I drammi della schiavitù/22. Una preda colossale

22. Una preda colossale

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21. Gli orrori della fame 23. Le coste dell'Africa


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XXII.


Una preda colossale.


Per quanto la cosa sembrasse assai strana, pure un vero pescecane era stato preso od almeno stava per farsi prendere.

I colpi violenti che dava alla zattera, i suoi potenti sospiri, l’acqua che rimbalzava verso poppa ad una grande altezza, rovesciandosi sul ponte, indicavano che Vasco non aveva mentito.

L’equipaggio, rialzatosi prontamente, temendo che il disgraziato portoghese stesse per fuggire dietro a Kardec ed i suoi compagni, udendo il grido di Vasco, si era arrestato girando all’intorno sguardi feroci. Vedendo emergere la testa dello squalo proprio presso la poppa, si rovesciò da quella parte emettendo grida selvagge.

– Prendiamolo!... Addosso tutti!...

Nessuno più pensava a occuparsi di Cabral, che giaceva ancora sul ponte, semi-svenuto per l’angoscia, chiedendosi per quale miracolo si trovava ancora fra il numero dei viventi. Infine era meglio divorare un pescecane che un camerata, tanto più che il primo era otto volte più grosso.

Vasco, Kardec e gli altri li avevano già preceduti e si erano subito impadroniti d’una fune, che si svolgeva rapidamente sotto [p. 172 modifica] i possenti colpi di coda dello squalo, il quale si era affrettato a prendere il largo.

– Tenete fermo! – gridò Kardec. – Il pescecane è nostro!

Il mostro si era allora inabissato, ma tutti avevano potuto vedere in qual modo si era lasciato prendere. Vedendo un ancorotto pendere in acqua, sul tribordo della zattera, l’aveva scambiato per qualche oggetto mangiabile ed in un solo boccone l’aveva inghiottito.

Essendo però la fune legata attorno ad un travicello, con una violenta strappata l’aveva staccata ed aveva cercato di allontanarsi, ma Vasco era riuscito ad impadronirsi dell’estremità prima che questa sparisse sotto le onde, avvolgendola attorno al timone.

I marinai, dimenticati i loro odi, si precipitarono come un sol uomo sulla fune, che Kardec ed i suoi trattenevano, facendo sforzi disperati per non farsi trascinare nell’Oceano e le impressero una scossa potente per far entrare nelle carni dello squalo le punte dell’ancorotto.

– Tenete fermo! – ripetè Kardec. – Se lo prendiamo, avrete tanta carne da sfamarvi per quattro settimane.

– Purchè non tagli la fune – disse Vasco.

– Lo uccideremo a colpi di fucile appena si mostra.

– Eccolo! – gridarono i marinai.

– Preparate le armi voi! – gridò Kardec.

Lo squalo stava per riapparire. Sentendosi lacerare lo stomaco ed il palato dalle punte di quell’enorme amo, saliva alla superficie pronto a lottare contro i pescatori ed a disputare a colpi di coda la vittoria.

Si vide l’acqua ribollire impetuosamente, poi lo si vide balzare fuori, innalzandosi, con uno slancio irresistibile, per parecchi metri sulla superficie dell’Oceano. Si dibattè un istante in aria, agitando pazzamente le pinne pettorali e caudali, poi ricadde pesantemente nei flutti, sollevando una larga ondata, che s’infranse con sordo fragore contro la zattera.

– Fuoco! – comandò il tenente.

Il dottore e Vasco scaricarono le carabine, formando una sola detonazione. Lo squalo, colpito alla sommità del muso ed in fianco, fece un balzo gigantesco e tentò di chiudere la smisurata bocca per tagliare la fune, ma non vi riuscì. L’ancora gli si era infissa nel palato e nella gola impedendogli di chiudere i denti.

– È nostro! – gridarono i marinai.

– Sì, – disse Kardec, – se non riesce a spezzare le patte dell’ancorotto. Ohè! Issa! [p. 173 modifica]

A quel comando i marinai radunarono le loro forze e cominciarono a ritirare la fune. Il mostro, che quantunque doppiamente ferito conservava il suo vigore straordinario, opponeva una disperata resistenza, vibrando dei controcolpi di coda e di pinne, ma non poteva resistere a quella energica trazione.

Kardec, Vasco ed il dottore incoraggiavano i marinai, i quali facevano sforzi sovrumani per tirare a bordo la preda colossale. Gli sguardi di tutti tradivano un’ardente bramosia e le mascelle si agitavano come se già assaporassero quelle carni.

Con un’ultima strappata trascinarono lo squalo presso la zattera. Kardec armato d’una scure e Niombo munito della sua trave, lo assalirono tempestandolo di colpi, ma ad un tratto furono violentemente rovesciati assieme a tutti gli altri.

Il pescecane, quantunque perdesse sangue da più di dieci ferite, aveva spiccato un balzo innanzi ed era caduto sulla zattera, fracassando, col suo enorme peso, una parte del ponte.

– Attenti ai colpi di coda! – urlò Kardec, risollevandosi bruscamente, mentre Seghira scaricava la sua carabina.

I marinai si gettarono confusamente a destra ed a sinistra per non venire sfracellati dalla possente coda, che vibrava colpi tremendi per ogni dove.

Pareva che quello squalo avesse l’anima incavigliata e che non volesse ancora cedere. Cercava di balzare in avanti per raggiungere l’Oceano, batteva disperatamente le larghe pinne pettorali, sbarrava l’immensa bocca mostrando i suoi potenti denti mobili e triangolari, emetteva dei rauchi brontolii e saettava i nemici coi suoi piccoli occhi verdastri.

Con un colpo di coda abbattè l’albero facendo cadere la vela, con un altro spazzò via la tenda dell’equipaggio ma i marinai che non volevano perderlo, lo assalivano da tutte le parti coi fucili, colle scuri, coi ramponi, colle manovelle.

Le ferite si moltiplicavano, ma non moriva ancora. È incredibile la vitalità che hanno questi mostri; resistono a lungo alle palle, alle fiocine ed alle scuri anche quando si trovano fuori dal loro naturale elemento e lottano fino all’ultimo istante.

Finalmente, sfinito, esausto di sangue, coperto di ferite cessò d’agitarsi e si distese senza vita sul ponte della zattera, dopo d'aver vibrato, con incredibile vigore, ancora una volta la sua formidabile coda.

Un hurrà fragoroso salutò la sua morte e tutti, Kardec ed il dottore compresi, si scagliarono su quel corpo gigantesco strappando qua e là brani di carne ancor palpitante, che venivano [p. 174 modifica] divorati all’istante malgrado il sapore nauseabondo e la loro durezza.

Quello squalo era veramente enorme, uno dei più grandi che i marinai avessero fino allora veduto nuotare nelle acque della zattera. Era lungo undici metri e mezzo, pesava oltre cinquecento chilogrammi e la sua bocca misurava una circonferenza di oltre un metro!

Saziata la fame, l’equipaggio si mise tosto all’opera per poter conservare lungamente quella massa di carne, che poteva nutrirli per tre od anche quattro settimane e senza economia.

Niombo, che possedeva una forza da gigante, lo divise a metà a colpi di scure, poi i marinai si misero a tagliare i pezzi in sottili listelle per seccarle al sole, operazione molto facile e pronta con quel po’ po’ di calore, che toccava i 46 od i 48 gradi.

Furono tese numerose corde ed a quelle si appesero le strisce sanguinolenti, lasciando fra l’una e l’altra una certa distanza, perchè seccassero più facilmente e più rapidamente.

Il cuore, il fegato ed il cervello furono tenuti per la cena e Vasco s’impegnò di cucinarli, adoperando una specie di graticola fabbricata con alcuni pezzi di ferro strappati al tavolato della zattera.

– Ora possiamo vivere tranquilli – disse il dottore a Seghira, che assisteva al lavoro dell’equipaggio. – Con queste provviste e coll’acqua che ci rimane, potremo giungere sulle coste dell’Africa senz’altri patimenti.

– Sono necessari molti giorni ancora?

– Fra una settimana possiamo avvistare le coste, se questa brezza non cessa.

– Lo sospiro quell’istante – disse la giovane africana con aria tetra. – Qualcuno non ritornerà più sul mare.

– Ed egli ti ama!...

– E quest’amore gli sarà fatale.

– E gli altri?

– Appartengono a Niombo.

– Pure non hanno colpa alcuna, Seghira, nell’assassinio di Alvaez.

– Ma hanno assassinato i Baccalai.

– È vero.

– E Niombo li vendicherà. La nostra razza non perdona.

– Cosa farà di questi disgraziati?

– Lo ignoro.

– Li ucciderà?

– Non lo so. [p. 175 modifica]

– Tu non lo permetterai, Seghira: basta uno.

– Farò il possibile per salvarli, ma forse si pentiranno di non essere stati uccisi.

– Per quale motivo?...

– Credete voi, dottore, che Niombo accorderà a loro la libertà?... A loro, che poco fa volevano uccidermi?... Ditemi: fila sempre verso l’est la zattera?

– Sempre, Seghira.

– Spera Vasco di approdare alla baia?

– In quei dintorni. È un abile marinaio e non s’ingannerà.

– Ah! Se si potessero avvertire i compatrioti di Niombo del suo prossimo arrivo!

– Saprà ritrovarli ugualmente.

– Di questo ne sono certa, dottore.

– Lo riconosceranno ancora per loro capo?

– So che godeva una popolarità immensa.

– Ma avrà forse un rivale da rovesciare, giacchè in questo frattempo avranno nominato un altro capo.

– Nessuno oserà contrastare il potere a Niombo. Egli è troppo forte e troppo terribile, per non tremare dinanzi a lui.

– E di me, e di Vasco, cosa farà?

– Siete suoi amici e non avrete a dolervi di lui.

– Grazie, Seghira.

– Di che, dottore? – disse una voce dietro di loro.

– Ah! Siete voi, signor Kardec? – chiese il dottore, trasalendo.

– Sì, signor Esteban.

– Ci ascoltavate forse?

– No, ho udito che ringraziavate Seghira e mi hanno sorpreso le vostre parole. Credo che sia Seghira, che vi debba ringraziare.

– Bah!... Poco ho fatto per lei.

– L’avete difesa, dottore.

– Assieme a voi.

– Io vi ringrazio di avermela serbata.

– Serbata?... Vi appartiene questa donna?

– Sì, signor Esteban. Sarà mia sposa e la farò felice.

– Ecco una cosa che ignoravo, signor Kardec. To'! Si pensa all’amore su questa zattera, fra gli orrori della fame... La scelta non è stata cattiva, tenente: prima Alvaez ed ora voi!...

– Tacete – rispose il bretone impallidendo. – Sempre quel nome sulle vostre labbra!... [p. 176 modifica]

– Mi pare che non vi faccia buon sangue – disse il dottore con leggera ironia. – La cosa è strana...

– Mi ricorda un rivale.

– Che è morto e che riposa a tre o quattrocento metri sotto le onde di quest’Oceano. Oh, non verrà a disputarvi la conquista, è vero, Seghira?

La giovane schiava non rispose.

– Tacete – ripetè il bretone, con voce spezzata. – Cosa ne sapete voi?

– Di che intendete parlare? – continuò l’implacabile dottore.

– M’intendo io.

– Forse delle costipazioni, che sotto il sole equatoriale non si prendono, anche se si è sprovvisti della giacca?...

– Badate, dottore!... – esclamò Kardec, con accento minaccioso. – Non siamo ancora a terra!

– E da qui alla costa qualcuno potrebbe cadere accidentalmente in mare e sparire nelle bocche dei pescicani, è vero, signor tenente?...

– O peggio, signor Esteban.

– Eppure la fame era piombata sulla zattera.

– Ah! Voi sapete questo! – esclamò il bretone, con voce strozzata dal furore. – Ringraziate Iddio di essere ancora vivo!...

– Tacete, Kardec – disse Seghira che fino allora si era mantenuta impassibile. – Quest’uomo è mio amico.

– È vero – fece il bretone, con ironia. – Gli amici bisogna rispettarli ora...

– Ma non più tardi – interruppe il dottore. – La vedremo, signor Kardec.

Il bretone fece un gesto di rabbia e s’allontanò.

– Siate prudente, dottore – disse Seghira. – Quell’uomo è capace di tutto.

– Non oserà nulla contro di me, Seghira. Egli sa che con una sola parola posso perderlo.

– Nessuno più si rammenta del capitano Alvaez – osservò l’africana, con tristezza. – Che importerebbe a questi uomini, se qualcuno dicesse che quel Kardec lo ha assassinato?

– Ma non gli perdonerebbero di aver rubati i viveri. Basterebbe che io additassi a loro quel barile, che tu vedi galleggiare a poppa della zattera e Kardec sarebbe perduto.

– Non lo farete dottore: quell’uomo è mio!

– E te lo abbandono.

Alla sera Vasco mantenne la promessa fatta. Aiutato da alcuni [p. 177 modifica]Il re negro era salito su una roccia che formava una specie di promontorio... (Pag. 182) [p. 179 modifica] volonterosi, accese un bel fuoco su di una botte ripiena di acqua salata e offerse all'equipaggio il cervello, il fegato ed il cuore del pescecane, passabilmente arrostiti. Non occorre dire se tutti facessero grande onore a quelle carni, le prime che mangiavano cucinate dopo il disastroso naufragio della Guadiana. Kardec, per favorirsi i marinai, fece sfondare il barilotto di tafià, che fino allora aveva gelosamente conservato, e ne dispensò parecchie tazze.

Quel pasto e quel po' di liquido spiritoso, rialzarono il coraggio e le speranze di tutti. Ormai si credevano già in vista delle coste dell'Africa e si abbandonavano ai più lieti progetti: la salvezza era ormai questione di pochi giorni, perdurando la brezza occidentale.

Anche durante la notte il vento si mantenne favorevole, spingendo la zattera verso le coste africane con una velocità media di quattro nodi all'ora.

Il terzo giorno dopo la cattura del pescecane, vi fu un falso allarme. Essendo stata scorta una forma oscura verso l'est e che aveva l'apparenza di una montagna, si sparse tosto la voce che la terra era in vista, ma più tardi si constatò che si trattava di una nuvola.

Pure quella disillusione non scoraggiò nessuno. Tutti sentivano la vicinanza della costa africana ed erano certi di non ingannarsi. L'acqua dell'Oceano era diventata meno azzurra ed aveva assunto una tinta verdastra; qua e là si erano vedute delle alghe quasi fresche, che parevano fossero state strappate di recente dai bassifondi e Vasco aveva veduta anche una foglia di paletuviere; la temperatura poi era diventata meno ardente e verso sera, quando la brezza girava all'est, portava fino alla zattera dei profumi di piante.

Niombo, più di tutti, sentiva la vicinanza della terra natìa. L'olfatto dell'uomo selvaggio raccoglieva meglio di tutti quelle esalazioni provenienti dai grandi boschi africani, a lui tanto noti.

Lo si vedeva sovente scrutare con profonda attenzione l'orizzonte, arrampicarsi in cima all'albero per abbracciare maggior spazio e dare segni d'agitazione.

Il quinto giorno ancora nulla apparve, pure l'Africa doveva essere vicinissima, poiché era stato scorto perfino un uccello costiero, volare verso il nord-est.

Il sesto giorno, dopo una notte oscurissima, all'alba si udì Vasco a gridare:

– Terra!... Terra!... Dio sia ringraziato!...