissimulo che per un istante quel lungo corridoio mi si appalesò come una via coverta fiancheggiante la via Latina per comodo di pubblico passeggio; ma la soverchia altezza delle finestre, la quale avrebbe tolto tutto il bello della vista di uno splendido panorama della vallata del Sabato, e la mancanza assoluta di finestre nel muro a settentrione (ed abbiamo visto anzi che parallelamente, alle spalle, al lungo corridoio ne esistevano altri) le quali d’estate sarebbero state preziosissime, me ne distolsero subito. Come me ne distolse pure la orientazione dell’edifizio, la quale con il lungo fronte a sud-ovest, esposto al vento più dominante di questa città e il peggiore per la salute, non sarebbe stata affatto felice per un passeggio; nè felice sarebbe stata la frequenza ed ampiezza delle finestre, attraverso le quali il sole sarebbe penetrato a suo bell’agio.

Ma v’ha di più. Mentre il diametro della volta a botte del corridoio longitudinale del nostro edifizio è di m. 3,25, la larghezza del corridoio medesimo presso il pavimento si riduce [p. 329 modifica]appena a m. 2,65, per effetto delle quattro riseghe, due per banda, delle due pareti. La quale larghezza di m. 2,65 sembrami essere troppo meschina ed angusta per un pubblico passeggio. E poi quale bisogno vi sarebbe stato allora delle riseghe sudette e del ringrosso graduato della muraglia esterna occidentale? Vedremo che esse invece servirono bene ad un’altra destinazione, ben più importante, dell’edifizio.

Esclusa anche l’ipotesi che questo edifizio sia stato un crittoportico, parmi dover ritenere con più sano giudizio che invece sia stato un emporio, emporium. Dice Canina13: «Tutto nel d’intorno del porto Ostiente di Traiano rimangono rovine di vastissime fabbriche, che dovevano essere ad uso di granari o magazzeni per altre merci che si trasportavano dalle navi: e queste si conoscono essere state costruite in tanti ambienti lunghi e doppii con volte di tutto sesto sopra e con struttura di solida opera cementizia esteriormente rivestita colla laterizia mista colla reticolare. Vicino ai porti dovevano essere quei fori per il commercio che ivi si faceva, e si dicevano emporii, emporia, e dovevano essere questi pure circondati con grandi fabbriche per uso di magazzeni o portici d’intertenimento per i commercianti». Questa descrizione ha molto riscontro nello edifizio nostro sia riguardo all’organismo che al genere di struttura murale. Vitruvio, parlando dei porti14, accenna solamente di passaggio agli emporii.

Mi si obbietterà innanzi tutto che qui, non avendo nè mare, nè porti, non si saprebbe spiegare la esistenza di un emporio; ma la obbiezione è più speciosa che esatta. Un emporio poteva bene essere edificato non solamente presso i porti, ma ben anche nei centri di maggiore commercio. Ricordiamoci che non appena i romani poterono stabilire una colonia in questa città, bentosto estesero la via Appia sino a Brindisi, la quale univa Roma alle Puglie, ricchissime per grano e per olio, e la faceva comunicare con l’Oriente, donde importavansi molti altri prodotti. Ciò posto, essendo Benevento il luogo obbligato di passaggio delle vie che da Roma conducevano nelle Puglie e in Oriente, può bene [p. 330 modifica]supporsi che siasi sentito il bisogno di avere qui un emporio per comodo del commercio, e per provvedere alla pubblica annona. Grano, biade, olio, vino ed altri prodotti di prima necessità poterono essere in questo emporio depositati, per farne la ripartizione alle colonie vicine, e provvederne Roma istessa; e l’edifizio potè essere esteso ed ingrandito a misura che crebbe il bisogno. Mi si dirà: ma su quale fondamento storico voi poggiate tutte queste vostre ipotesi? Eh, se per un edifizio così vasto, quale abbiamo visto che doveva essere il nostro, manca ogni ricordo storico ed ogni tradizione, il supporre che abbia avuto una destinazione piuttosto che un’altra è permesso, quante volte la critica archeologica può sola esser maestra e guida fra le tenebre; e vedremo che la critica ci farà alquanta luce sulla quistione.

Torniamo un poco ad esaminare la sezione traversale di quel lungo corridoio (Tav. XLV, fig. 2.); quel muro così grosso esternamente sul lato di occidente, con riseghe entro e fuori, non pare fatto apposta per resistere a grandi spinte dal di dentro? Non si potevano certo temere quelle della volta a botte, giacchè essa è impostata molto alta, e si appoggia alla minore grossezza del muro; altre spinte, invece, voleansi elidere e contrastare, ed eran quelle appunto nascenti dal peso dei depositi delle granaglie e di altri prodotti. Notisi pure che il poggio di muratura mnlp, tra i corridoi D ed F non potè avere altra destinazione se non quella dell’appoggio di vasi contenenti liquidi. Questi due corridoi, quello E ed altri simiglianti che ho supposto esistere15, potevano bene essere tanti cellarii, cellaria, variamente denominati, dal prodotto che erano destinati a contenere, cellarium olearium, vinarium, gratiarium. Vitruvio16 parla di ciascuno partitamente, e della orientazione e cautela che dovevano osservarsi per ognuno. Veramente egli parla dei cellarii delle case di campagna, ma nessuno ostacolo vi ha a ritenere lo stesso per quelli di un emporio.

Un particolare interessante cade in acconcio qui riferire, a proposito del cellario, ed è che la contrada che circonda il [p. 331 modifica]

Tav. XLV.


Particolari de I Santi Quaranta

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nostro edifizio dei Santi Quaranta è denominata Cellarulo, la quale denominazione a me sembra una immediata derivazione dal cellarium. Ed è molto antica, trovandosi registrata in un documento delle regalie17 acquistate dalla S. Sede nel secolo XI in Benevento, documento estratto dall’archivio Apostolico Vaticano18, e riportato da Borgia19 con la intestazione: Proprietas que (sic) remansit curie (sic) de regalibus Beneventi. Ivi si nominano: Iscla20 de Cellarulo cum posta21; e poi vineam de Cellarulo. E Borgia afferma22 appunto che la contrada Cellarulo sia proprio questa vicino i Santi Quaranta.

Non è mancato chi ha voluto trarre l’etimologia di Cellarulo da cento celle per uso di bagni esistenti in quella contrada; ma essa non è affatto giustificata. I bagni in Benevento esistevano dove ancor oggi dicesi (nell’interno della presente città, quasi sul Calore) Cortile dei Bagni, Vico dei Bagni, almeno secondo è tradizione, perchè uno studio sull’oggetto io non ho potuto ancora praticare; altri, come vedemmo23, stavano tra le proprietà Palmieri e Cardona Oliva tra S. Filippo e la Chiesa di S. Cristiano; ove nei passati tempi era una chiesa, che chiamavasi S. Bartolomeo in thermis24. Siccome questi edifizii dei bagni ebbero sviluppo maggiore sotto i romani, e la parte di Benevento da loro o sotto di loro costruita fu quella da S. Lorenzo a Port’Arsa a venir su, così io stimo che nella porzione più antica da S. Lorenzo a Cellarulo non sieno esistiti bagni pubblici. Penso che dovettero trarre in inganno, e lasciar credere che fossero celle di bagni, tutte le stanze delle antiche case private che colà presso venivano [p. 334 modifica]dissepolte, delle quali due anni fa25 ne furono vandalicamente distrutte moltissime da un ignorante villano.

Avevo già scritto quasi tutte le cose che precedono, e fermato il concetto che queste muraglie fossero appartenute ad un emporio, quando mi venne fra mani il citato manoscritto di Alfonso de Biasio; di cui mi corre l’obbligo di riportare le seguenti parole, le quali collimano con le idee già da me espresse: «Difficoltar non puossi che dai nomi antichi che sinora in questa città conservansi manifestate ne vengano le famose fabbriche che in quel contorno stavano. Usarono gli antichi fabbricar forti edificii per la conservazione delle pubbliche vettovaglie nomandoli cellarium, come ne fa fede Isidoro. Per lo che palesato ne viene che quel giardino nominato Cellario, ed ora dal volgo Cellarolo, era appunto un pubblico edificio nel quale si conservavano le comuni vettovaglie, additandocelo maggiormente i gran frammenti di antichità, che colà alla giornata si scoprono». Non devo omettere però che lo stesso autore poco dopo dice quest’altro, che sembra contradire il riferito: «Nè devo lasciare indietro la famosissima fabbrica della nostra basilica, che sino ad ora la vetusta tradizione ne mostra il particolar suo sito fuor la porta di S. Lorenzo, ove si conservano non pochi suoi frammenti e particolarmente un suo spazioso portico, che sopra vi sta la diruta chiesa dei S. Quaranta, ecc». Ma chi sa che le basiliche erano unite ai fori ed erano i luoghi ove si trattavano i pubblici e privati negozii, comprende di leggieri che possono mettersi subito di accordo le due idee di de Biasio, ritenendo che quell’edificio finora esaminato sia stato un emporio, e che accosto o ad esso incorporato sia stata la basilica.

Note

  1. I Liguri Bebiani, pag. 46.
  2. Nativo di Fragneto Monforte, ma dalla giovinezza stabilito in Benevento, ove morì or son pochi anni.
  3. Canina, op. cit. tom. 8. pag. 394.
  4. Consulta sul proposito: Canina, op. cit. tom. 8 pag. 394 e seg. e Winckelmann, opero complete, 1. ediz. Ital. Prato, frat. Giacchetti, MDCCCXXXI, tom. VI. pag. 149 e seg.
  5. Opera e luogo ultimo citato, Tav. CVIII, N. XLIII.
  6. id. id. Tav. XCI. N. II.
  7. id. id. pag. 787 e seg. Tav. CCXL.
  8. Lib. II. lettera XVII.
  9. Trad. del Cav. Pier Alessandro Paravia. Venezia, Gius. Antonelli, 1837.
  10. Libro V, lett. VI.
  11. Opera e luoghi ultimi citati.
  12. Nella vita di Adriano.
  13. Op. cit. tom. 8. pag. 572.
  14. Op. cit. lib. V. pag. 88.
  15. Pag. 320.
  16. Op. cit. lib. VI. pag. 52 e 53.
  17. Eran dette regalie i beni pubblici appartenenti al Principe, poi passati e devoluti alla sede Apostolica (Borgia op. cit. tom. II. pag. 265).
  18. Pag. 134.
  19. Tom. op. cit. tom. II. pag. 265 e 266
  20. Dicesi ancora al presente in Benevento Isca un terreno coltivabile in vicinanza dei fiumi.
  21. Posta era detto un sito presso l’isca, ove poteasi pescare. Vedi Borgia, op. cit. tom. II. pag. 270.
  22. Luogo ultimo citato.
  23. Pag. 286.
  24. Manoscritto citato di Alfonso de Biasio e l’altro sulle antiche chiese di Benevento.
  25. Noti il lettore che, quest’opera, cominciata a pubblicarsi nel 1889, è ancora in corso di stampa nel 1892.