I drammi della schiavitù/8. Una ferita inesplicabile

8. Una ferita inesplicabile

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VIII.


Una ferita inesplicabile


La temeraria manovra del negriero era completamente riuscita; la nave nemica che doveva assalirlo, era stata invece colpita a morte, prima ancora che potesse virare di bordo per presentare la prua. [p. 59 modifica]

La Guadiana l’aveva speronata fra l’albero di maestra e quello di trinchetto, aprendole il fianco dalla linea di galleggiamento al livello della coperta, ma con tale impeto, da rovesciarla sul tribordo. L’acqua si precipitava di già attraverso all’immensa apertura col fragore d’una vera cateratta, minacciando di trascinare il legno negli abissi dell’Atlantico in pochi minuti.

L’equipaggio del London, malgrado il pericolo che correva, non arrestò il proprio slancio. Vedendo la prua della nave negriera ancora incastrata nell’enorme ferita, si rovesciò furiosamente verso di essa, per invaderla.

Ufficiali, marinai e soldati di fanteria di marina irrompono contro le murate squarciate, s’agrappano ai cavi ed alla rete del bompresso della Guadiana, si calano lungo i fiocchi, scalano il parapetto proviero e si precipitano all’abbordaggio empiendo l’aria di urla feroci.

Ma il capitano Alvaez aveva veduto il pericolo. Mentre gli uomini della manovra contrabbracciavano rapidamente le vele per svincolare la Guadiana ed allontanarla, si slancia verso la prua alla testa dei suoi tiragliatori e dei suoi cannonieri, per contrastare il passo al nemico e ributtarlo sulla nave affondante.

In quello spazio ristretto, su quella punta estrema della nave, s’impegna una lotta furibonda, mentre dalle gabbie, dalle crocette e dai pennoni tuonano le carabine e piovono le granate.

Il negriero, ardito soldato quanto abile capitano, con una pistola nella sinistra, e la sciabola d’abbordaggio nella destra, trascina i suoi uomini all’assalto con voce tuonante. I due equipaggi s’incontrano sul castello di prua, ma gli avversari, per la strettezza dello spazio, non sono numerosi.

I negrieri s’avventano sui primi che incontrano malgrado la terribile fucileria che parte dalla coperta dell’incrociatore, li tagliuzzano a colpi di scure e di sciabola e li ributtano sul ponte nemico, ma altri s’arrampicano sulle murate, si issano sul bompresso e irrompono sulla prua. Lampeggiano le armi, tuonano le pistole e le carabine, cadono gli uomini, emettendo urla feroci, urla di vendetta soddisfatta o di morte.

Ad un tratto echeggia la voce tuonante di Hurtado:

– Tutti sul ponte: la nave è libera!...

La Guadiana si stacca dall’incrociatore, ritirando lo sperone con un acuto stridìo, oscilla violentemente da babordo a tribordo e indietreggia portando seco gli uomini dell’incrociatore che erano riusciti a salire sulla prua.

Un nembo di mitraglia, lanciato dai cannoni della coperta della [p. 60 modifica] nave affondante, spazza il castello della nave negriera uccidendo o storpiando amici e nemici, poi una scarica di fucili torna a spazzarla. Il capitano Alvaez, che si trovava in mezzo ai combattenti, si apre un varco fra i marinai, scende la gradinata barcollando e giunto sul ponte stramazza al suolo, lasciando andare la sciabola d’abbordaggio grondante sangue.

Il dottore, che non lo perdeva di vista, si slanciò verso di lui:

– Alvaez! – gridò.

Il capitano non rispose: aveva smarrito i sensi ed era diventato pallido come un morto.

Il dottore non si perdette d’animo. Mentre i cannoni tuonavano e la fucileria tempestava le due navi, raccolse l’amico, se lo prese fra le braccia e attraversato rapidamente il ponte fra il fuoco e le palle, lo trasportò nella sua cabina, adagiandolo su di un letto.

– Alvaez! – ripetè. – Gran Dio!... Sei ferito a morte forse? Dannato incrociatore!...

Senza curarsi delle palle che si sprofondavano con cupo rimbombo nella carena della nave e che potevano entrare anche in quella cabina e dell’equipaggio che rispondeva furiosamente agli ultimi colpi della nave affondante, spogliò rapidamente l’amico che non dava quasi più segno di vita.

Guardò il petto, ma non aveva che due leggere scalfitture, prodotte da due colpi di punta, probabilmente da due colpi di spada o di coltello.

– To’! – esclamò Esteban, sorpreso. – Dove può essere stato colpito?

Un filo di sangue che sfuggiva sotto la camicia arrossando le lenzuola del letto, lo avvertì che la ferita era sul dorso. Voltò delicatamente il ferito e vide un piccolo foro, aperto fra la scapola della spalla destra.

– Una palla qui!... – esclamò. – Ecco un bel mistero!... Ma se l’ho veduto lottare sempre col petto volto al nemico?... Chi può averlo colpito per di dietro?...

– Dottore! – esclamò in quell’istante una voce tremante.

Esteban si volse colla fronte aggrottata e vide, ritta sulla porta della cabina, la giovane mulatta, col viso alterato da una inesprimibile angoscia, pallido come quello del capitano e gli occhi umidi.

– Ah! Sei tu, Seghira? – disse il dottore, rasserenandosi.

– È ferito? – chiese la schiava, con un alito di voce.

– Sì.

– Molto? [p. 61 modifica]

– Lo temo.

– Ah! Non voglio che muoia! – esclamò ella con strana energia.

Il dottore la guardò con viva sorpresa, fissandola negli occhi come se volesse leggerle in fondo all’anima e mormorò:

– Speriamo.

Si mise all’opera senza perdere tempo; il sangue usciva in gran copia dalla ferita ed il capitano poteva soccombere per la violenta emorragia manifestatasi. Esaminò attentamente il buco come se volesse indovinare la direzione presa dalla palla e la specie del proiettile, poi si mise a scandagliare la ferita, servendosi dei suoi strumenti.

Operava rapidamente e con mano sicura, da uomo che sa il proprio conto e che sa apprezzare i momenti.

– Eccola! – mormorò ad un tratto, respirando liberamente. – Temevo che avesse leso il polmone ed invece è deviata lungo le costole. Afferriamola: questa palla mi preme assai.

Prese una pinzetta d’argento, la lavò in una fiala contenente una soluzione di acido fenico e la introdusse delicatamente nella ferita. Frugò alcuni istanti con precauzione, poi la ritirò lentamente, procurando di non urtare i margini del buco e finalmente la estrasse. Le due punte stringevano un oggetto rotondo, lordo di sangue.

Il dottore lo lasciò cadere in un bicchiere d’acqua che si trovava su di uno sgabello, poi pose sulla ferita delle compresse bagnate e le fasciò con rapida mano.

Aveva appena terminata quell’operazione, che il capitano rinvenne. Emise un profondo sospiro, come un gemito represso, mosse debolmente le membra, poi aprì lentamente gli occhi, fissandoli sul dottore il quale lo adagiava sul fianco sinistro.

– Ah! Sei tu, Esteban! – mormorò con un filo di voce.

– Sono io, amico.

– Sembra che io sia... ferito... è vero?... – chiese, sforzandosi di sorridere.

– Ti hanno piantata una palla nel dorso.

– Nel dorso?... Hai detto?... È impossibile... ti sei ingannato!...

– Ti ho estratto or ora il proiettile.

– Dal dorso?...

– Dalla spalla destra.

– Ma... [p. 62 modifica]

– Zitto ora, Alvaez; parleremo di ciò più tardi. I feriti devono riposare.

– E l’incrociatore?... Non odo più... il cannone.

– Non so nulla, ma mi pare che la Guadiana fugga, poichè rolla e beccheggia.

– Abbiamo... vinto?...

Un hurrà formidabile echeggiò in quell’istante sul ponte, mentre in lontananza si udiva come una sorda detonazione, seguita da urla di rabbia.

Il dottore si precipitò verso il sabordo, che s’apriva sulla poppa della nave e guardò fuori. A seicento passi vide l’incrociatore quasi interamente sommerso, che ondeggiava come se fosse preso da un formidabile gorgo, mentre all’intorno s’allontanavano rapidamente parecchie imbarcazioni, cariche di persone al punto di quasi affondare.

– Cosa vedi, Esteban? – chiese Alvaez, tentando di sollevarsi sui gomiti.

– L’incrociatore che affonda – rispose il dottore.

– Si sono salvati gli uomini... che lo montavano?...

– Sì, vedo delle scialuppe cariche di marinai e di soldati.

– Meglio così... io non sono... feroce come... loro... che si lascino raggiungere la costa... africana... tranquilli.

Ricadde spossato sul guanciale, emettendo un gemito. Ad un tratto però si rialzò, impallidì, poi arrossì bruscamente, come se tutto il sangue gli affluisse al capo. I suoi occhi semispenti si rianimarono fissandosi sulla giovane schiava, la quale se ne stava accovacciata in un canto della cabina, col viso alterato, piangendo silenziosamente.

– Seghira... mia povera ragazza... – mormorò. – Tu... qui... mi fa piacere... sai... il vederti presso di me.

– Padrone – diss’ella alzandosi, mentre i suoi grandi occhioni vellutati mandavano un lampo di gioia sconfinata.

– Vieni... qui... presso di me... povera ragazza... tu sola piangi... per me... tu ed Esteban... gli altri mi vedrebbero...

Non finì, un amaro sorriso increspò le sue labbra, impallidì, le forze lo abbandonarono repentinamente e ricadde svenuto.

– Morto! – esclamò Seghira, scattando come una leonessa ferita. – Morto!...

– No – disse Esteban, dopo un rapido esame. – Ha voluto parlare troppo ed è tornato a svenire, ma sarà cosa da poco.

– Lo salverete, dottore?

– Lo spero, Seghira. [p. 63 modifica]

– Voglio che viva!...

– È strana! – esclamò il dottore. – Cosa interessa a te che quest’uomo viva o muoia? Gli schiavi odiano sempre i loro padroni e più di tutti i negrieri, che li rapiscono alla loro patria. Perchè non l’odii tu?...

– Non lo so – mormorò la schiava. – Ma io non l’ho mai odiato.

– Tu sei pallida, Seghira. Ameresti Alvaez?

– Sono una schiava, dottore... – rispose la mulatta, volgendo altrove lo sguardo. – Gli schiavi dell’Africa maledetta non possono amare, e poi... io... amare lui?... Il padrone che a tutti comanda!

– Sei bella, Seghira.

– Sono una schiava, signore.

– Chissà! – mormorò il dottore. – Si sono veduti ben altri casi... Altri negrieri... e perchè no?... Che bella coppia per bacco!

Tacque udendo dei passi nella corsia. Si volse e vide fermi sulla porta della cabina il secondo e mastro Hurtado.

Il primo era più livido del solito, grave, quasi cupo, ma nei suoi grandi occhi grigi si leggeva una viva inquietudine, una agitazione che pareva a gran pena repressa; mastro Hurtado era invece sconvolto e sulle sue brune guance si vedevano rotolare silenziosamente due stille, forse le prime che quell’orso marino versava.

– È morto? – chiese con voce funebre il secondo.

– No, signor Kardec – rispose il dottore, fissandolo con attenzione particolare.

– È grave la ferita?

– Grave sì, ma forse non mortale.

Negli occhi del bretone balenò un fosco lampo e quella faccia punto simpatica, ebbe un trasalimento nervoso.

– Lo salverete, dottore? – chiese il mastro, con voce tremula.

– Lo spero, Hurtado.

– Ah! Cane d’un incrociatore! – esclamò il mastro con ira. – Conciare così il mio capitano! Se lo avessi saputo prima, facevo fracassare le imbarcazioni e li affondavo tutti!...

– Sarebbe stata una ferocia inutile, Hurtado.

– Inutile!... Eh! Per mille treponti sventrati!... Non sono stati loro a rovinare il mio capitano?

– Chi loro?

– Quei cani del London. [p. 64 modifica]

– Credo che quelli non c’entrino affatto colla ferita toccata al tuo capitano, mio bravo marinaio.

– Eh?! – esclamò il mastro, sbarrando gli occhi. – Cosa dite, dottore?

– Dico che il tuo capitano è stato colpito a tradimento, dietro alle spalle, a bruciapelo, mentre aveva la fronte volta al nemico.

– È impossibile, signore! – esclamò il mastro. – È vero che il nostro è un equipaggio composto di banditi, ma non credo che qualcuno possa odiare il nostro capitano.

– Può esservi qualcuno che ha interesse che il capitano muoia.

– Ma chi?... Ditemelo, signor Esteban, che vado a gettarlo in bocca ai pescicani.

– Non lo so, ma forse lo sapremo.

– In qual modo? – chiese il secondo con un tono di voce così strano, che il dottore ne fu colpito.

Guardò il francese: era più livido d’un cadavere, e nei suoi occhi si leggeva un’ansietà tale, che il dottore non potè fare a meno di sussultare. Era un accesso di sorda rabbia per non conoscere il traditore, che aveva vigliaccamente tentato di assassinare il prode brasiliano e d’indignazione per l’infame attentato o era una paura segreta che gli conturbava l’animo? Chissà: quell’uomo era così strano, così incomprensibile, che tutto si poteva supporre ma senza indovinare.

– In qual modo? – disse il dottore, crollando il capo come se volesse scacciare un importuno pensiero. – Non lo so ancora, ma forse vi è una prova nella palla che ho estratto dalla ferita del capitano.

– L’avete conservata? – chiese il secondo, con una viva ansietà.

– Sì, signor Kardec. È qui, in questo bicchiere.

– Avete fatto bene.

– Vi sono dei feriti da curare sul ponte? Il capitano per ora non ha bisogno dell’opera mia: si è assopito e questo riposo gli farà bene.

– Vi sono sei feriti, dottore – disse Hurtado.

– E molti morti?...

– Una diecina.

– Ed i negri?...

– Una palla ne ha ammazzati sette e un’altra ne ha storpiati due o tre.

– Andiamo a curare i feriti, Hurtado. Tu, Seghira, veglierai sul capitano. [p. 65 modifica]Il suo staffile piombò con sordo rumore sulle spalle d’un negro gigantesco (Pag. 69). [p. 67 modifica]

Il dottore raccolse i suoi istrumenti chirurgici ed uscì seguìto da Hurtado. Il bretone rimase nella cabina, appoggiato alla parete, colle labbra contratte, la fronte abbuiata, lo sguardo cupo, fisso ostinatamente sul bicchiere contenente la palla estratta dalla ferita del capitano. Ad un tratto i suoi occhi si staccarono dal bicchiere e si posarono sulla schiava, che si era curvata sul letto, spiando ansiosamente le più piccole mosse del ferito. Una viva fiamma balenò nei suoi occhi ed un trasalimento contrasse i suoi lineamenti.

Pareva preso d’ammirazione per quella figlia della nera Africa, dalle carni morbide come il velluto, che i morsi del sole equatoriale avevano leggermente abbronzato; il suo sguardo si posava su quei lunghi capelli più neri dell’ebano, dai riflessi metallici, leggermente increspati e più sottili della seta, su quelle labbra rosse come il corallo, su quel corpo emanante un fremito di gioventù poderosa. Stette parecchi minuti immobile, poi facendo un passo innanzi, come se avesse preso un’improvvisa risoluzione, disse:

– Seghira, cosa fai tu qui?

La schiava alzò il capo e fissò sul bretone i suoi grandi occhi neri, inumiditi ancora da una lagrima che tremolavale sulle ciglia.

– Veglio sul padrone – disse.

– Il tuo posto non è qui; è fra gli schiavi del frapponte.

– Sono ormai donna libera – rispose ella con fierezza.

– Chi t’ha data la libertà?

– Il padrone.

– Ah!... Lui!... – mormorò il bretone con leggera ironia.

Esitò un momento, poi disse rapidamente:

– Bada: egli ti ruberà il cuore.

– È il padrone – rispose la schiava.

– E poi ti venderà – continuò il bretone con tono acre.

– È nel suo diritto.

– E se un altro uomo ti dicesse: «Vuoi essere mia che ti darò la libertà completa», cosa risponderesti?...

La schiava lo guardò fisso fisso come se volesse leggergli in fondo al cuore, poi fece un atto di repulsione che non isfuggì al bretone e rispose con un accento che non ammetteva replica:

– Il capitano Alvaez è il mio solo padrone.

– Ah! – esclamò Kardec con voce sorda.

Ed uscì, facendo un gesto minaccioso.