I Marmi/Nota
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NOTA
I.
Quanto rare siano in genere le edizioni principi e tutte quasi, potremmo dire, le cinquecentesche, né solo cinquecentesche, del Doni sanno bene i bibliofili e gli studiosi di quel secolo. Eppure le piú opere ebbero, lui vivo e poco dopo lui morto, piú ristampe, tale ebbe favore quella sua ghiribizzosa facile vivezza tra’ signori e letterati e piú assai tra il popolo; sebbene i tempi alla libertá dei pensieri e dei costumi sopravvenuti ostili e la proibizione dalla chiesa decretata a’ suoi libri dovettero persuadere non pochi a disfarsene. Ma se li leggevano allora per ispasso ameno e giocondo, e se poi li ricercarono gli eruditi per loro compiacenze di erudizione, nell’etá avanti la nostra e nella nostra insieme, per altre piú ragioni e maggiori sono piú che mai parsi degni di studio. In vero e quella sua vita inquieta parve curiosa, e curioso il suo pensiero e non di rado in disparate materie precorritore di secoli, e la sua arte, fra tanta altra grande arte, tuttavia osservabile, e la sua lingua, fra l’infinita dovizia del suo tempo, doviziosissima e alle volte singolarissima, sí che bene è da stupire gli accademici della Crusca, chi sa perché crucciati con lui, non se ne siano voluti avvedere. Onde non desterá le meraviglie che da mezzo il secolo scorso rinverda e fiorisca sua fortuna. Qui intanto, in questi due primi volumi, a tratteggiarne, per cosí dire, i vari svolgimenti, dovrei, come nel principio, descrivere l’antiche e le moderne edizioni delle opere sue proprie e quelle altresí degli altrui studi recenti, non solo affinché ne sia tosto ambientato chi si accinga a ristudiare i begli umori di codesto «eteroclito», sí anche affinché il dotto e l’erudito abbiano in pronto quanto loro possa occorrere o piacere. Ne metterei insieme un volumetto e, a pur ragionarne un poco, un volume, e rifarei in parte ciò che giá è stato fatto e bene, cosa per un verso qui impossibile e per l’altro qui e altrove superflua. Mi converrá, dunque, restringermi a quello che in realtá importa e, a dirla con una immagine, consegnar le chiavi maestre degli scrigni maggiori ove, alla bisogna, si troveranno poi entro riposte le altre chiavette e chiavettine secondarie tutte.
La bibliografia generale delle opere del Doni, stampate e manoscritte, e delle altrui ch’egli die’ fuori per le stampe sue proprie, raccolse, ordinò e illustrò da par suo in catalogo il Bongi prima per la ghiotta scelta delle Novelle da lui stesso pubblicata in Lucca il 1852, poi con nuove e felici cure crebbe il ’63 in appendice al secondo volume de I Marmi in Firenze per il Barbèra, e seguitò il ’90 e il ’95 negli Annali dei Gioliti . Indi altre nuove e assai diligenti aggiunte spigolò e ammanellò il 1900 l’Arlia, una correzione al Bongi avverti il ’904 il Petraglione, e il ’908 il Medin die’ su un autografo piú preciso ragguaglio:
Novelle di messer Anton Francesco Doni colle notizie sulla vita dell’autore raccolte da Salvator Bongi, Lucca, A. Fontana, 1862, pagine cxii-180, in 8°.
Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato stampatore in Venezia descritti ed illustrati da Salvatore Bongi, Roma, 1890, I, 258-267, 359-360; 1895, II, 38-43, 47-48, in 8°.
Costantino Arlía, Una ristampa della «Libraria» del Doni preparata ma non edita, nella Rivista bibliografica italiana, agosto 1900, 250-54. E Giunte al catalogo delle Opere di A. F. Doni nella Rivista bibliografica italiana, ottobre 1900, 309-12.
Giuseppe Petraglione, nel Giornale storico della letteratura italiana, 1904, XLIV, 443-49, dando notizia de’ libri di Ad. Van Bever et E. Sansot-Orland e di S. Stevanin, di cui piú oltre.
Antonio Medin, Il codice autografo del poemetto di Anton Francesco Doni sulla guerra di Cipro, in Atti e memorie della R. Accademia di Padova, 1908, XXV, ed estratto di pagine 9, in 8°.
La biografia, ancor oggi in quasi tutti i punti sicura, con tanta fu tratta e condotta industre perizia, ci ha stesa e meglio poi ristesa pur egli il Bongi, innanzi a quella scelta di Novelle e al volume primo di quei Marmi, non omessa in fine al secondo una «correzione ed aggiunta». Qualche particolare poi, qualche momento allargò e chiari il Bongi stesso in quegli Annali, e qualcuno degli studiosi migliori, ricercando per una o per altra ragione tra la sua vita e le sue opere o tra la vita e le opere altrui ch’ebbero o potrebbero aver avuto con lui quale si fosse attinenza.
Tra gli studiosi sarei qui tentato di annoverare primo, e il Doni, tenendosene molto, dietro mi dá di gomito a decidermi, nientemeno il Gozzi, che nella Difesa di Dante gli fece sí gran parte e sí bello onore; ma al cómpito nostro piuttosto giova qui rammentare quelli de’ nostri tempi che, postisi a indagare di lui, si sono comunque assunto di esserne, come modernamente intendiamo, se non proprio come dovremmo intendere, i critici. Intorno all’invenzione e all’appartenenza della novella di Belfagor arcidiavolo infervorò, non aperse, la controversia il Calligaris, onde molto poi s’investigò e con molta sagacia si discusse e fin si dovè intrattenere per il Machiavelli il Villari. Piú complesse questioni, della vita e del pensiero, specie su gli ordini sociali, e però piú importanti, toccò il Bertana, paziente, succinto, scaltro, acuto. Dopo il quale smorto e incerto ne viene il Dobelli sul «chiosatore di Dante» che in realtá non fu chiosatore. Quindi piú intento volgiamo l’occhio al Boffito che ben ne incuriosisce dello scienziato occorso fuori, all’impazzata e da senno insieme, avanti la scienza vera; e lo volgeremo, qualche anno appresso, anche al Pellizzaro, benché dovremo poi dolerci d’esserne rimasti troppo delusi. All’incontro ove ci vogliamo addentrare per l’immaginario mondo delle novelle, seguiremo franchi il Petraglione, guida accorta e saggia, e come n’avremo profitto sempre cosí tal volta n’avremo anche diletto. Ne richiamerá l’Arlia su di un punto stuzzichevole della vita, la fuga di Venezia, ma non vi ritroveremo niente piú che non avessimo giá trovato in quegli Annali per il Bongi. Il tempo per altro non gitteremo sostando col Luzio intorno al museo Gioviano e ascoltando e ragionando notizie che o vi convengono o ne diramano e conseguono:
Giuseppe Calligaris, Anton Francesco Doni e la Novella di Belfagor, per le nozze Merkel-Francia, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, luglio 1889, in 4°; poi, un poco piú succinto ne L’Idea, giornale scientifico letterario di Cagliari, II, 9-10, 1895, 14 e 28 aprile; di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1889, XIV, 335. Onde intorno alla novella e all’autore: Licurgo Cappelletti, La questione sulla novella di Belfagor, nel Propugnatore, 1880, XIII, 87-103; e Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, III, 198-99, 2 a edizione, Milano, Hoepli, 1895- 97, in 16°.
Emilio Bertana, Un socialista del cinquecento, Appunti sulla vita e sugli scritti d’Anton Francesco Doni, Genova, R. Istituto Sordo-Muti, 1892, pagine 40, in 8°; estratto dal Giornale Ligustico, 1892, XIX, vii-viii.
Prof. Ausonio Dobelli, Anton Francesco Doni chiosatore di Dante, in Studi letterarii, Modena, Namias, 1897, pagine 157-172, in 16°.
P. Giuseppe Boffito, Il Doni precursore di Galileo, nell’Annuario storico meteorologico italiano, 1898, I, 23-28, edito a Torino dalla Tipografía San Giuseppe degli Artigianelli, 1899, in 16°.
Giovan Battista Pellizzaro, Una bizzarria scientífica del Doni, in Il Fanfulla della domenica, 18 gennaio 1903, XXV, 3: di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1903, XLI, 465.
Giuseppe Petraglione, Sulle novelle di Anton Francesco Doni, note da prima sparse in piú fascicoli della mensile Rassegna Pugliese, Trani-Bari, 1899 e 1900, in 4°; poi raccolte in volume, Trani, 1900; e arricchite nell’Appendice alle Novelle di Anton Francesco Doni, ricavate dalle antiche stampe, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1907, pagine xiii-216, in 8°, della Biblioteca storica della letteratura italiana diretta da Francesco Novali, vii: di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1908, LI, 375-78, e la Rassegna bibliografica della letteratura italiana, 1907, XV, 328. E dello stesso Petraglione, Anton Francesco Doni, Lettere scelte, Livorno, Giusti, 1902, pagine xiv-96, in 16°, della Raccolta di raritá storiche e letterarie diretta da G. L. Passerini, vii: di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1903, XLI, 172-73.
Costantino Arlía, Un punto della vita di Anton Francesco Doni, in Il Fanfulla della domenica, 12 luglio 1902, XXV, 28: di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1903, XLII, 466.
[Alessandro Luzio], Il Museo Gioviano descritto da Anton Francesco Doni in Archivio storico lombardo, 1901, XXVIII, 31.
Di tanta bibliografia, di sí accurata biografia, di tanti e sí vari studi noi ci aspetteremmo dovessero indi a poco aver fatto quale tesoro tale profitto il Bever col Sansot-Orland e lo Stevanin; ché, a prendere in mano i costoro libri, e’ sembrerebbero avere o nuove cose a dire o in nuovo modo prospettare, o i tempi o l’arte o l’uomo altramente intuito e rendere novamente. Tesoro nessuno, nessun profitto, di nuovo nulla nulla: inutile affatto il libretto francese, il libro italiano, sebbene composto nell’inamabile frammentarietá con amorevole solerzia e con buon ordine, poco utile:
Ad. Van Bever et E. Sansot-Orland, Anton Francesco Doni conteur fiorentin du XVIe siècle, Notice bibliografique avec un portrait, Paris, Bibliothèque internationale d’édition, 1903, pagine 28 in 8°: di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1904, XLIV, 443-44.
Silvio Stevanin, Ricerche ed appunti sulle opere di Anton Francesco Doni con appendice di spigolature autobiografiche, Firenze, Lastrucci, 1903, pagine 134, in 8°: di cui il Giornale storico della letteratura italiana, 1904, XLIV, 444-49.
Vien meno dopo il ’903 lo zelo degli studi sul Doni, nonostante il desiderio e l’augurio degli studiosi migliori che di quel singolarissimo ingegno siano in larga scelta raccolte quante pagine per i piú diversi rispetti possano interessare. In parte quel desiderio e quell’augurio, dieci anni dopo, cadendo il quarto centenario dalla nascita, sciolse il Palazzi e l’anno appresso l’Allodoli; e forse dovevo dire piuttosto in piccola parte, per avere l’Allodoli ridato La zucca e di essa i cicalamenti soltanto, le baie e le chiacchiere, e il Palazzi trascelti soli i passi ridanciani, né tutti con ottimo gusto, molti lasciati di quelli nell’ombra che piú a noi moderni l’han reso osservabile. Sebbene vuole onestá non si taccia che l’indole propria delle collezioni alle quali, servendo con intelligenza alle lettere, hanno collaborato, e piú assai per l’aperto gran popolo dei lettori, se per caso ancóra vi sia, che non per la chiusa esigua schiera dei letterati, male o punto consentiva loro indulgessero all’aspettazione dei letterati specialisti e degli altri d’altra sorta specialisti studiosi. Tuttavia poteva il Palazzi meno sgargiare nell’introduzione le tinte e meno dai molti riflettori convergere sul Doni protagonista emerito in ispettacolo di gala vividi fasci di luce, lasciando nel fondo vanire, piccolo, torbo, falso, insulso il cinquecento, il cinquecento da non pigliarsi, no, a gabbo né da confinarsi in un cantuccio con quattro giravolte e tre smorfie. Sicché l’articolo del Gargano nel Marzocco, al quale egli stesso diede l’occasione, come contenuto in piú discreta misura non è meraviglia torni a molti piú fido. E l’Allodoli poteva essere meno severo e quasi arcigno, nell’introduzione discorrendo in iscorcio dell’uomo, del pensatore, dell’artista: forse egli non indugiò abbastanza ad ascoltare e meditare le diverse voci di lui e per ciò a distinguerne le potenze diverse; forse per temperamento non era nato a percepirle, a comprendersele, a gustarsele, oppure non volle. Per ciò troppo severo né sarò io, come fu il registratore de La rassegna alla Nofri, che, leggendo i Marmi, s’invaghi dell’autore e si piacque d’informarsene: che se le informazioni che a sua volta recò ella poi a’ lettori non sono peregrine e i giudizi non preziosi, ella, secondo il luogo dove scriveva, non si propose che di fare un articolo divulgativo, sí come divulgativo era stato quello del Gargano, per una cerchia di lettori piú ampia e meno addottrinata, e come è bene sia non di rado or su questo e or su quello, quando non vogliamo sempre dissertare noi a noi soli:
Anton Francesco Doni, Scritti vari. A cura di Fernando Palazzi, Xilografie di Emilio Mantelli, Genova, Formiggini, 1913, pagine xxii-298, in 8°, dei Classici del ridere, 5.
La zucca di Anton Francesco Doni. A cura di E[ttore] Allodoli, Lanciano, Carabba, 1914, pagine vi-136, in 16°, degli Scrittori italiani e stranieri, 39.
G[iuseppe] S[averio] Gargano, Per il centenario d’un «eteroclito», in Il Marzocco, 24 agosto 1913, XVIII, 34.
L[uisa] Nofri, Leggendo i «Marmi» di Anton Francesco Doni, nella Rassegna nazionale, 1° settembre 1916, XXXVIII, seconda serie, V, pagine 33-48, in 8°: di cui La rassegna, 1916, XXIV, 383.
Tutta cosí potremmo dire di avere scorsa la bibliografia del Doni, nelle costoro fatiche ritrovandosi il resto; pure gioverá anche avvertire che altresí conviene aver l’occhio agli studiosi del Domenichi e dell’Aretino, avendo piú che troppo con essi avuto che fare il Doni. Chi sia solerte voglia all’uopo accompagnarsi al Salza che del Domenichi scopri e illustrò documenti nuovi e degli studi dell’etá nostra su l’Aretino fu giudice quanto mai accorto, come di tutto il cinquecento fu erudito quali pochissimi, e vedrá ove fidarsi. Poi non isdegni di scorrere il Giornale storico della letteratura italiana, perché di altri discorrendosi troverá che pur si tocca del Doni in modo da non doverne ignorare:
Abd-el-Kader Salza, Intorno a Lodovico Domenichi, nella Rassegna bibliografica della letteratura italiana, 1899, VII, 8; e nel Giornale storico della letteratura italiana, 1904, XLIII, 88-117, dando notizia di piú studi intorno all’Aretino.
Giornale storico della letteratura italiana, 1883, I, 272-74; 1884, IV, 363-64; 1885, V, 429; 1887, IX, 343; 1891, XVII, 155; 1898, XXXI, 169; 1899, XXXIII, 470; 1901, XXXVIII, 175, 335; 1902, XXXIX, 185; 1903, XLI, 465.
In fine, a meglio destreggiarsi fra i molti apprezzamenti e a quelli dei giúdici piú dotti affinare il proprio, mette conto di non aver pretermesso i moderni storici della nostra letteratura piú autorevoli, il Flamini, il Di Francia, il D’Ancona col Bacci, il Rossi, il Donadoni:
Francesco Flamini, Il Cinquecento, Milano, Francesco Vallardi, [1902], in 8°, della Storia letteraria d’Italia.
Letterio di Francia, I, Milano, Francesco Vailardi, 1924, in 8°, volume I, Dalle Origini al Bandello, capitolo VI, 6, 10-11, della Storia dei Generi Letterari Italiani.
Alessandro D’Ancona e Orazio Bacci, Manuale della letteratura italiana, volume III, nuova edizione interamente rifatta, quinta tiratura, Firenze, Barbèra, 1904, in 16°.
Vittorio Rossi, Storia della letteratura italiana per uso dei licei, volume II, Il Rinascimento, 8a edizione rinnovata, Milano, Francesco Vallardi, 1924, in 16°.
Eugenio Donadoni, Breve storia della letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Signorelli, 1923, in 16°.
II.
E ora veniamo, dunque, ai nostri Marmi. Passano per il capolavoro del Doni; né se siano io vorrò qui discutere né pur sentenziare; certo chi voglia addentrarsi nella conoscenza di quel secolo non potrá farne a meno, scoprendo essi al vivo gli aspetti della societá plebea, popolana, borghese, quali tutti insieme nessun’altra opera del tempo, a quella guisa che dell’aristocratica nessuna meglio del Cortegiano del Castiglione. Con tutto ciò sole tre volte e’ furono editi, il 1552 e il 1609 in Venezia, il 1863 in Firenze:
I Marmi del Doni academico Peregrino, al magnifico et eccellente signor Antonio da Feltro dedicati. Con privilegio. In Vinegia, per Francesco Marcolini, MDLII. In 4°. Divisi in quattro parti figurate, con propri frontespizi, proprie dedicatorie e proprie numerazioni, pagine 167, 119, 166, 93. In fondo al volume, dopo il registro, MDLIII.
I Marmi del Doni academico Peregrino, cioè Ragionamenti introdotti a farsi da varie condizioni d’uomini a luoghi di onesto piacere in Firenze. Ripieno di discorsi in varie scienze e discipline, motti arguti, istorie varie, proverbii antichi e moderni, sentenze morali, accidenti e novellette morali. Diviso in quattro libri. Opera giovevole a persone d’ogni stato, per il correggimento de’ costumi e per ogni professione d’uomini, dedicata al clarissimo signor Giovanni Vendramino. Con licenza de’ Superiori e privilegio. In Venezia, presso Giovali Battista Bertoni, M. DC. IX, libraro al Pellegrino. In 4°. Parti quattro figurate con propri frontespizi e proprie dedicatorie, e le tre prime con proprie numerazioni, sommata la quarta alla terza, 66, 40, 81, numerate nel solo retto. Per le figure servirono nella maggior parte gl’intagli marcoliniani giá logori. Precedono in carte non numerate la dedicatoria dello stampatore al Vendramin, e dello stesso un avvertimento ai lettori, la licenza per la stampa, la dedicatoria degli accademici Peregrini ad Antonio da Feltro e una tavola delle materie ripartita per libri.
I Marmi di Anton Francesco Doni ripubblicati per cura di Pietro Fanfani con la vita dell’autore scritta da Salvatore Bangi, Firenze, Barbèra, 1863. Due volumi di pagine lxiv-342, 312, in 8°, della Collezione gialla. In fine al volume II, 275-308, è il Catalogo delle Opere di A. F. Doni, compilato da Salvatore Bongi, e, appresso, di lui medesimo una Correzione ed aggiunta alla Vita del Doni. Della quale Vita furono altresí nel medesimo anno impressi estratti in 8° di pagine 92.
La prima edizione, non rara veramente benché non comune, usci di sotto le mani stesse e gli occhi del Doni, il quale nella bottega del Marcolini aveva fino il recapito; e però ha valore per noi come d’autografo. Un autografo vergato via alla spacciata, senz’agio spesso di pur rileggere: onde certi periodi scappati a rotta di collo, che ruzzolano giú in un mezzo garbuglio, e certi scorsi di penna, certe distrazioni, certe omissioni che ti fan rimanere líi di stucco a raccapezzartici. Guai non piccoli né trascurabili inezie; a cui se tu sommi gl’inevitabili sbagli che confuso dalla veloce scrittura e spinto dalla fretta di suo vi aggiunse il tipografo, e il capriccio dell’interpunzione che sembrava allora stranirsi dalla logica e gabellarla, tu vedrai che il bel volume, formato con chiara eleganza non è poi troppo spedito a lèggere. Ti avvedrai inoltre che la speditezza diminuisce quanto piú procedi alla fine; onde senza téma d’errore potrai teco stesso concludere che stanchezza e fretta crescevano insieme col crescere delle pagine. Ma ove per soccorso tu prenda l’altro volume stampato dal Bertoni, finirai dopo breve riscontro per metterlo da parte come dopo non breve esame ho fatto pur io. Sciagurata edizione, in vero: riproduce gli errori, cangia dove pure istava bene, omette, rappezza e non rappezza, ch’è un giocherello a volte da farti montar la mosca al naso. A non adombrare, nel 1609, la censura ecclesiastica, giú sforbiciate e mutamenti e travestimenti: soppresse le indicazioni delle piazze appellate da qualche santo; mutato «cappuccio» in «capino», «giurare» in «affermare», e simili goffaggini; spento come se bruciasse nel primo dialogo il punto incendiario accenno al Savonarola, bandito piú oltre intorno al Savonarola l’ironico chiacchiericcio, non, s’intende, per amor del Savonarola, sí per gelosia della religione; cacciato il dialogo del Romito e degli altri con lui, gettate nel letamaio quelle lubriche salacitá della Zinzera e del Verdelotto; e altri, in somma, trastulli e non trastulli, che, a chi se ne voglia tuttavia deliziare lascio piú che volentieri se li cerchi egli a suo senno. Povero Doni, cosí libero e or cosí unto e compunto! cosí aggiustato, castigato in cotta e stola, egli che, pur avendole di fuori, le rinnegava fuori e dentro indispettito! E povero senso comune cosí in malora, con que’ tagliacci senza assai volte una cucitura alla peggio! Proprio ciò che non voleva egli si è dovuto soffrire. Dunque, codesta edizione del 1609 riponiamola senz’altro lá di dove l’abbiamo tolta e scusiamola pure quale documento dei tempi, ma non presumiamo di trarne vantaggio. Come se ne avvantaggiasse il Fanfani, non so capire: dice di averla tenuta a raffronto di quell’altra, di quell’altra riprende la scorrettezza; è ovvio l’ha tenuta in antidoto al veleno di tanti scerpelloni e a paracadute da tanti spropositi. Il vero è che anche dove ambedue le edizioni leggono concordi e dove le forme stanno benissimo e il senso non ci patisce nemmeno un quarticello di brivido egli, il Fanfani, ci ha pur voluto mettere la penna a mutare, alterare, adulterare. Ciò nonostante né io né i lettori carpiranno al Fanfani il merito di avere in quella selva selvaggia, come gli piace di chiamarla, parecchio districato e fatto anche di molta luce; sí che vi si può giá correre senza ansimare a mille intoppi e senza dar del capo in mille ostacoli. Anzi io, e per me e per i lettori gli so grado di avermi reso assai piú agevole il compito, poiché non è mai piccolo giovamento a bene o a meglio regolarsi il sapere come altri pratico si sia prima condotto. Avrei per altro voluto sapergliene maggiore. Non sempre la pazienza l’ha assistito né aiutato la riflessione e la comprensione: non avrebbe alle volte, e piú di frequente nei luoghi filosofici, interpunto in maniera che ne risulta un senso o deforme o addirittura contrario a quello che doveva essere ed era fuor d’ogni dubbio; non avrebbe omesso parole qua e lá che pur dava il testo ed eran necessarie, né altre ad emendare qua e lá aggiunte non necessarie per nulla; non avrebbe, egli vocabolarista, ricercando e ritrovando ne’ gran vocabolari, certe forme variato, vocaboli e frasi con essi; né poi avrebbe sospettato o notato guasti nelle stampe certi periodi ch’erano guasti, se mai, nel pensiero, e guasti non erano, sí torbidi solamente e pantanosi per certe stagnanti giravolte proprie dell’uso popolano o plebeo o per quella sua fretta scombiccherata o comunque per manco d’espressione. Certi e, certi che, ripigliamene peculiarissimi dell’idioma vivo parlato, e allora piú di ora, doveva pur avvertire che non erano storpiature sfuggite all’autore o donategli dal compositore, come non erano certi altri e nella non rarissima accezione intensiva di ebbene.
In codesti e altri difetti cui sarebbe pedanteria andar piú particolarmente frugando, io mi sono studiato, con vigilanze, con fatiche, con pazienze quasi infinite, di non cadere; e se non altro, ben so questo, e mi sia lecito asserirlo, di avere per cotal minore cinquecentista speso e tempo e premure che appena si usa spendere per i classici maggiori. Dell’interpunzione una sollecitudine assidua: sobria ove piano il discorso, abbondevole ove il discorso s’infittisca d’incisi e di giri, sí che nelle corse diritte non appaiano arresti e nelle soste e nelle svolte sia, a ben guidarsi, il segnale. Che se, dopo tutto, qualche periodo vi ha in malo assetto e da non venirne a capo che a stento e all’ingrosso, il lettore voglia essermi equo e in vece che a me volgere al Doni il broncio o il cipiglio; il quale, del resto, gli risponderebbe d’un ghigno piantandolo lí in asso. Al testo, ovunque, il massimo riguardo; memore che i conciatori altrui il Doni li aveva sconciatori e meglio amava rimanessero due sbagli che non per la boria dell’emendare gliene appioppassero quattro. Gli sbagli, dove erano evidenti, sí, ho tolti, come senza dubbio avrebbe tolti egli stesso il Doni; non molti, assai meno che non riterrebbe chi s’affidasse al Fanfani; e i piú negli ultimi fogli. Dove non erano certi, mi son guardato dal pur ritoccare, quanto a noi moderni era mai possibile; tanto che le parole quasi tutte ne riappaiono nella medesima loro sembianza primiera. La copula resa dal Marcolini e con la sigla tironiana e con et io ho resa con e e, assai parcamente, con ed, regolandomi a orecchio su l’analogia di a e ad, la seconda usata dal Doni con assai parsimonia. Le consonanti doppie dove erano ho serbate, anche ne’ casi in cui, come in doppo, Ecco, essempio, risonavano per puro vezzo fiorentino o toscano; non ho messe dove non erano. Veramente qualche rara volta ho messe, con la m e la n, quando la scempia era a noi oggi intollerabile e pur allora doveva essere insueta; anche perché ho pensato che o per incuria o per minor briga, come soleva del resto avvenire, non avesse badato il compositore a sovrassegnare la lineetta del raddoppiamento alla vocale innanzi. La scempia è poi non di rado giustificata, o può essere, dall’etimologia latina ovvero dall’uso comune, e allora e ancóra indifferente o tentennante. Può essere anche nelle voci composte di affissi prepositivi, a, in: amalato, amazzare, adottorarsi, avocato, inamora: essendovi la preposizione preposta semplice semplice, a e non ad, in, senza rinforzatavi sonoritá; e la preposizione essendovi tuttavia percepita distinta quale proclitica, tanto che tal volta occorre nella stampa staccata anzi che attaccata. Pure vedrá il lettore che in pagine vicine, nella pagina medesima, fin nel medesimo periodo le medesime parole ricorrono e con la doppia consonante e con la scempia, cosí come cápitano. E come capitavano ed io le ho lasciate; né molte a un ultimo riscontro, altre da quelle che erano trovo essermi sfuggite, sí che per iscrupolo, qui le voglio recare: I, 12, addottorare, appresentò; 24, avvertite; 25, appropriate; 27, aggruzzolano; 30, abbattutomi; 39, arrabbiata; 40, affaticavo; 43, ammalato; 61, attorno; 62, orizzonte; 63, accozzava; 129, appiccare; 226, commessi; 233, commesselo', 257, commission; II, 16, commesse; 70, commesso. Delle altre parole composte ho a dire che il lettore s’imbatterá in assai forme varie: qualcuno, qualch’uno, qualche uno, ognuno, ogn’uno, ogni uno, ognora, ogn’ora, ogni ora; ma gentil uomini e galantuomini nel solo senso di uomini gentili e galanti, e nell’altro senso gentiluomini e galantuomini risolutamente; e non meno risolutamente congiunte parole che noi oggi non sappiamo piú lèggere divise, nettaferri, guardaroba, forchebene, fuorusciti, nonnulla, e quelle divise che stavano divise e possono stare, ciò è, verbi grazia, da bene, mezza notte, tal volta, oggi mai, acciò che, poi che e simili. Le congiunzioni finali o causali, acciò che, imperò che e loro sorelle e cugine ho addotte cosí separate anche allora che parevano venir innanzi strette insieme a braccetto, accioche, imperoche, codesto che, a ben guardarci, essendo atono ed enclitico, come anche ne assicura il non apparire mai acciocché, imperocché, con nella penultima sede la consonante doppia; sebbene per che sciolto tuttavia nel significato di per il che, in quello, però, di perché avvinto. Il quale uso da me seguito anche al Salza molto piaceva, e voleva serbato; e che non l’avesse il Petraglione in quel suo volume delle Novelle un poco si doleva, quantunque non sempre, come ho detto, il Doni egli stesso lo seguisse. Anche si doleva non avesse riprodotti disgiunti gli articoli composti, de lo, de i, de le, de gli, a lo, a la, a i, a gli, a le, co i; né li ho riprodotti io, né il Doni vi tenne fede, usandoli uniti e disuniti, anche con la consonante doppia, come gli veniva; e d’altra parte è norma di questa collezione dare coi, ai, agli, dei, degli, congiuntamente. Disgiunti li ho riprodotti ne’ versi, poiché potevano diffondervi altro riflesso di risonanza, e nella prosa altresí ne’ pochissimi luoghi ove la preposizione sia posta una volta sola e l’articolo ripetuto avanti ciascun nome, distintamente o no maschile e femminile, o dove pur essendo posta due volte serbi certa sua indipendenza: inanzi a gli occhi e gli orecchi, da le colonne di Ercole e li segnali di Bacco: dove in veritá deve risonare distinta. In altri di cotesti particolari non ho seguito il Petraglione e mi penso di aver fatto assai bene, se fedeltá guardinga in siffatti studi è preziosa: gli non ho cangiato in li, non la q in g e scritto seguente, non core in cuore, secreto in segreto, piagnere in piangere, non espunta la i da cacce, camice, benché non sia rimasta in I, 112, la correzione ciancie, né detruse parole che sembrassero d’impaccio a raddrizzare il senso. Per converso ho risolto i nessi prepositivi e avverbiali disopra, disotto, incambio, apoco apoco, atorno, apunto, apena, apresso, acanto e gli altri non molto dissimili impresto per in presto, intesta per in testa, alletto per al letto, insogno per in sogno, dibisogno, inveritá, essoteco, incinta, perché non raro ingenerano confusioni ed equivoci e, in fin de’ conti, avrei dovuto altrimenti tutto tutto rifare com’era e dare un’edizione diplomatica che né questa collezione ammette né comporterebbero poi i lettori. Non ho tócco vizii e vizi, principii e principi e altrettali forme, non, mi si creda, per feticismo di viete apparenze sí per culto dei documenti storici, siano essi anche di sola fonologia; perché la doppia vocale in fine i molti allora facevano nella pronuncia risentire e ancor oggi parecchi né illetterati fanno con istrascicamento fuggevole: benché in qualche luogo le mie correzioni non furono riprodotte: I, 195, 196, 197, secretarii; 199, offizii e benefizii; II, 22, fastidii; 64, propizii; 216, premii. E intatto al plurale femminino, al pari di filosofice, ho reso grece che ricorre piú volte ed è analogico a greci come grechi a greche, ancipiti uscite come in altri vocaboli di ugual terminazione; intatto il possessivo neutro, non dirò maschile, avanti il nome di qualunque genere, ch’è idiotismo fonico del vernacolo, né strambo né inspiegabile, e da accostarsi a certi altri usi neutri non diversi, tutto che rari, che giá altri e io piú largamente ho notati nel Petrarca. Dal vernacolo mille altre voci qui ritornano schiette anche se stonino a noi e siano parse altrui, che non erano, scorse di penna o di stampa: su che osserverá chi voglia molte ricorrere soltanto nelle parlate messe in bocca a plebei o a senza lettere, talune due volte sole in quella persona. Io, piú in generale, osserverò il Doni a volte a volte contraffare altrui la lingua e lo stile, per gusto d’imitazione quando non per gioia di proprio dileggio. Scorse né di penna né di stampa sono giaccio e ghiaccio in vece di giacchio, una tonda rete da pesca: giaccio non troverai ne’ grandi vocabolari; però, oltre che in questi Marmi, ritroverai e in altre opere del Doni piú tardive sebbene edite lui vivo, e ritroverai nel Davanzati, negli Annali di Tacito, III, 54, a pagina I, 141 della edizione curata da Enrico Bindi il 1852 in Firenze per il Le Monnier, non nella stampa sola sí e nell’autografo stesso; e ghiaccio non è da sospettare proceda per metatesi da giacchio, sí per analogo processo di dissimilazione, ben noto agli storici della lingua, dal medesimo giaccio, dissimilato j-j in d-j, come da jacere djacere, ghiacere, come da diaccio e giaccio e ghiaccio . Altri esempi potrei addurre non pochi; li risparmio tutti e a me e al lettore per maggiore brevitá e minor tedio. Soltanto due parole dovrò dire dei versi e una delle persone. I versi, o siano di cui il Doni li attribuisce o di lui proprio o di chi si siano, assai volte ne vengono avanti male in arnese: i soverchi per troncamento non fatto, i manchevoli per non evitata elisione ho con ovvia facilitá ridotti a loro misura, come altri in un luogo dissestati al loro naturale intreccio di rime; gli sbadiglianti di iati inattesi, i balzellanti d’elisioni ardite, i brancolanti su’ trampoli ho lasciato si stessero con Dio, in buona o mala grazia, secondo loro destino. Che molti per certe note di mal suono e per altro avessero bisogno di raggiustamenti ammoniva per bocca di questo o quell’interlocutore lo stesso Doni; e però non io lo poteva sbugiardare, né poi a lui disconoscere il merito, allora, e forse d’ogni tempo, non piccolo, di non averla pretesa nemmeno un poco a poeta, benché in quelle Stanze de lo Sparpaglia se la sia davvero cavata con bravura. Le persone, chi si fossero, quando nominate col nome solo o col nomignolo non erano tuttavia ignote, con rigida sobrietá, giusta il costume della raccolta, io ho rilevato a piè di pagina; chi piú amasse di saperne, di quelle e delle altre appellate pur col cognome, potrá appagarsene scorrendo le storie, le vite, i trattati, gli epistolari, le commedie con gli altri sollazzevoli scritti di quell’etá e delle etá prossime, nonché le opere di varia moderna erudizione che vi si riferiscano, e un pochino tal volta anche l’indice nostro. Del Carafulla, ad esempio, troverá che due volte ne fa allegra menzione il Varchi nell’Ercolano e una il Davanzati nella Lezione delle monete; del Berretta, di Visino e dello Stradino avrá notizia dal Lasca, per cui profitterá delle edizioni del Fanfani e del Verzone e delle erudizioni del Gentile negli Annali della regia scuola normale superiore di Pisa, filosofia e filologia, XII, 1897, e del Salza nella Rassegna bibliografica della letteratura italiana, 1901, IX; del Barlacchi riudirá rimemorata l’arguzia pur dal Giannotti nel Vecchio amoroso, III, 1; di Enea della Stufa oltre che dalla Storia fiorentina del Varchi apprenderá dalle Istorie di Giovanni Cambi; e via via di altri altrove.
In fine che dirò? Che il Doni voleva indulgessero un po’ i lettori se, nonostante le molte diligenze, qualcosa pur fosse sfuggito nelle stampe, ancorché io non abbia rinvenuto che impianato per impaniato in I, 159, e Analdo per Arnaldo in II, 138; vorrá, adunque, il lettore per me qui ascoltarlo, poi che qui siamo in casa sua. Io diligenze, come ho detto, e vedrá ognuno che si umilii a’ confronti, ne ho usate piú che moltissime: non vo’ con questo concludere che tutto tutto rileggerebbe cosí oggi il Doni, che altrimenti qua e lá anche allora avrebbe riletto se ne avesse avuto agio o voglia, tanto piú che allora elisioni, troncamenti, accomodamenti si lasciavano bel bello, in prosa e in verso, al genio di chi leggeva e non ci se ne offendeva punto, troppo piú che noi ora non siamo soliti, o giá non convenisse, badandosi al sodo che alla parvenza; vo’ asseverare che la forma è rimasta, il meglio si poteva, cosí com’era, sua propria del Doni, genuina. Il Doni, non ne dubito, molto se ne compiacerebbe; e di questi due bei volumi, e degli altri che poi si apparecchieranno, s’allegrerebbe e loderebbe come di nuovo suo fregio: che a me sarebbe bastevole premio.