I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo VII

VII. Monte Aventino

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VII.

Monte Aventino.


Il monte Aventino, celebre in antico pei famosi ladroni che vi annidavano ai tempi della fondazione di Roma, è adesso occupato quasi unicamente da varj conventi di frati. Alle falde di quel colle ameno, stanno diverse osterie, dove si beve un vino delizioso. E infatti una di esse, dall’aspetto più ridente dell’altre, invita i passeggieri, che transitano per la via che mena a Porta San Paolo, con questa scritta, il cui senso è tanto chiaro, per quanto i versi sono zoppicanti:

               Chi vuol bere del buon vino
               Venga a’ piedi del Monte Aventino.

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A poca distanza da quell’osteria, si trovava una grotta, che una volta servì da cantina, ed ora era abbandonata quasi del tutto. Vi si giungeva da diverse parti, della sommità del colle, della strada sottoposta, dalle viuzze serpeggianti nei fianchi del poggio; per le porte posteriori delle taverne o attraverso le siepi delle vigne. In mille modi ci si poteva giungere, e in altrettanti era facile partirsi di là.

Quel luogo fu scelto per qualche tempo pei ritrovi del comitato d’insurrezione romana.

Questo comitato, che portava anche il nome di Comitato di Salute Pubblica, si era composto in Roma appena la rivolta era scoppiata nella campagna viterbese.

L’antica Giunta Nazionale romana, che prima ebbe la direzione del partito liberale nella città di Roma, aveva sempre consigliata la moderazione, e si era limitata a comporre inocue dimostrazioni contro il governo pontificio. E perciò questa Giunta, fin da quando cominciò a prepararsi il movimento rivoluzionario delle provincie romane, si trovò incompatibile col nuovo indirizzo delle cose; e infatti nel 21 settembre di quell’anno, 1866, si era ritirata dalla direzione.

Alla Giunta subentrarono allora i Capi-sezione dell’associazione romana, ai quali ai 27 dello stesso settembre diressero un proclama al popolo romano, perchè si tenesse preparato all’insurrezione.

Dal seno poi di questi Capi-sezione sorse il Comitato di Salute Pubblica, nel quale al cominciare dell’azione si accentrarono tutti i poteri rivoluzionari.

E questo Comitato, il quale aveva assunta la terribile responsabilità del supremo conflitto, che all’epoca di cui parliamo teneva le sue riunioni in una grotta del Monte Aventino.

Tognetti aveva aspettato il suo amico Monti al cominciare del Ponte Rotto: avevano insieme varcato il Tevere in quel punto che serba ancora i vestigi dell’eroismo di Orazio Coclite, e costeggiando il fiume, si avviarono verso le falde dell’Aventino: essi dovevano recarsi alla grotta misteriosa. S’inoltrarono in un vicoletto, che sale verso la vetta del colle, passarono fra le rotture di un muro diroccato, e traversato un breve spazio di ortaglia abbandonata e imboschita, trovarono, nascosta fra i rovi, l’ellera e i rottami, l’imboccatura della grotta; il terreno scendeva lievemente, e la luce andava mancando di mano in mano che si procedeva.

Fatti dieci passi, Tognetti, che andava innanzi, si arrestò, toccò sulla sua diritta la parete umida e scabrosa del massó, e andò palpeggiando finchè trovò l’apertura, per la quale doveva voltare. Trovata che l’ebbe, s’inoltrò in quel fitto bujo.

Aveva appena mosso un passo là dentro, che si sentì bruscamente arrestato da una mano, che gli afferrò la giubba sul petto, e in pari tempo [p. 32 modifica]la punta aguzzą di una lama di ferro, forando le vesti, venne a posarsi a fior di pelle sotto la sua mammella sinistra.

Tognetti sporse innanzi la testa, cercando quella dell’assalitore, e all’orecchio di questo, mormorò:

— È il giorno dei morti!

Il pugno che stringeva il suo abito si aperse. La lama dello stiletto si ritrasse, e il giovane passò oltre.

Monti ripetè le medesime parole, e anch’esso passò.

Fecero molte giravolte, salirono e scesero degli informi gradini, aiutandosi in quella tenebra col continuo tentar delle mani, finchè arrivarono a una specie di sala a volta scavata nel sasso.

Era la grotta del Comitato.

Molte erano le persone quivi adunate; ma tanto poco era lo spiraglio di luce che arrivava là dentro, che gli uomini sembravano altrettante ombre dalle vaghe sembianze, dall’aspetto incerto e oscillante. Solamente dopo un lungo soggiorno che si fosse fatto là dentro, si poteva pervenire a veder chiari gli oggetti.

Quando i due compagni giunsero nel luogo della riunione, una voce parlava, una voce franca, ardita, impetuosa.

— È tempo, diceva, proseguendo in mezzo al silenzio degli altri un lungo discorso: è tempo ormai che vi laviate da questa macchia, o Romani. L’Italia segue con occhio intento i suoi figli che mossero per liberarvi a prezzo del loro sangue. E guarda voi pure, e dice, sì fratelli, ve lo dice colla mia bocca: E Roma, che fa, che non risponde all’appello? Sarebbe vero ch’essa ami le sue catene? Sarà vero che i nepoti degli Scipioni e dei Bruti siano schiavi adoratori del pontefice-re? Questa, questa è l’accusa che vi grava sul capo. A voi, Romani, a voi: rispondete.

La voce si tacque; e subito dopo un’altra, non meno maschia della prima, ma più giovanile, più ardente, proruppe dall’altro lato della grotta:

— Io, figlio di Roma, in nome di tutti risponderó.

Un mormorio di approvazione successe a quelle parole. E Tognetti, che aveva riconosciuta quella voce, sussultò dal piacere, e stretta vivamente la mano di Monti, che aveva vicino, gli disse all’orecchio:

— Ascolta, ascolta! è Curzio che parla.

E Curzio, ch’era esso infatti, così riprese il suo dire:

— Io non dovrei rispondere colle parole. Tra poco Roma risponderà coll’azione, col sangue: ma io non posso lasciar cadere quest’accusa di codardia. Dite codarda Roma perchè non è insorta ancora! Ma non sapete che a Roma manca il suo sangue più caldo e più puro, e invece di quel sangue le circola nelle vene una tabe immonda e non sua? Che sono nove anni che i suoi figli migliori emigrano continuamente, e vanno ad accrescere le file dell’esercito italiano; e sono nove anni che piovano in seno [p. 33 modifica]a lei sciami di stranieri reazionari e feroci? Roma non si e ancora mossa! Ma ridatele, per Dio, il suo sangue, le sue forze! Sbrattatela una volta di questa canaglia cosmopolita, e allora, allora vedrete che cosa le sta nel

...quell’ardito drappello assaliva bravamente il corpo di guardia di Porta San Paolo.

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cuore. No, la gente che oggi circola entro le sue sacre mura non sono i figli di Roma; questi voi li troverete là fuori, colla camicia rossa, col fucile del volontario. Coloro che ci circondano da ogni parte, coloro che ci stanno [p. 34 modifica]sopra a opprimerci il respiro, a soffocare ogni tentativo a schiacciare ogni anelito del nostro cuore, sono i satelliti dalla reazione mondiale, sono le spie e i poliziotti d’ogni paese. Non è la soldatesca straniera che ci tiene schiavi, che ci paralizza le nostre forze, è questo fecciume di chierici e di delatori, che ha resa la nostra eterna città la cloaca dell’orbe intero. È questa melma, che ci avvolge, c’imprigiona, ci mozza il fiato. Un popolo inerme, ma generoso, può insorgere contro una truppa agguerrita: ma come guardarci le spalle dal tradimento, quando vi sta intorno una turba infinita di delatori e di birri? E costoro non sono romani, per Iddio! Tenetelo a mente, sono i clericali di tutta la terra, che hanno piantata la loro cittadella qui, nel cuore d’Italia. Questa è la nostra situazione; per questo furono finora sventati i nostri intendimenti; per questo, Dio nol voglia, ma io temo che il nostro tentativo sarà soffocato nel sangue. Io lo temo, si, perchè so che siamo circuiti, spiati, e per ogni buon cittadino romano v’hanno cento delatori forestieri che lo tengono d’occhio. Non importa, noi daremo tutte le nostre forze, tutta la nostra vita per la patria, protesteremo almeno colla morte contro il governo dei preti. Il plebiscito di Roma sarà scritto, non foss’altro, col sangue de’ suoi cittadini cadenti sotto il piombo de’ mercenari stranieri, e sotto la mannaia del pontefice. All’armi, all’armi dunque, o veri romani! In questo supremo momento taccia ogni rancore: tutti siamo concordi in un solo volere. Mostriamo all’Italia, al mondo intero che non vogliamo, no, non vogliamo essere sudditi di un sacerdote coronato che insulti il Vangelo e la croce di Cristo!

Curzio aveva pronunziato il suo discorso con quella foga irresistibile della passione che trascina invincibilmente gli uditori. Tutto l’entusiasmo dell’amor patrio e dell’abnegazione era impresso nelle sue parole. Pareval che in lui rivivesse lo spirito di quel grande di cui portava il nome.

Il fremito che percorse l’assemblea fece comprendere che quel fervido impulso si era rapidamente trasfuso a commuovere tutti gli astanti.

— Andiamo, dunque!

— Alle armi!

— Viva la libertà!

Così gridarono mille voci, e insieme si udirono in quella oscurità il rumore delle lame sguainate e lo scricchiolio de’ revolver.

— Fermate! aspettate! gridò in quella la voce severa e calma di un uomo, che pareva il capo della riunione. Ogni movimento incomposto condusse sempre a rovina. È necessario adunque che le nostre mosse siano coordinate insieme, e regolate da un piano, perchè più pronto e sicuro sia l’effetto. Solamente una disciplina assoluta accoppiata a disperato coraggio può condurre a buon termine un’impresa come la nostra. A me dunque, ascoltate. Brevi saranno le mie istruzioni. Pronta e rapida sia l’azione. Il movimento deve aver principio alla stessa ora in diversi punti di Roma, [p. 35 modifica]per distrarre e dividere le forze dell’inimico; una volta impegnata la lotta, la città intera diverrà il campo della battaglia. Il centro dell’azione deve essere il Campidoglio; la campana di quella torre, che rappresenta anche oggi il capo di Roma, risveglierà e chiamerà all’armi tutti quanti i cittadini. L’antico propugnacolo della grandezza romana diverrà la rôcca inespugnabile della nascente libertà. Ottocento giovani scelti guidati dai loro capi-sezione sono già destinati dal Comitato a occupare il Campidoglio e a porvi il presidio. Le armi necessarie a tale impresa sono nascoste in una vigna fuori di Porta San Paolo. Al momento dell’azione è necessario che quelle armi siano introdotte a forza per la Porta San Paolo, sbarrata e occupata dagli zuavi del Papa. Duecento giovani sono destinati a questo colpo: essi usciranno alla spicciolata dalla Porta San Giovanni, che è l’unica aperta in questo giorno, si riuniranno in prossimità della vigna, e dopo aver caricate le armi sui carri, si avvieranno con quelle verso la Porta San Paolo. Frattanto alla medesima ora un altro drappello dall’interno della città assalirà il corpo di guardia degli zuavi, se ne impadronirà, e aprirà la porta ai compagni che sopraggiungono colle armi. Queste saranno rapidamente distribuite agli ottocento giovani destinati alla presa del Campidoglio, i quali si troveranno disseminati per tutte le vie che da Porta San Paolo, per la Marmorata, Bocca della Verità e Piazza Montanara conducono al Campidoglio; ed essi non tarderanno un istante ad occuparlo. Mentre si compirà questa fazione, in tutti gli altri punti principali della città deve scoppiare simultaneamente l’insurrezione; sarà cura di ogni capo-sezione di avvertire e raccogliere al dato momento gli uomini del suo rione. In Piazza Colonna si attaccherà il corpo di guardia, e quivi si aduneranno gli uomini destinati a impadronirsi del Comando di piazza e del palazzo di polizia di Monte Citorio. In pari tempo la caserma degli zuavi sarà minata; quello scoppio servirà di segnale a tutti gl’insorgenti di Borgo e della Longara. Romani, fratelli! il momento supremo è giunto! Concordia e prontezza nell’azione, e la vittoria sarà per noi! L’ora fissata pel principio dell’azione, è quella delle sette.

Il capo tacque; alle sue parole successe un silenzio pieno di solennità; ognuno sentiva la gravità di quell’ora. Dagli uomini là radunati dipendeva la vita dei concittadini, la salute della patria. La maggior parte di loro era forse in quell’istante consacrata alla morte.

Prima di separarsi, sentirono spontaneamente la necessità di un bacio fraterno. Ognuno abbracciò il suo vicino, come si abbraccia l’uomo che va morire.

Monti e Tognetti aspettarono Curzio all’imboccatura della grotta.

Egli si pose in mezzo a loro; li prese per mano, li trasse in disparte, e tutto lieto loro disse:

— Coraggio, amici miei: a noi è affidata la missione più importante: quella di far saltare in aria la caserma degli zuavi!...