I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XVIII

XVIII. L'inquisizione del processo

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XVIII.

L’inquisizione del processo.


— Fate venire alla mia presenza il detenuto Curzio Ventura, disse il giudice a Petronio, che uscì immantinente, scegliendo una fra le chiavi del suo mazzo. E voi, soggiunse volgendosi a Passerini, voi, signor cancelliere, cominciate a intestare il costituto.

Poi seguito, dettando con gravità:

«Addi venticinque novembre eccetera, nel locale delle Carceri Nove eccetera, innanzi a Sua Signoria illustrissima eccetera.»

Curzio fu introdotto da Petronio.

Il giovane artista era stato vestito colla casacca dei prigionieri, e aveva le mani unite e serrate dalle manette, ma pure non aveva dimessa la sua aria di dignità e d’incrollabile fermezza. Postosi in piedi accanto alla tavola, dirimpetto al giudice, lo fulminò con un’occhiata sdegnosa.

— Aspettate i miei ordini lì fuori dalla porta, disse il giudice al carceriere.

E Petronio uscì inchinandosi, e chiuse l’uscio.

— Come vi chiamate? chiese poscia Marini al detenuto.

— Mi avete interrogato un’altra volta, rispose Curzio con piglio sprezzante. Il mio nome vi è noto.

Il giudice processante, vedendo che incontrava del duro, si atteggiò al sembiante della dolcezza.

Egli sapeva assumere modi e parole diversi, secondo l’indole dei detenuti da esaminare. [p. 74 modifica]

— Io sono venuto, caro figliuolo, disse con voce benigna, a vedere se le meditazioni del carcere vi hanno insegnato la via della prudenza. Voi per parte vostra già siete confesso di aver presa una parte, attiva nella nefanda ribellione del mese passato, ma ostinatamente vi siete ricusato di parlare dei complici e degli istigatori; e questi appunto sono quelli che importa conoscere alla giustizia.

— Io posso rispondere del fatto mio, non di quello degli altri, rispose Curzio fieramente.

— Pensate, figliuolo, riprese il giudice col medesimo tuono di paterna mansuetudine; pensate che quando si rendesse palese che voi, suddito del Santo Padre, istigato e traviato per opera dei perversi venuti dal di fuori, v’incamminaste vostro malgrado nella via della perdizione, tutto potreste sperare dalla sovrana clemenza.

— Io solo, liberamente, e di mia propria volontà, presi parte alla rivolta e l’unico fine che mi proposi fu quello di abbattere il trono del papa, e congiungere Roma all’Italia!

— Badate, non vi lasciate vincere dalle suggestioni dell’orgoglio; non rigettate da voi stesso la misericordia del Santo Padre, ch’è già disposta e pronta a venire in vostro soccorso. La vostra salvezza sta in vostra mano, figliuolo; basta che diciate le cose come stanno. Non è egli vero che foste spinto a ribellarvi al vostro legittimo sovrano dai malvagi venuti appositamente per sedurre e traviare i fedeli Romani? Se così è veramente, la vostra colpa è molto leggera, perchè voi siete giovane e facile ad essere ingannato. In tal caso, io posso impegnarmi di ottenere in vostro favore il benefizio di una grazia sovrana.

— È l’impunità che voi mi offrite? esclamò il giovane scuotendo in atto d’indignazione le mani avvinte dalle manette. L’impunità!... Ma non sapete che io non curo nè la prigione, nè il patibolo? Fatemi pure mozzare la testa; io sono in vostre mani, voi potete farlo impunemente. Ma non vi lusingate che per le fallaci promesse di una grazia disonorante, io m’induca a tradire la santa causa della libertà. Oh! comprendo bene la ragione per cui vorreste da me le risposte che mi chiedete! Questo vostro processo è diretto a mostrare che il movimento della insurrezione di Roma fu opera di gente venuta di fuori; che i cittadini romani non v’ebbero parte alcuna, o l’ebbero affatto secondaria. Vorreste far credere al mondo che i Romani adorano il papa e lo scettro dei preti! Impostori! numerate i prigionieri politici, de’ quali rigurgitano le vostre prigioni, e vedrete quanti sono i sudditi fedeli che l’amoroso pontefice serba all’ergastolo e alla galera! Romani siamo noi che impugnammo la armi contro il potere sacerdotale; Romani furono i morti del Campidoglio, di porta San Paolo, di Trastevere, ed essi e noi, morti e viventi, non abbiamo che una voce per esecrare il governo del papa e i suoi infami ministri. Scrivete, signor cancelliere, scrivete, questa è la mia confessione. [p. 75 modifica]

Sebbene questa parlata, e il calore col quale la pronunziò il giovane carcerato, avesse dovuto togliere al giudice ogni speranza d’indurlo a servire alle sue brame, tuttavia esso continuò impassibile nel suo sistema di gesuitismo.

E, rendendo tanto più benigno il suo sorriso, per quanto l’altro vibrava più terribili occhiate:

— Ma figliuolo! riprese, possibile che siate in preda a un simile acciecamento! E non conoscete l’enormezza del vostro peccato? Se non vi spaventano le pene temporali, dovrebbero atterrirvi gli eterni castighi, che vi aspettano nell’altra vita.

— Quelli, se esistono, non a noi, ma ai nostri giudici sono serbati.

— Dunque non sentite il pungolo del rimorso?

— L’unico rimorso che io provo è quello di non essere riuscito nell’intento, ma mi consola una fiducia: che tanto sangue non fu sparso invano, e che non è lontano il giorno della nostra vittoria.

— Tanto giovane, e tanto pervertito! esclamò il giudice, congiungendo ipocritamente le mani. Ma non sapete che terribile è la sorte che vi si prepara?

— Qualunque sia, io l’aspetto senza paura. Tremerete forse voi altri nel segnare la mia condanna; ma non io nell’affrontarla.

— Voi volete morire nell’impenitenza finale! Così disse il giudice crollando la testa; poi, dopo qualche momento di pausa, riprese:

— Dite dunque qual parte aveste nella rivolta.

— Voi siete il giudice, rispose Curzio. A voi spetta indagarlo.

— Da costui non caviamo nulla, disse Marini sottovoce al cancelliere; poi voltosi all’inquisito, e dimessa l’apparenza della bontà:

— Se continuate a questo modo, gli disse, lascerete la testa sul palco.

— Ve lo prometto.

Poi chiamò: — Petronio! E al carceriere che si presentò: Riconducetelo, disse, al suo carcere.

Il prigioniero si avviava col secondino, quando il giudice li richiamò indietro:

— Aspettate! Petronio, domani, che è un giorno dedicato a san Pietro, farete digiunare rigorosamente questo detenuto ciò servirà al bene dell’anima sua.

E poichè il carceriere e il prigioniero furono partiti del tutto, voltosi al cancelliere, con libero sfogo il giudice Marini proruppe:

— Questi indemoniati liberali sono tutti a un modo! Non si piegano neanche colle bastonate. Oh! se io potessi vorrei finirla presto con costoro! Una buona catasta di legne in mezzo a piazza San Pietro, e poi metterveli sopra tutti dal primo fino all’ultimo. Non c’è altro mezzo per finirla con questi scellerati. [p. 76 modifica]

Petronio, dopo aver ricondotto Curzio alla sua segreta, ritornò a ricevere gli ordini di Sua Signoria illustrissima.

— Fa venire Giuseppe Monti! disse Marini.

Dopo due minuti Petronio ritornava, conducendo Monti ammanettato come il compagno che l’aveva preceduto.

— Siete voi Giuseppe Monti?

— Son io.

— Voi, poveretto, avete moglie, e tre figli?

— Sì signore, rispose sospirando.

— Avreste desiderio di rivedere la vostra famiglia? chiese il giudice, atteggiandosi a quanto mai poteva mostrare di affettuosa premura.

— E me lo domanda? disse Monti con un accento che diceva tutto.

— Ebbene, prese a dire Marini dolcissimamente, v’insegnerò il mezzo vero e sicuro, per rivedere presto la vostra famiglia: una franca, piena e sincera confessione. Finchè persistete a negare fate il vostro danno, e non altro. Non c’è che un veritiero racconto dei vostri falli che possa salvarvi. Ma credete che la clemenza del Santo Padre rimarrà indifferente di fronte a una simile prova di pentimento? Una grazia intera e assoluta sarà la vostra ricompensa. Esitate ancora? Prendete esempio dal vostro complice Curzio Ventura, che in questo momento ha fatto una spontanea confessione, raccontando tutti i particolari del suo misfatto e narrando anche la parte che voi stesso ci avete avuta.

― Possibile!

— Vedete adunque che la giustizia è già informata d’ogni cosa. Ci sono prove bastanti per condannarvi tutti: ma io desidero la vostra confessione, unicamente per avere una prova del vostro pentimento, e con questa ottenere per voi la sovrana grazia, e così rimettervi in seno alla vostra povera famiglia. Questa sarebbe la consolazione più cara al mio cuore. Da voi dunque dipende assicurarvi con una parola sola la salvezza in questa vita, e di più la salute eterna nell’altra. Confessate, figliuolo. Pensate a quella meschinella di vostra moglie, ai vostri tre figli, poverini, che rimangono senza un appoggio, senza una guida nel mondo!

Una lotta terribile si combatteva nel cuore del povero padre, e l’interno contrasto traspariva evidente dalle contrazioni del suo volto e dalla immobilità degli occhi pensosi.

Marini indagava con acuto sguardo la penosa battaglia di quel cuore; simile alla jena, che aspetta l’ultimo anelito di un morente, per lanciarsi a divorarne il cadavere.

— Ebbene, disse finalmente Giuseppe Monti. Sì, signore, io confesserò!

— Oh bravo! esclamò il giudice sorridendo. Scrivete, signor cancelliere, scrivete che l’inquisito Monti confessa.

— Dunque, riprese poscia volto al prigioniero, con un raddoppiamento [p. 77 modifica]di benevolenza, dunque, figliuolo, voi confessate. Dite, dite pur tutto senza timore; quanto sarà più ampia la vostra confessione, tanto più largo vi sarà schiuso il tesoro inesauribile della sovrana clemenza. Voi dunque foste uno di quei settari, che iniquamente sovvertirono l’ordine pubblico, e si ribellarono contro il potere del Sommo Pontefice, operando stragi infinite e nequizie d’ogni maniera? Non è vero? Scrivete, signor cancelliere, scrivete che confessa tutto.

— Ma io.... prese a dire Monti.

— Voi non vorrete, figliuolo, interruppe il giudice, non vorrete perdere il merito della vostra confessione spontanea con delle restrizioni inopportune. Voi dunque volete dire che operaste nella rivolta qualche fatto speciale, non è così?

Monti esitava ancora a rispondere, e il giudice ripigliò, con sembiante d’amorosa sollecitudine:

― Io già lo so, vedete, so tutto. Solamente desidero di sentirlo dalla vostra bocca, per procacciarvi il frutto della confessione. Da bravo... pensate ai vostri figliuoli! Dite dunque, qual’è il fatto che fu perpetrato da voi? ditelo pure liberamente: non temete che debba mancarvi la grazia per quanto enorme sia il vostro misfatto. La clemenza del Santo Padre non conosce confini. Coraggio figliuolo: anche una parola, e tutto è finito. Qual’è questo fatto? dite.

E tanto andò innanzi l’astuto, uso a strappare dagli inquisiti la confessione di falli veri e non veri, con quella sorta di tortura morale, tanto insistè nelle fallaci esortazioni, che il povero Monti, perduto, smarrito, preso come si dice col laccio alla gola, lasciò sfuggire quelle fatali parole:

— La mina!

Il giudice Marini ebbe appena intesa quella voce, che l’afferrò a volo tutto giulivo.

— Ecco, pensò fra sè, il bandolo della matassa; costui è uno dei rei principali! costui è destinato ad essere il capro espiatorio della insurrezione! Questo processo mi procaccerà onore immortale!

Formulate in un baleno queste conclusioni, l’inquisitore si volse alla vittima destinata fino da quel momento al supplizio, e con un sorriso di benigno incoraggiamento sulle labbra, gli disse:

— Proseguite, figliuolo, dite pur tutto; guardate l’immagine di Nostro Signore Gesù Cristo che col suo esempio vi esorta alla mansuetudine, e fate un atto di vera contrizione; raccontatemi la cosa in tutti i suoi particolari.

Poi, precorrendo alle risposte di Monti, si volse impaziente al cancelliere dicendogli: — Scrivete, scrivete: egli confessa di aver fatta rovinare la caserma Serristori, mediante una mina accesa di sua propria mano, con [p. 78 modifica]deliberato proposito di cagionare la morte di tutti quanti i prodi difensori della Santa Sede, e della santissima religione.

Stretto da nuove insistenze, e suggestioni, Monti raccontò il fatto della mina in tutta la parte che lo riguardava, tacendo assolutamente quanto avevano operato i suoi compagni, guardandosi bene dal pronunziare il loro nome.

Per tal modo il giudice non era soddisfatto del tutto, e mentre con premura dettava al cancelliere tutti i dettagli che potevano aggravare la posizione del Monti, dimostrava poi con un torcimento di bocca il malcontento che gli cagionavano le reticenze del medesimo confesso.

— Male, male, figliuolo! disse finalmente. Voi non volete salvare nè l’anima nè il corpo: non volete dir tutto!

— Io ho detto tutto, e ora condannatemi, se volete, disse Giuseppe Monti in atto di suprema rassegnazione.

— Ma voi aveste dei compagni nella esecuzione del nero misfatto, e di questi non avete parlato. Perchè la vostra confessione possa ritenersi piena ed intera, voi dovete accennare alla giustizia i nomi di tutti quanti i vostri complici, coadjutori, mandanti, correi e fautori.

— Signor giudice, proruppe Monti passando dall’umiliazione allo sdegno, io posso confessare le mie azioni, ma non quelle degli altri. Se così facessi, io mi renderei un vil delatore!

— Ma io vi prevengo, figlio caro, che la vostra confessione non può valer nulla, proprio nulla, vedete, se non è piena ed intera; e, come vi ho detto, non può chiamarsi tale se non dite anche i nomi dei vostri compagni.

— Questi io non li dirò mai.

— In tal caso, me ne duole nel cuore, ma voi rimanete esposto a tutto il rigore della legge. Pensate alla moglie e ai figli!

— No! esclamò Monti; l’amore che io porto ai figli e alla moglie non mi farà mai diventare una spia! Morirò sul patibolo, se occorre, ma non mi farò mai il denunciatore de’ miei fratelli.

— Peggio per voi! gridò il giudice coll’espressione della più fiera minaccia.

Allora comprese il povero Monti a qual laccio era stato colto da quell’infame che gli aveva fatta balenare la speranza della grazia, e rappresentata la miseria della sua famiglia, per meglio estorcergli la confessione, e così spingerlo più facilmente sotto il taglio della ghigliottina. Tale era il suo infame mestiere!

— Doveva immaginarlo! gridò il carcerato scuotendo fieramente le sue manette di ferro. Voi altri non fate grazia se non che alle spie; ed io, stolto, mi sono lasciato adescare dalle vostre lusinghe, e vi ho prestata l’arma per colpirmi più facilmente! Non importa: mi avreste assassinato [p. 79 modifica]egualmente. Ma sentite: voi siete il giudice, io sarò il condannato; ebbene, io mi sento tranquillo nella mia coscienza; dite voi altrettanto, se lo potete!

— Riconducetelo nella sua prigione, urlò il giudice, e se parla ancora domatelo colle nerbate.

Petronio accorse, e preso per un braccio il prigioniero, lo trasse alla segreta, mentre col ruvido dorso della mano si asciugava una lagrima.

— Oh grazie! mormorò Monti, che lo sorprese in quell’atto.

La tacita compassione del suo carceriere lo compensava della durezza del giudice.