I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XVII

XVII. Il secondino Petronio

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XVII.

Il secondino Petronio.


Fra i secondini delle Carceri Nove, fra quei manigoldi dal cuore indurito v’era per caso un buon uomo, che in mezzo a tanto spietata ribalderia serbava un cuore accessibile alla pietà.

Era un certo Petronio, bolognese, antico lavorante di canapa; condannato una volta per un ferimento da lui commesso nel calore di una rissa, gli avevano commutata la pena della galera nell’ufficio del carceriere, cosa non rara negli Stati del papa, dove son pochi gli uomini onesti e liberi che si offrano spontanei al mestiere dell’aguzzino.

Nella sera di quel giorno in cui avvenivano nel palazzo del principe Rizzi le scene narrate nei capitoli precedenti, il secondino Petronio si trovava di guardia in un camerone interno delle carceri; toccava a lui di vegliare per tutta la notte in quel luogo.

Il buon uomo si aiutava col tabacco da naso e con quello da fumo, contro il sonno che minacciava d’invaderlo. Guai se il capo-custode nella sua ispezione notturna lo avesse trovato addormentato! Una mezza dozzina di nerbate, susseguita da una giornata di cella e di digiuno, era il meno che potesse toccargli.

Egli prendeva un tratto la pipa, e tirava quattro boccate di fumo, poi deponeva la pipa e pigliava la scatola, e fiutava due prese di tabacco, poi ricorreva di nuovo alla pipa per ritornare poscia alla scatola. Ma ormai tutti i provvedimenti tornavano vani: già le sue palpebre divenivano pesanti pesanti, e si chiudevano, e la sua testa si abbassava prima lentamente, poi più presto, fino a che il mento gli si andò a posare addirittura sul petto.

Per fortuna in quel momento stesso l’orologio della prigione suonò le undici ore.

Petronio si svegliò di soprassalto, gridando:

— Olà! alt! ferma! vuol scappare!... Ah! proseguì poscia, fregandosi ripetutamente gli occhi e la fronte, mi pareva che qualcuno volesse scappare... Maledetto sonno! la pipa non basta più a farmi stare sveglio, e il tabacco nemmeno!... Uh! che brutta vitaccia quella del carceriere! [p. 70 modifica]

E qui il buon Petronio, dopo essersi ben bene impinzato il naso di rapè, ed avere sgombrata la testa con una scarica continuata di starnuti, si abbandonò al corso delle sue consuete meditazioni.

— Brutta vita! ripeteva fra sè. Sempre in mezzo alle miserie, sempre chiusi in questa spelonca come tanti gufi! E poi non potere neanche dormire alla notte. Almeno i carcerati riposano a loro bell’agio!

In quel momento, quasi a smentire l’assertiva del carceriere, un lungo, penoso gemito uscì da una segreta vicina, la cui porta si apriva appunto in quel camerone, dov’era Petronio.

— Chi è? cos’è stato? esclamò egli. Sarà questo qua che ogni tanto si lamenta.

Petronio si alzò dalla sedia, e si avvicinò alla porta, donde pareva che il gemito fosse uscito. Quella porta aveva un finestrino che poteva aprirsi dal di fuori per spiare nell’interno della segreta. Egli tirò il catenaccio, e aperto il finestrino, guardò dentro.

La luce di un fanale appeso alla volta di quel lugubre camerone, mandava per il pertugio aperto da Petronio raggio bastante per discernere dentro la segreta la figura di un uomo, che stava rovesciato sul suo coviglio, colle mani intrecciate sopra la testa, in atto di disperato dolore.

Petronio si fermò a contemplare quel misero, e intanto pensava fra sè:

— L’ho detto io. Era lui che mandava quel lamento. Sempre così questo povero Monti! Ah! è proprio vero! egli riposa meno ancora di me.

Poi il dabben uomo richiuse il finestrino, e passò dall’altra parte del camerone, dove aprì un simile sportello, e guardò dentro a un’altra segreta. Era quella di Curzio.

— Quest’altro invece se la dorme in pace! pensò Petronio. Beato lui! Se potessi fare lo stesso anch’io!

Staccatosi anche da quella porta, il bravo secondino si diede a passeggiare in lungo ed in largo per opporre migliore resistenza al sonno, ch’era sempre lì lì per tornare ad assalirlo.

In fondo al camerone era un cancello, pel quale si passava nelle altre parti della prigione... a quel cancello stava di guardia una sentinella. Petronio si avvicinò al soldato, e gli chiese:

— Camerata, che ora abbiamo?

— Sono appena suonate le undici ore.

— Le undici e io credeva che fosse passata la mezzanotte!

— Ho ancora un’ora da passare in fazione.

— Ed io ho ancora sette ore da vegliare! Maledetto mestiere!... Torniamo a fumare.

Era appena tornato a sedere nel posto di prima, e aveva riaccesa la pipa che si era spenta, quando Petronio intese un altro lamento, che come il primo proveniva dalla cella di Monti. [p. 71 modifica]

Il pietoso secondino si sentì rimescolare il sangue; e ritornò al finestrino della porta. Guardò un tratto il prigioniero, poi lo chiamò, dicendogli:

— Ehi pover’uomo, non potete dormire?

Monti volse la testa verso il pertugio, stette alquanto in silenzio, chè gli pareva strano quell’accento di compassione in un carceriere, poi domandò:

— Siete padre voi?

— Io no.

— Allora non sapete... non potete sapere... Il padre ch’è staccato dalla sua famiglia non trova mai pace.

— Avete moglie e figli?

— Tre figli e il più piccino non ha che sei mesi!

— Poveretto!

Monti aguzzò lo sguardo, fissando il volto di Petronio, attraverso le sbarre del finestrino e cercava d’indovinare in quell’oscurità se la pietà del secondino fosse vera o finta.

Pare che l’esame tornasse favorevole a Petronio, poichè Monti prese a dire:

— Voi, che mi sembrate più buono degli altri, ditemi qualche cosa della mia famiglia: dacchè sono qui dentro, non ho mai potuto vedere la mia povera Lucia.

— Io... disse Petronio tutto confuso. Io non so nulla.

— Ella sarà venuta, riprese Monti, sarà venuta per vedermi, e gliel’avranno negato. Non è così?

— Io vi dico che non so niente.

— Ah! se volete dirlo, lo sapete. Abbiate compassione di un povero carcerato; che io sappia almeno se mia moglie è in salute, se è libera!

Il povero Petronio, che non era assolutamente della stoffa, con cui si fanno i carcerieri, si sentiva ammollire il cuore, e non sapeva come fare a resistere alle preghiere del prigioniero.

In quel momento altre persone entrarono nel camerone, senza che il secondino, tutto assorto ne’ suoi pietosi sentimenti, se ne accorgesse.

Il giudice Marini, al quale era devoluta insieme all’istruttoria del processo politico, la sorveglianza del carcere dove erano detenuti gl’inquisiti, faceva sempre le sue visite in ore insolite e inaspettate, a modo di sorpresa.

Egli si era fatto aprire senza rumore il cancello del fondo, e si avanzava cautamente nel camerone, mentre Petronio aveva tutta rivolta la sua attenzione verso Monti.

E questi seguitava a pregarlo che gli desse qualche notizia della sua famiglia, e lo togliesse da quella insoffribile ansietà.

— Ma io non posso dirvi niente, ripeteva il secondino.

— Non posso! soggiunse Monti: non posso, voi dite; ma dunque, è vero, voi lo sapete!... Oh ditelo! date un sollievo a questo tribolato! [p. 72 modifica]

— Non posso dirlo.

— Ve ne prego; voi siete un buon uomo. Ditemi solo se mia moglie viene qualche volta.

— Viene ogni giorno! gridò Petronio, che non poteva più trattenere le lagrime.

― Birbante! gridò subito dopo una voce tuonante.

Era quella del giudice Marini, che nello stesso momento diede un forte colpo sulla spalla del disgraziato Petronio.

Non può descriversi la confusione del secondino. Tutto tremante, si cavò dal capo la berretta, gli cadde di mano la pipa, e balbettò:

— Sì...signor... giu...giudice!... Eccellenza!...

— A questo modo fai il tuo dovere? esclamò Marini tutto infuriato. Stai a far conversazione coi carcerati; e di più dici loro quello che non devono sapere! Penserò io a farti castigare! Ti farò cacciare in cella oscura, a digiuno rigoroso.

― Signor giu... giudice!

— Meriteresti di starci un pajo di mesi.

— Signor...

— Animo! prepara la stanza degli esami; portavi i lumi e tutto l’occorrente.

Petronio non se lo fece dire due volte, e corse ad approntare una stanza attigua a quel camerone, la quale serviva ad uso di cancelleria criminale per l’interrogatorio dei detenuti.

Marini si volse al suo cancelliere Passerini, ch’era rimasto rispettosamente indietro.

— Questa sera, disse, voglio assumere i costituti di Curzio Ventura, di Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti. Imparate, signor cancelliere, imparate l’arte del criminalista! Noi dobbiamo far tesoro delle ore notturne. Questi sono i momenti più propizi per esaminare i detenuti. Essi vengono svegliati dal sonno e subito tratti innanzi al giudice; si presentano all’esame tutti sbalorditi e confusi. Non hanno tempo di architettare un sistema di difesa, di preparare le loro risposte, e vengono a cadere nella rete da loro medesimi siccome uccelletti inesperti. Alla notte, signor cancelliere, sempre alla notte!

Petronio venne a dire che la camera degli esami era preparata. Il giudice e il cancelliere vi entrarono.

Era una stanza che metteva i brividi solo a vederla. Le muraglie erano quelle nude e annerite della prigione. Un gran tavolo coperto da un tappeto nero occupava quasi per intero lo spazio: un enorme crocifisso appeso alla parete pareva che guardasse fieramente gl’infelici che venivano tradotti là dentro; quattro candele infisse nei candellieri di legno erano disposte in quadrato, come se fossero state intorno a una bara. Da un lato stava uno [p. 73 modifica]scaffale pieno di processi voluminosi, che per ogni pagina indicavano una lagrima e una stilla di sangue!

Sua Signoria illustrissima (così veniva chiamato il giudice nelle intestazioni degli esami) si assise comodamente in un seggiolone dal cuscino di cuoio, posto sotto il crocifisso, di faccia alla porta d’ingresso.

Il cancelliere, uomo piccolo e ranicchiato, al quale l’antica abitudine degli inchini aveva notevolmente arcuata la spina dorsale, si era seduto sopra una sedia di paglia; e postisi gli occhiali inseparabili sul naso, stava provando le sue penne sopra un foglio di carta.

Petronio se ne stava in piedi sull’uscio, col mazzo delle chiavi in una mano e la berretta nell’altra, aspettando gli ordini del signor giudice.

Il pover’uomo, guardando quella faccia torbida e buia, rabbrividiva non più per sè, ma pei disgraziati, la cui sorte pendeva dall’arbitrio di quell’uomo e dei suoi padroni.