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nota 237


certi periodi ch’erano guasti, se mai, nel pensiero, e guasti non erano, sí torbidi solamente e pantanosi per certe stagnanti giravolte proprie dell’uso popolano o plebeo o per quella sua fretta scombiccherata o comunque per manco d’espressione. Certi e, certi che, ripigliamene peculiarissimi dell’idioma vivo parlato, e allora piú di ora, doveva pur avvertire che non erano storpiature sfuggite all’autore o donategli dal compositore, come non erano certi altri e nella non rarissima accezione intensiva di ebbene.

In codesti e altri difetti cui sarebbe pedanteria andar piú particolarmente frugando, io mi sono studiato, con vigilanze, con fatiche, con pazienze quasi infinite, di non cadere; e se non altro, ben so questo, e mi sia lecito asserirlo, di avere per cotal minore cinquecentista speso e tempo e premure che appena si usa spendere per i classici maggiori. Dell’interpunzione una sollecitudine assidua: sobria ove piano il discorso, abbondevole ove il discorso s’infittisca d’incisi e di giri, sí che nelle corse diritte non appaiano arresti e nelle soste e nelle svolte sia, a ben guidarsi, il segnale. Che se, dopo tutto, qualche periodo vi ha in malo assetto e da non venirne a capo che a stento e all’ingrosso, il lettore voglia essermi equo e in vece che a me volgere al Doni il broncio o il cipiglio; il quale, del resto, gli risponderebbe d’un ghigno piantandolo lí in asso. Al testo, ovunque, il massimo riguardo; memore che i conciatori altrui il Doni li aveva sconciatori e meglio amava rimanessero due sbagli che non per la boria dell’emendare gliene appioppassero quattro. Gli sbagli, dove erano evidenti, sí, ho tolti, come senza dubbio avrebbe tolti egli stesso il Doni; non molti, assai meno che non riterrebbe chi s’affidasse al Fanfani; e i piú negli ultimi fogli. Dove non erano certi, mi son guardato dal pur ritoccare, quanto a noi moderni era mai possibile; tanto che le parole quasi tutte ne riappaiono nella medesima loro sembianza primiera. La copula resa dal Marcolini e con la sigla tironiana e con et io ho resa con e e, assai parcamente, con ed, regolandomi a orecchio su l’analogia di a e ad, la seconda usata dal Doni con assai parsimonia. Le consonanti doppie dove erano ho serbate, anche ne’ casi in cui, come in doppo, Ecco, essempio, risonavano per puro vezzo fiorentino o toscano; non ho messe dove non erano. Veramente qualche rara volta ho messe, con la m e la n, quando la scempia era a noi oggi intollerabile e pur allora doveva essere insueta; anche perché ho pensato che o per incuria o per minor briga, come soleva del resto avvenire, non