I Nibelunghi (1889)/Avventura Ottava
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Avventura Ottava
In che modo Sifrido si recò presso i Nibelunghi
Di là ne andava al porto in su l’arena,
Dove rinvenne il navicel, ravvolto
Nella sua cappa eroe Sifrido. Il figlio
Di Sigemundo vi scendea non visto
5E ratto indi partìa come se vento
Dietro soffiasse. Niun vedea chi fosse
Il nocchier di quel legno, e il navicello
Agil scorrea per vigor de la mano
Sol di Sifrido, chè vigor possente
10Era ben quello. Or, chi vedea, pensava
Che vento impetüoso il navicello
Via sospingesse. Oh no! di Sigelinde
Leggiadra il sospingea l’inclita prole!
Nel tempo che restò di tal giornata,
15E nella notte che seguì, divenne
A regïon Sifrido inclita e forte,
Ampia di mille miglia e più d’assai,
(Abitatori i Nibelunghi), dove
Ei possedea tesori ingenti. Solo
20Venne quel forte ad un’isola, ed ampia
Era l’isola assai. Rapido il forte
E nobil cavalier legò alla sponda
Il navicello e venne al monte, dove
Stava un castello, e chiese ospizio, come
25Fanno le genti dal vïaggio stanche.
Venne adunque alle porte, ed eran chiuse,
Difendenti l’onor, sì come fanno
Oggi ancora le genti. Or, l’uomo ignoto
Incominciava di sonanti colpi
30Le imposte a tempestar, ma ben difese
Eran le imposte, e l’inclito guerriero
S’avvedea che da sezzo era un gigante
Che guardava il castello, e sempre l’armi
Teneasi a lato, qual dicea: Chi dunque
35È costui che sì forte i colpi mena
Sovra le imposte? — Là dinanzi il prode
Sifrido, allor, mutò la voce e disse:
Un cavalier son io. Deh! voi m’aprite
Le porte, ch’io potrei crucciarvi assai
40Oggi qui innanzi, e crucciar chi si giace
Soffice e molle ed ha sue stanze acconce.
Ebbe disdegno il guardian de le porte,
Come Sifrido favellò. Ma intanto
L’armi vestite avea, l’elmo sul capo
45Erasi posto ardimentoso e fero
Il gigante, e quest’uom gagliardo e forte
Rapidamente tratto avea lo scudo
Spalancando le porte. Oh! com’ei venne
Impetüoso allor contro a Sifrido!
50Chi dal sonno destar, gridava il fero,
Tanti gagliardi osò? — Furono allora
Molti rapidi colpi di sua mano,
E l’inclito stranier studio ponea
In ripararli. Ma d’un colpo solo
55una sbarra di ferro a brani attorno
Fe’ de le porte l’orrido custode
I gheroni cader, sì che all’eroe
Grave distretta era cotesta; e in parte
Incominciava a paventar la morte
60Sifrido inver, chè forti i colpi suoi
Di quelle porte il guardïan menava;
Eppure, ei n’era ancor nel suo desire
Satisfatto, chè all’orrido custode
Sifrido era signor. Pugnaron elli
65Di cotal foggia che il castello intorno
Tutto ne risuonò. De’ Nibelunghi
Tutta echeggiar s’udìa la sala, e il prode
Di tanto superò quel de le porte
Ardito guardïan, che di catene
70Il fe’ carco. Davver! che la novella
Per la terra n’andò dei Nibelunghi!
Lungi, per la montagna, udì frattanto
L’orrida pugna un selvatico nano,
Alberico animoso. Ei vestì l’armi
75Velocemente e là correndo scese
Ove rinvenne l’ospite, l’illustre,
Inclito assai, che avea di ceppi carco
Il gigante gagliardo. Era Alberico
Fiero e forte davver. L’elmo ei portava
80E la corazza alla persona e in pugno
Una sua sferza grave e di molt’oro
Lucente. Ei corse là, ratto e veloce,
Dove in Sifrido s’incontrò. Pendeano
Da quella sferza sette nodi gravi,
85E con essi Alberico all’uom valente
Colpì sì forte innanzi da la mano
L’ampio pavese, che in frammenti attorno
Il fe’ cader. Già l’ospite gagliardo
Viene in rancura per la dolce vita.
90Via gittò dalla man l’infranto scudo,
Il brando, lungo assai, nella guaina
Rimandò ancor, chè a morte ei non volea
Trarre il suo servo. Gli atti suoi contenne,
Nobil costume suo come allor volle.
95Con le forti sue mani egli avventossi
Ad Alberico. Per la barba ei prese
L’uom vecchio assai e trasselo di foggia
Ruvida sì, che quei le voci sue
Alte d’assai levò. Quel trar feroce
100Del giovinetto eroe fe’ ad Alberico
Rancura grave; e il nano ardimentoso
Così gridava intanto: Oh! mi lasciate,
Oh! mi lasciate illeso! E s’io potessi
Farmi d’altrui senza un altro guerriero
105Al qual già feci sacramento io stesso
D’essergli schiavo, prima ch’io morissi
Vostro servo sarei. — Così dicea
L’astuto, e quegli incatenava intanto
E Alberico e il gigante, e grave doglia
110Lor fea la forza di Sifrido. Il nano
Fe’ tal principio alle domande sue:
Qual nome avete voi? — Detto son io
Sifrido, ei disse, e credo ancor che noto
Io ben vi sia. — Disse Alberico, il nano:
115Buona per me questa novella, ed io
Esperïenza fei per l’opre vostre
Di cavalier ch’esser dobbiate voi
Di buon diritto in questa terra il sire.
Ciò che bramate, io vi farò, illeso
120Pur che voi mi lasciate. — Ora v’è d’uopo,
Disse prence Sifrido, irne veloce
E qui addurmi gli eroi, quali abbiam noi
Migliori in guerra, mille Nibelunghi.
Ei dènno qui vedermi. — E niuno intese
125Allor da lui perchè gli eroi bramasse.
Così disciolse ad Alberico i ceppi
E li sciolse al gigante, ed Alberico
Rapido corse ove rinvenne i prodi.
Ei, con gran cura, i Nibelunghi eroi
130Destando, disse: Eroi, sorgete! Voi
Tutti a Sifrido andar di qui dovete.
Balzaron dai giacigli e furon presti
Rapidamente; mille si vestiro
Agili cavalieri e sceser tosto
135Là ’ve Sifrido ei rinvenian. Cortesi
Furon saluti, anche con opre in parte,1
E furo accese molte lampe e indetta
Fu la bevanda attorno, e perchè ratto
Elli eran giunti, a tutti il valoroso
140Rendea sue grazie. Ora v’è d’uopo, ei disse,
Di qui partirvi sovra l’onde. — Accinti
E pronti ei ritrovò gli eroi valenti.
Ben tremila gagliardi eransi attorno
Là in brev’ora adunati, e furon presi
145Mille soltanto de’ migliori. A questi
Fûr portati lor elmi e loro arnesi,
Da che alla terra di Brünhilde insieme
Andarne elli dovean. Disse quel prode:
O buoni cavalieri, ecco vogl’io
150Dirvi sol questo, perchè voi pompose
Vesti d’assai rechiate a quella corte,
Da che d’uopo è che vegganci ben molte
Amorose fanciulle. Or, la persona
Ornar v’è d’uopo di assai vesti buone.
155Ad un mattino, al primo albor, levârsi
D’un moto. Sì davver! che agili e pronti
I compagni rinvenne il pro’ Sifrido!
Buoni destrieri e vestimenta ricche
Elli portâr con sè; così ne andavano,
160Di cavalieri in nobile costume,
Di Brünhilde alla terra. Agli sporgenti
Merli del borgo si vedean fanciulle
Amorose guardar, ma la regina,
Qualcun sa forse, dimandò, chi mai
165Son cotesti ch’io veggo là sul mare
Così da lungi navigar? Egli hanno
Ampie le vele, che più assai d’intatta
Neve son bianche. — Così disse allora
Del Reno il prence: Ei sono i prodi miei
170Ch’io nel vïaggio prossimi lasciai,
A’ quali or feci invito; ed elli, o donna,
Son giunti intanto. — Agli ospiti preclari
Grandi fecersi allor segni d’onore.
Videsi ancor con sue vesti pompose
175Sifrido starsi nella nave e seco
Starsi altri prodi, e la regina disse:
Signore il re, dir mi dovete voi
Se accoglier deggia gli ospiti venuti
O il saluto niegar. — Disse: A incontrarli
180Fuor del palagio sì dovete voi
Muovere, o donna. Intendan essi ancora
Che volentier li vediam noi. — Ben fece
Come il re volle la regina, e solo
Con diverso saluto ella fra gli altri
185Sifrido distinguea.2 Lor si apprestaro
Acconci ostelli e di lor vesti ancora
Altri cura si prese; e tanti in quella
Terra allor discendean ospiti in folla,
Che insiem da tutte parti in moto alterno
190Urtavansi fra lor. Già di tornarsi
Ai loro alberghi di Borgogna in core
Avean desire i più gagliardi. Allora
La regina parlò: D’animo grato
Esser vo’ per colui che attorno a’ miei
195Ospiti e a quelli del mio re pur anco
Sappia l’argento mio spartir con l’oro
Che in gran copia posseggo. — E le rispose
Dancwarto allor, di re Gislhero il fido:
Nobil regina assai, fate ch’io m’abbia
200Cura alle chiavi de’ tesori, ed io
Di spartir sì m’affido. E se, dicea
Il nobil cavalier, vituperosa
Cosa ne vien, ch’ella sia mia, vogliate.
E perchè liberal ne’ doni suoi
205Egli era, ei ben di ciò fe’ nobil mostra.
Poi che a l’ufficio delle regie chiavi
Il fratel d’Hàgen così attese, molti
Incliti doni attorno diè la mano
Del nobile guerrier. Chi disïava
210Un marco, ebbe da lui dono in tal copia
Che vita allegra ben potean menarne
I poverelli tutti. Ad infiniti
Ei donò quasi mille libbre, e molti
Andâr per l’aula con sì ricche vesti
215Che sì nobili panni unqua in lor vita
Non recarno davver. Seppe cotesto
La donna, e vero duol le fu cotesto.
Signore il re, di ciò ben io vorrei,
La regina parlò, mancanza avermi,
220Che niuna di mie vesti a me reliquia
Il vostro servo lasciar voglia. Tutto
Egli disperde l’oro mio. Per sempre
D’alma riconoscente io per colui
Sarò, che questo cessi. Ei sì copiosi
225I doni spande, che pensar mi sembra,
Questo guerrier, ch’io m’abbia fatto invito
Alla mia morte.3 Or io più lungo tempo
L’oro mio vo’ curar; penso che ancora
Spender poss’io ciò che lasciommi il padre.
230Davver che la regina unqua non ebbe
Più liberale camerlingo! — Disse
Hàgene di Tronèga: A voi sia detto,
Donna regal, che tant’oro sul Reno
E tante vesti da donarsi attorno
235Ha il nostro re, che bisogno non tocca
A noi di qui recarci alcuna veste
Che di Brünhilde sia. — No! la regina
Così rispose; pel mio amor lasciate
Ch’io venti scrigni facciami di drappi
240Serici e d’or ricolmi, onde poi doni
Questa mia man ne dia, ratto che giunti
Saremo noi di Gunthero alla terra!
Altri frattanto le colmò gli scrigni
Di prezïose gemme, e seco andarne
245Dovean gli stessi camerlinghi suoi,
Ch’ella fidanza non avea nell’uomo
Di Giselhero. A rider di cotesto
Gunthero ed Hàgen fer principio allora.
Ma la regina disse: A chi frattanto
250Lascierò la mia terra? E la mia mano
E la vostra pur anco ordine in pria
In ciò porranno. — Or fate voi, rispose
Il nobil sire, che qui venga alcuno
Che a tal fin più vi piaccia, e noi faremlo
255Vostro vicario qui. — La donna allora
Vide al suo fianco un de’ congiunti suoi
Più prossimi (fratello era alla madre
Costui della regina), e la fanciulla
Disse al congiunto suo: Vogliate voi
260Che affidati vi sian questi castelli
E la mia terra ancor, fin che comando
Abbia quaggiù di re Gunthèr la mano.
Da’ suoi consorti venti volte cento
Uomini scelse, quali fra i Burgundi
265Seco andarne dovean. Mille guerrieri
De’ Nibelunghi de la terra aggiunti
Furon pur anco; ed al vïaggio tutti
S’apprestâr, chè fûr visti in su le arene
Cavalcando partir. Menaron seco
270Ottanta donne e sei, cento pur anco
Fanciulle, di cui molto era avvenente
La persona leggiadra. Ecco, indugiârsi
Non molto tempo ancor, ch’elli partirne
Volean; ma quelli che restâr, deh! quanto
275Feron principio al lagrimar! Lasciava
La patria terra l’inclita fanciulla
In nobile costume, e tutti intanto
Gli amici suoi più prossimi baciava,
Quanti a sè accanto ella trovò. Sen vennero
280Con onesti commiati al mar su l’onde,
Ma la fanciulla non tornò più mai
De’ suoi padri alla terra! — Ecco, s’udivano
Lungo l’andar vari concenti; egli ebbero
D’ogni sorta sollazzi. Al lor vïaggio
285Vento di mar si aggiunse amico, ed elli
Dalla sponda partîr con molta gioia.
Ma la regina il suo signor non volle
Nel suo vïaggio compiacer d’amore,
Ch’ella volea sì gran contento in fino
290A l’ostello serbar, di Worms in fino
Al castel, di sue nozze in fino al tempo,
Quand’elli vi giugnean ricchi di molta
Gioia e letizia co’ lor prodi in guerra.
Note
- ↑ Cioè anche con atti di ossequio, inginocchiandosi.
- ↑ Lo salutò diversamente, perchè Sifrido si era detto servo di Gunthero, ovvero perchè essa l’aveva conosciuto prima. Intorno a ciò, vedi l’Introduzione premessa da noi al Poema.
- ↑ Cioè come se io volessi morire e perciò donassi tutto ciò che posseggo.