I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XVI

XVI. Le Carceri Nove

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Anche nella prigione delle Carceri Nove si trovarono adunque i patrioti agglomerati coi rei di delitti comuni; e non fu raro il caso in cui il giovi. netto carcerato per semplice sospetto di patriotismo si trovò rinchiuso nella medesima cella con un assassino già condannato a morte, che aspettava di giorno in giorno l’ora del suo supplizio.

Un’iscrizione sulla porta di quella prigione ci ammonisce che la clemenza fa uno dei motivi che indussero Papa Innocenzo a far costruire le Carceri Nove. L’infelice che vi si trova detenuto può farsi un’idea esatta della clemenza dei papi.

I carcerati, e specialmente i politici, vi sono esposti a durissimi trattamenti. O accalcati alla rinfusa in fetidi cameroni, o isolati in celle umide e sotterranee, mancano d’aria pura e di luce. La nequizia dei preposti rese nulle e disusate anche le regole dell’igiene che presiedettero alla fondazione di quel carcere, duro ma non insalubre nella sua origine.

I detenuti delle Carceri Nove hanno oggigiorno per letto poca e sucida paglia il loro vitto è scarso e malsano; sono sottoposti al digiuno e alla sferza per colpe leggere e spesso immaginarie!

Ma ciò che rende più orribile quel luogo infernale è la tortura morale, alla quale sono spesso soggetti quei detenuti per la durezza dei guardiani, degni interpreti della efferatezza dei governanti. Non solo manca agli sventurati ogni parola di conforto, ogni ajuto di benigno consiglio, ma vien loro negata sovente quella consolazione che i congiunti o gli amici con gentile pietà cercano di inviare oltre le mura del carcere. Avviene sovente che ai prigionieri si lascia ignorare che i parenti furono a chiedere loro novelle, loro si contende un semplice ricordo, un saluto: cosicchè alle loro pene si aggiunge il martirio dell’incertezza: sia che temano sulla sorte dei loro cari, sia che li angosci il dubbio di essere nella loro miseria obliati.

Un’altra pena atroce di quella crudele fra le carceri preventive si è lo spionaggio, la mala pianta che nell’interno delle prigioni pontificie trova salde e vigorose radici. Il sollievo più caro degli infelici è il racconto dei proprii casi, il compianto delle comuni sventure. Ebbene, anche quest’ultimo conforto è conteso ai detenuti politici nelle prigioni pontificie. Il compagno di carcere, che in sembiante di amico vi si stringe d’intorno, che con modi affettuosi vi sforza a parlare, è quasi sempre uno scellerato spione, che la polizia papale ha destinato al soggiorno delle carceri, un miserabile che, abusando della vostra sventura, compra colla nefanda delazione l’impunità di altri atroci delitti.

E, incredibile a dirsi, le relazioni di quegli ignobili e degradati strumenti formano spesso la parte sostanziale dei processi politici di Roma. Le confidenze strappate sotto il velo dell’amicizia, della compassione dai compagni di carcere, divengono il sostegno più saldo dell’accusa.

E come no? La forma inquisitoria del processo, abolita oggi da ogni [p. 68 modifica]Stato civile del mondo, è tuttora in vigore presso quel governo, che trovasi in lotta continua colla nuova civiltà. In Roma il processo inquisitorio è l’arme più terribile dei governanti, è la repressione più violenta contro le legittime aspirazioni del popolo, è la vendetta del forte sul debole.

Gli atti della procedura si compiono nel segreto e nel mistero. Le relazioni della polizia e le rivelazioni impunitarie sono la guida prima del giudice. Le delazioni carcerarie, di cui abbiamo sopra parlato, battezzate col nome pomposo di confessioni stragiudiziali, sorreggono tutto l’edifizio del suo processo. Quale possibile difesa, quale speranza di scampo rimane agl’inquisiti? Nessuna! Le forme della legalità non sono che vane apparenze dirette a perderli, a infamarli. Essi vengono sempre condannati nel modo e nella misura che giova e piace al Governo.

Appena il trono del papa fu puntellato dalle baionette francesi, e i difensori della libertà furono oppressi e respinti, e in Roma fu ristabilito l’ordine alla moda di Varsavia, i prelati che avevano tremato nei giorni della insurrezione si accinsero a vendicarsi del passato terrore sui carcerati. In quei giorni le tante prigioni di Roma, e molti conventi, cambiati in luoghi di reclusione, bastavano appena ai detenuti politici.

Monti, Tognetti e il loro amico e compagno Curzio Ventura, erano stati, come vedemmo, rinchiusi nelle Carceri Nove: là dentro li avevano isolati in altrettante segrete.

Il loro contegno era diverso, secondo la differenza del loro carattere. Curzio, anima sdegnosa, che aveva imparato fino dai primi passi della vita a combattere colle avversità della sorte, si era chiuso in una specie di stoica rassegnazione. Non una sua parola, non un suo gesto dimostrava rabbia o sdegno in faccia ai carcerieri. Egli serrava tutto in sè stesso il magnanimo dispetto dell’impresa mancata. Calmo e sereno in vista, ruminava fra sè e sè le delusioni del passato e le speranze di una futura riscossa. Noncurante del suo destino e della sua vita, pensoso solo di quelle grandi idee che occupavano la sua mente: la patria e la libertà!

Gaetano Tognetti, giovane di carattere più irrequieto e impaziente, non sapeva adattarsi alle angustie del carcere, nè sopportare in pace la rovina di tanti ardimenti, nè riposarsi nelle aspettazioni dell’avvenire. Insofferente della prigione, si martoriava più e più colle smanje incessanti, che gli rodevano il cuore, e che esalavano in grida disperate di cruccio e di dolore.

Giuseppe Monti era tutto concentrato nel pensiero della sua famiglia. Sua moglie e i suoi figliuoletti abbandonati, esposti alla miseria; gli strazj di quella povera donna, incerta della sorte di lui, tremante per la sua vita, i pericoli ai quali essa era in preda; queste erano le immagini crudeli che angustiavano il suo cuore, e rendevano più dolorose per lui le ore interminabili della prigione. Tutto compreso da quella pena, tanto orribile pel [p. 69 modifica]cuore di un marito e di un padre, Giuseppe Monti non dava segno di vita; soffriva pazientemente la durezza del carcere, e solo ad ora ad ora, quando le torture del suo pensiero si facevano più insoffribili, mormorava a bassa voce queste sole parole:

— Povera mia moglie! poveri miei figli!