I drammi della schiavitù/21. Gli orrori della fame

21. Gli orrori della fame

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XXI.


Gli orrori della fame


Udendo quel grido che tradiva un profondo orrore e vedendo quel gesto, Kardec era scattato in piedi, pallido come un cadavere, il viso trasfigurato, le mani raggrinzite, gli occhi strambuzzati. Fece due passi indietro, barcollando come se fosse stato colpito a morte, emettendo una specie di rantolo, come un ruggito di rabbia e di dolore.

– Seghira! – mormerò egli.

– Kardec, – rispose la schiava frenando, con una energia suprema, il tremíto della voce. – Perchè ve ne andate?

– Ma tu... quel grido... quel ribrezzo... oh! tu non m’amerai mai!...

– E chi ve lo ha detto?... Forse che si può comandare all’anima, al sangue? Io avevo amato il capitano Alvaez ma ora... egli è morto e non tornerà più mai a farmi felice.

– Ma tu mi odierai!...

– Io?... Non sei un uomo forte tu?... Non sei coraggioso come il capitano Alvaez?... Perchè non potresti farmi felice tu, invece dell’altro che dorme il sonno eterno nei baratri dell’Atlantico?... Forse perchè l’hai ucciso? Anche nel mio paese i rivali si uccidono e le donne dell’Africa ardente amano il vincitore.

– Ma tu...

– Chi sono io?... Non ho nelle mie vene il sangue delle donne del mio paese? Sono selvaggia anch’io, ed anch’io amo l’uomo forte, il vincitore, che ha soppresso il rivale. Vieni, vieni, io ti amo perchè sei perverso, perchè sei crudele, perchè sei spietato, perchè sento che fra tutti coloro che montano questa zattera, tu solo potresti ricondurmi in patria e farmi felice!

C’era nella voce della schiava un accento strano, ma che affascinava come lo sguardo del serpente che attira l’uccellino. Con una brusca mossa aveva gettata all’indietro la lunga e nera capigliatura dai riflessi metallici, che la copriva come un manto di velluto ed aveva esposto il suo superbo volto, improntato d’una energia straordinaria, agli azzurrini raggi della luna. [p. 165 modifica]

Kardec, ammaliato, s’avanzava lentamente come se fosse attratto da una forza irresistibile, senza staccare gli sguardi dagli occhi della schiava che lo fissavano sempre, ma con quel lampo magnetico del domatore che soggioga la fiera sanguinaria.

Kardec, l’uomo feroce, che pareva non dovesse avere un cuore adatto a palpitare per nessun essere, le cadde dinanzi, quasi in ginocchio.

– T’amo, – le sussurrò.

– E t’amo anch’io, – gli disse Seghira coi denti stretti.

– Voglio che tu sii mia sposa!...

– Lo sarò.

– Quando?...

– Quando m’avrai ricondotta sulle sponde dell’Africa.

– Giuralo!...

– Lo giuro, – rispose la schiava con voce stridula.

– Oh!... Un bacio!... Un bacio!...

Seghira provò un fremito così forte che i suoi denti stridettero e per la seconda volta si gettò indietro.

– Un bacio, Seghira! – supplicò il bretone.

– Ebbene... prendilo!...

Gli prese il capo fra le mani stringendoglielo così fortemente come se volesse schiacciarglielo, chiuse gli occhi come se volesse nascondere la terribile fiamma che vi balenava dentro e su quel viso butterato dal vaiolo e pallido, depose un rapido bacio.

Kardec fece atto di stringersela al petto, ma ella lo respinse violentemente, dicendogli con voce semispenta:

– Vattene!... Vattene!...

– Seghira!...

– Taci!... Vattene!... Là... sulla costa d’Africa... sarò tua sposa!...

Si rovesciò da un lato, poi balzò in piedi con uno scatto di tigre ferita, additandogli la tenda dell’equipaggio.

Kardec stette indeciso fra l’ubbidire o il gettarsi su di lei, poi si mise a indietreggiare a lenti passi, mentre la giovane schiava, ritta sull’orlo della zattera, coi capelli svolazzanti ai soffi della brezza marina, in piena luce lunare, colle braccia convulsamente strette sul seno, le labbra contratte, la fronte increspata burrascosamente, lo fissava sempre co’ suoi occhi, che scintillavano come due carboni accesi.

Quando sparve sotto la tenda, Seghira emise un grido rauco, che tradiva il furore selvaggio fino allora frenato, e fece un gesto di suprema minaccia. [p. 166 modifica]

– Quell’uomo è mio!... – esclamò. – Le coste dell’Africa ti saranno fatali ed i boschi del mio paese ti serviranno di tomba!... La pantera divorerà il leone!

Si diresse verso la cassa sfondata, dietro alla quale vegliava il re negro.

– Niombo, – disse.

Il gigante alzò il capo.

– Hai udito? – gli chiese ella.

– Tutto, – rispose Niombo, con un sorriso crudele.

– Lo ucciderai?

– Sì, se toccheremo le coste dell’Africa, – rispose egli con voce cupa. – Li sterminerò tutti, tutti!...

– Non tutti.

– Conosco gli amici e di quelli non parlo.

– Fila sempre verso l’est la zattera?

– Dritta alla baia. Vasco la guida.

– Siamo lontani ancora?

– Sì, ma il vento ci porta.

– Riuscirai?

– Riuscirò e sarò re ancora.

– Ed io sarò tua, – rispose ella con un sospiro.

– Grazie, figlia del sole, ti farò felice!

Seghira chinò il capo sul seno e stette alcuni istanti immobile, poi si allontanò a lenti passi e si ritirò sotto la piccola tenda.

Colà, non senza sorpresa, trovò due scatole di conserve alimentari e parecchi biscotti. Un sorriso sdegnoso le sfiorò le labbra.

– Kardec è diventato anche ladro, – mormorò.

Respinse col piede quell’offerta e si sdraiò sulla vela che le serviva da letto, nascondendo il capo fra le mani e ripetendo il nome di Alvaez, dell’infelice capitano che dormiva sotto le onde di quell’immenso Oceano, tra i fianchi squarciati dell’affondata Guadiana.

Il giorno seguente, la situazione dell’equipaggio non era punto cambiata, anzi stava per diventare orribile. La fame, questo nemico spietato dei naufraghi cominciava ad attenagliare gli stomachi di quei disgraziati, che da venti e più ore nulla di solido avevano inghiottito.

I loro volti avevano assunto un’espressione bestiale ed i loro occhi che brillavano per la febbre, si fissavano con ardente bramosia sulla piccola tenda di Seghira. L’antropofagia si manifestava in tutto il suo orrore in quegli uomini, che forse tutta la notte avevano sognato di gustare quelle delicate carni. [p. 167 modifica]

Si udivano alcuni ad imprecare contro Kardec, che rendevano responsabile delle loro torture, altri a manifestare propositi da far fremere, parlando di bottoni neri, di estrazioni a sorte, di scorpacciate di carne umana. I più deboli, accasciati sul ponte della zattera, rantolavano e parevano in preda ad accessi di delirio. Scambiavano sovente un pezzo di tavola per un pane od una gomena per una salsiccia od un prosciutto e li addentavano rabbiosamente, imprecando.

Kardec, che cominciava a diventare irrequieto, temendo da parte di quegli affamati qualche terribile eccesso, li teneva tutti d’occhio. Seduto a breve distanza dalla tenda di Seghira, colle pistole e il coltello alla cintura, circondato dai suoi cinque compatrioti, che parevano non avessero ancora sofferto le torture della fame, vegliava attentamente, deciso di ammazzare il primo che avesse osato avvicinarsi.

Anche il dottore, Vasco e Niombo si tenevano in guardia, pronti a correre in aiuto del bretone non per difendere lui, ma la giovane meticcia.

Intanto la zattera filava con discreta velocità verso l’est, spinta dalla fresca brezza, che si manteneva stabile, quantunque il sole versasse su quell’Oceano raggi ardenti. Se quella velocità durava alcuni giorni ancora, forse sarebbero stati tutti salvi, poichè l’Africa non doveva essere molto lontana.

Vasco, che aveva sempre mantenuta quella direzione e che teneva conto delle miglia approssimativamente percorse, calcolava di stare sole centocinquanta o duecento leghe, cioè sei o sette giorni di navigazione. Ma avrebbero durato fino allora, senza un biscotto od un pezzo di carne?

Ecco quello che si chiedevano con ispavento il portoghese ed il dottore, i quali si sentivano già sfiniti, quantunque avessero divorato un biscotto, regalato a loro da Kardec all’insaputa di tutti.

A mezzodì fra l’equipaggio, che si era ritirato sotto la grande tenda per ripararsi dagli ardenti raggi di sole, si manifestò una viva agitazione. Si udiva parlare con animazione, discutere, altercare, minacciare.

Kardec, che già sospettava qualche cosa, si era alzato, tenendo le mani sui calci delle pistole, mentre Vasco aveva montato due fucili porgendone uno al dottore.

– Cosa vogliono fare? – chiese il bretone, girando sguardi inquieti sulla tenda dell’equipaggio.

– Tramano qualche sinistro progetto – disse Vasco. – Ho udito parlare di Seghira e di Niombo. [p. 168 modifica]

– Ah!... Ed essi credono di immolarla alla loro fame?

– Lo temo, signor Kardec.

– Bisogna che prima mi uccidano.

In quell’istante si videro i marinai lasciare la tenda e riversarsi sul ponte della zattera. Parevano tutti in preda ad una viva esaltazione ed erano armati dei loro coltelli e qualcuno anche di scure.

Un uomo, un inglese alto, allampanato, barbuto, si fece innanzi.

– Comandante – disse.

– Cosa vuoi? – gli chiese Kardec.

– Io ed i miei compagni abbiamo fame.

– Ed anch’io.

– Sulla zattera vi è uno di troppo.

– Sei tu quello?...

– No, non ancora.

– E vuoi?...

– Che qualcuno muoia. Noi abbiamo fame e qui la carne abbonda – disse l’inglese con feroce accento.

– Comincia a offrire la tua ai tuoi compagni.

– Eh!?... Scherzate, signor Kardec?... Vi sono delle pelli nere, prima di quelle bianche!

– Va’ a prenderti Niombo, se ti senti tanto coraggioso d’affrontarlo.

– Più tardi verrà il suo turno, per ora ci basta la schiava.

Kardec impallidì orribilmente ed emise una specie di ruggito.

– Vattene, miserabile, o t’uccido! – gridò, respingendolo violentemente.

– Eh per mille folgori! – urlò l’inglese. – Non mi lascio assassinare come Ovando io!...

– A morte la schiava! – vociarono parecchi marinai, facendosi innanzi. – Abbiamo fame!

– Indietro! Fermatevi! – gridò il dottore, slanciandosi in mezzo a loro assieme a Vasco. – Volete commettere un altro assassinio?... Non siete più marinai della Guadiana? Siete forse diventati più feroci degli antropofaghi della Nuova Zelanda?... Vergognatevi!

– Cosa vuole quel salassatore di malati? – chiese un marinaio, ridendo atrocemente. – Verrà più tardi la tua volta, quando ti faremo estrarre il bottone nero.

– Gettalo agli squali, che per noi è troppo magro – disse un altro. – Andrà a guarire i pesci. [p. 169 modifica]

– La schiava!... La schiava!... – urlarono tutti.

– A me, amici! – tuonò Kardec, impugnando le pistole.

I cinque francesi, il dottore, Vasco e Niombo si strinsero attorno a lui, appoggiandosi contro la tenda, sulla cui soglia stava ritta Seghira, guardando intrepidamente i nemici, tenendo in pugno un fucile, pronta a servirsene.

Gli affamati, vedendo che quel gruppo di uomini si disponevano a sostenere l’urto, esitarono. Quei tre fucili e quelle due pistole, che erano pronte a tuonare, gli spaventavano e quantunque poco si preoccupassero per morire, pure dinanzi a quella minaccia si raffreddarono.

– Avanti, se l’osate – disse Kardec.

–Per mille fulmini! – urlò l’inglese, allampanato. – Ci credete un branco di conigli? Orsù, camerati, morte al comandante!...

– Sì, a morte! – vociferarono i marinai.

Si scagliarono innanzi come una torma di lupi affamati incoraggiandosi con urla feroci ed agitando minacciosamente i coltelli e le scuri. Kardec stava per comandare il fuoco, quando Niombo, con un balzo da leone, piombò addosso ai ribelli.

L’atletico negro, la cui statura sorpassava di un piede quella di tutti, pareva una fiera sbucata dalle foreste tenebrose dell’Africa. Ruggiva come un leone, aveva gli occhi in fiamme, il viso contratto e con quelle mani enormi, che avrebbero spezzata una sbarra di ferro, stringeva una trave, un’aspa d’argano.

– Indietro, o v’uccido tutti! – tuonò.

L’inglese, che precedeva i compagni gli si fece sotto col coltello in pugno, ma la trave piombò con forza irresistibile. Il miserabile, fracassato, quasi spezzato a metà da quel terribile colpo, fu scaraventato in mare come se fosse un semplice bastoncino.

Ebbe appena il tempo di emettere un grido, che la banda di pescicani piombò su di lui, facendolo a brani.

– Sotto a chi tocca! – urlò il re africano.

L’equipaggio spaventato, sbalordito da quell’atto di vigore sovrumano, si era arrestato. Nessuno si sentiva l’animo di affrontare quel gigante, che con un sol colpo di trave poteva spazzarli più di mezzi in mare.

– Venite a prendervela, Seghira – disse Kardec.

Nessuno si mosse, anzi alcuni gettarono i coltelli dicendo:

– Si muoia adunque.

– No – gridarono gli altri. – La sorte!... La sorte!... Abbiamo fame. [p. 170 modifica]

– Mangiatevi fra voi – disse Kardec, alzando le spalle.

– No – urlò un marinaio. – Siamo tutti uguali qui!...

– Cosa vuoi dire? – chiese il bretone.

– Che tutti devono correre il medesimo pericolo.

– Ma noi non vogliamo la vostra carne.

– Ah no! – gridarono alcuni. – Sta bene, ma guai chi di voi la toccherà.

– Sapremo difenderla – dissero altri.

– Il bottone nero! – gridarono tutti con esaltazione.

– Fermatevi, sciagurati! – tuonò il dottore. – Volete diventare antropofaghi?

– Taci, corvo del malaugurio – disse uno spagnolo.

– La sorte!... La sorte!... – esclamarono tutti.

Un marinaio aprì una delle casse contenenti le vesti e strappò una manata di bottoni bianchi ed uno nero, simile per la forma e pel peso agli altri.

– Siamo? – chiese.

– Tredici – rispose un americano, dopo di aver contato i compagni.

– Numero fatale – disse lo spagnuolo, rabbrividendo.

– Gettatemi un berretto.

– Meglio una tasca – disse un peruviano. – Offro la mia!...

– Accettato – risposero gli altri.

Il peruviano prese i bottoni, li contò uno ad uno mostrandoli ai compagni che si erano disposti in circolo attorno a lui, e se li mise in tasca.

– Mostra la mano! – gridarono tutti.

– È vuota – rispose il peruviano, alzandola.

– Chi affronta la morte pel primo? – chiesero.

– Procediamo per lettera alfabetica – disse un vecchio marinaio. – Cabral, a te!

Il portoghese che portava quel nome, si fece innanzi. Era livido, anzi giallastro, ed un tremito generale scuoteva le sue membra.

Un silenzio di morte regnava sulla zattera. Kardec, i cinque francesi, il dottore, Vasco, Niombo e perfino Seghira, non fiatavano più e si tenevano dinanzi alla tenda, colle armi in pugno, in preda ad un profondo orrore. Gli altri, che stavano per sfidare la morte, tacevano, tenendo gli sguardi fissi sul portoghese, che esitava, ed i coltelli in mano, pronti ad assassinarlo se estraeva il bottone fatale.

– Pesca – disse il peruviano. [p. 171 modifica]

Il disgraziato chiuse gli occhi per non vedere e rabbrividendo mise la destra nella tasca. Un freddo sudore inondavagli la fronte e pareva che fosse lì lì per cadere.

– Spicciati – intimò il peruviano.

Cabral levò la mano raggrinzata e l’aprì: un urlo di orrore gli uscì dalle labbra tremanti, a cui fece eco un urlo di trionfo.

– Il botton nero!

I marinai si gettarono sul disgraziato, che era stramazzato al suolo come fulminato. Già i coltelli luccicavano in aria e stavano per colpirlo, quando la zattera provò un urto così violento, che tutti caddero un sull’altro.

Quasi nel medesimo istante si udì Vasco a gridare:

– Aiuto, camerati!... Abbiamo preso un pescecane!...