I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo VIII
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VIII
L’insurrezione.
Sciolta l’adunanza della grotta, i capi-sezione si affrettarono a recarsi al proprio rione; quivi ognuno, per mezzo de’ suoi sotto-capi, uomini fedeli e provati, diede l’avviso agli uomini della sua squadra.
I capi-sezione avevano ricevuto nel seno del Comitato l’indicazione delle speciali incombenze che a ciascuno erano affidate, ed essi alla loro volta, diramando i loro comandi, adopravano che ognuno all’ora fissata si trovasse al suo posto, pronto al cimento.
I cittadini romani, dipendenti da quei caporioni, erano animati da uno spirito ardente, erano ansiosi di venire alla lotta. E se un generoso proposito, sorretto dalla gagliardia dell’azione, fosse bastato pel trionfo della causa migliore, a quest’ora la bandiera dei tre colori sventolerebbe vittoriosa sulla vetta del Campidoglio.
Ma un malefico genio sovrastava all’impresa. Curzio aveva detto pur troppo il vero. Gli sforzi magnanimi dei patrioti romani erano paralizzati da quel colossale spionaggio che la Curia romana accumulò in tanti anni, chiamando in suo aiuto tutti gli avanzi della barbarie che i popoli civili hanno ributtati innanzi all’impulso della libertà.
E se gli sforzi riuscirono vani, se inutilmente fu sparso il sangue di tanti generosi, la colpa è tutta di questo mostruoso connubio della rete di Pietro collo scettro di Nerone.
La delazione, dalla quale i patrioti non potevano difendersi, fu quella appunto che fin da principio sventò il piano della rivolta.
Nel momento stesso in cui il Comitato aveva raccolti nella grotta di Monte Aventino i capi-sezione e tutti quei congiurati ai quali era devoluta una importante missione da compiere, il direttore della polizia, nel suo palazzo di Monte Citorio, veniva avvertito da’ suoi confidenti segreti, che fuori della Porta San Paolo, e precisamente nella vigna Matteini, stava nascosto un deposito di armi e di munizioni che dovevano servire per la insurrezione di Roma.
È facile imaginare l’allarme che produsse nel governo una tale notizia; le precauzioni furono adottate, gli ordini furono diramati in un lampo; e mentre si raddoppiava il presidio dei corpi di guardia, e si mandavano grosse pattuglie per la città, una colonna, composta di una compagnia di zuavi, e di mezzo squadrone di gendarmi a cavallo, moveva verso la Porta San Paolo.
Alle ore cinque e un quarto pomeridiane quella colonna giungeva alla vigna Matteini, e la circondava.
In quell’ora non si trovavano alla vigna che otto uomini. I duecento giovani destinati ad introdurre in città le armi e le munizioni non dovevano raccogliersi in quel luogo se non che verso le sei ore e mezzo.
Al primo presentarsi della truppa, quegli otto valorosi, che avevano la custodia del deposito, tentarono una resistenza impossibile esplodendo i loro fucili, ma ben presto furono sopraffatti dal numero, e alcuni di essi vennero uccisi, altri arrestati.
Così le armi che dovevano servire alle forze della rivolta, caddero in potere dei satelliti dell’oppressione.
Frattanto i giovani, che alla spicciolata uscivano dalla Porta San Giovanni per recarsi, girando le mura, alla villa Matteini, venivano di mano in mano, senza possibile resistenza, arrestati dalle numorose pattuglie che colà erano state a tal uopo disposte.
Non ostante queste precauzioni della polizia e della forza militare, nei dintorni del Monte Testaccio era riuscito di adunarsi al drappello destinato ad attaccare dal di dentro della città la Porta San Paolo, per facilitare così l’ingresso ai compagni, che dovevano recare dalla vigna le armi e le munizioni.
Infatti, all’ora fissata delle sei e mezzo, ignorando che le armi erano cadute in mano dei pontific), quell’ardito drappello assaliva bravamente il corpo di guardia della Porta San Paolo.
Gli zuavi di guardia, superiori di numero, si difesero con accanimento ma dovettero cedere all’impeto degli audaci Romani; questi s’impadronirono della porta, e non potendo aprirla, vi appiccarono il fuoco, e così schiusero il varco. Ma in quella che credevano d’incontrarsi coi loro compagni, reduci col carico delle armi dal luogo del deposito, s ’ imbatterono invece nelle truppe inimiche, che di quelle armi si erano appunto allora impossessate.
Non si scoraggiarono i patrioti di contro alla preponderanza del numero e all’avversità dell’opposta fortuna. Si fecero baluardo della porta, e tennero fermo.
La compagnia degli zuavi si avanzò alla bajonetta: fu accolta con un fuoco vivissimo, e costretta a ripiegare.
Allora mossero inannzi i gendarmi a cavallo, mulinando colle sciabole sguainate i patrioti li aspettarono di piè fermo, e combattendo disperatamente li posero in fuga.
La colonna pontificia si ritirò nella vigna Matteini, e la Porta San Paolo rimase in potere di quel pugno di forti.
Intanto gli ottocento uomini destinati ad occupare il Campidoglio aspettavano inutilmente le armi, dispersi pel lungo tramite di vie che dalla Marmorata conduce fino a’ piedi di quel colle.
Così inermi, isolati, delusi nell’aspettativa, furono in breve circondati da un fitto cordone di truppe. Affrontarono imperterriti il fuoco nemico ma circuiti da ogni parte o oppressi dalle forze sproporzionate degli assalitori, furono per la maggior parte arrestati, e tradotti nelle riboccanti carceri pontificie.
Non ostante il cumolo di questi disastri, e la mancanza delle armi, tutti quelli che potevano sottrarsi all’arresto, o liberarsi violentemente dalle mani degli sgherri papali, si lanciarono verso il Campidoglio. Erano pochi, divisi e muniti a mala pena di qualche fucile e di alcune bombe all’Orsini: ma pure sarebbero bastati all’impresa, se anche in questa non li avesse attraversati l’opera nefanda dello spionaggio.
Il governo pontificio, avvisato fin dalla mattina del tentativo che si preparava, aveva fatto occupare improvvisamente il palazzo dei Conservatori in cima del Campidoglio, da più compagnie di cacciatori esteri.
Così, quando gl’insorti si avanzavano per occupare quella posizione, furono ricevuti da una scarica tremenda, che partendo dalle finestre del palazzo e colpendoli di fronte, ne rovesciò la maggior parte sul terreno. La grande scalinata del Campidoglio apparve tutta seminata di cadaveri e bagnata di sangue.
Tutti i superstiti seguitavano a salire, esplodendo i loro fucili. Dalle finestre del palazzo continuava a partire un fuoco vivissimo. Intanto i popolani del rione dei Monti, guidati dai loro capi-sezione, tentavano di giungere sul Campidoglio dalla parte del Foro Romano.
Si diedero a salire per le due gradinate secondarie dal lato dell’arco di Settimio Severo e da quello della Rupe Tarpea.
Quegli sbocchi erano fortemente occupati dai cacciatori esteri e dai gendarmi.
I Romani si trovarono nella svantaggiosa situazione di chi sale combattendo contro chi si trova in alto; erano pochi e quasi inermi contro i molti e armati, ma pure procedevano animosi.
Si combatteva da ogni parte del Campidoglio: frequenti e micidiali erano i colpi dei soldati: scarsi e spesso vani quelli degli insorti.
La sacra collina, la fortezza di Roma, era come in antico attaccata e difesa accanitamente. Ma questa volta non erano i barbari che assalivano, non erano i romani che resistevano.
I barbari chiamati dai sacerdoti stavano accampati sul Campidoglio; e il popolo romano tentava invano di ripigliare ciò che la frode gli tolse, e gli contrasta la forza.
Lunghi ed eroici furono gli sforzi degli insorti, ma il soccorso delle truppe fresche in vantaggio dei pontificj decise della giornata.
I popolani, assaliti a tergo da nuove compagnie di cacciatori esteri, partiti al passo di corsa dalla vicina caserma, furono schiacciati fra due fuochi mentre la fucilata continua del palazzo spazzava la grande scalinata.
Funeste del pari procedevano le sorti della rivolta in altri punti di Roma; e dappertutto invano si spargeva il sangue cittadino.
Il deposito di revolver destinato ad armare quei patriotti che dovevano attaccare il comando di piazza e il palazzo di polizia a Monte Citorio, fu scoperto anche quello per opera dei delatori, e venne sequestrato nel momento appunto in cui si doveva farne la distribuzione.
Pur tuttavia si tentò l’impresa; uccisa la sentinella, gli insorti attaccarono il corpo di guardia di Piazza Colonna, esplodendo delle bombe all’Orsini, unica arma che lor rimanesse: ma furono soprafatti dai drappelli di cavalleria che quivi giunsero a sgominarli.