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il monastero di dorkia 271


Un sorriso un po’ beffardo spuntò sulle labbra del Bogdo-Lama.

— Vedremo, — disse poi — spero che non spingeranno le cose fino a tal punto. Però vi dico che sarebbero orgogliosi di avere, sulle sponde del lago sacro, due Budda viventi. —

Si era alzato.

— Sarete stanchi, — disse.

— Molto, — rispose Fedoro, che non desiderava altro che tagliare corto quel dialogo, che diventava di momento in momento più imbarazzante.

— Gli esseri celesti saranno miei ospiti e nulla mancherà loro, finchè si fermeranno nel mio monastero. Fin da questo istante verranno trattati cogli onori dovuti ai Budda viventi.

— Il grande Illuminato sarà riconoscente ai suoi fedeli adoratori del Tengri-Nor, dell’accoglienza fatta ai suoi figli. —

Il Bogdo-Lama s’accostò a un piccolo tavolo e scosse un campanello d’argento.

Quattro monaci, che dovevano essersi fermati al di fuori, in attesa dei suoi ordini, entrarono. Il Lama rivolse loro alcune parole, poi s’inchinò dinanzi ai due europei, facendo quindi segno di seguire i religiosi.

— Siamo finalmente liberi? — chiese Rokoff. — Se la durava ancora un po’, perdevo la pazienza e prendevo quel monaco per la barba.

— Avresti compromesso gravemente la nostra posizione di Budda viventi, — rispose Fedoro, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte.

— Di Budda viventi? Che cosa dici, Fedoro? —

— Taci per ora. —

Restituirono al pontefice di Dorkia il saluto e uscirono preceduti dai quattro monaci, i quali a ogni istante si volgevano verso i due europei inchinandosi fino al suolo e balbettando delle preghiere incomprensibili.

— Come sono cerimoniose queste persone, — brontolò il cosacco — comincio ad averne fino ai capelli. —

Percorsero parecchi corridoi sempre tappezzati di meravigliosi paraventi, salirono parecchie gradinate e finalmente furono introdotti in una sala immensa, colle pareti coperte di seta gialla fregiata da iscrizioni tibetane, ammobiliata con divani d’eguale stoffa e colla vôlta a cupola la quale, essendo composta di lastre di talco, lasciava trapelare un debole chiarore.