Hypnerotomachia Poliphili/II
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POLIPHILO TEMENDO EL PERICULO DEL SCURO BOSCO AL DIESPITER FECE ORATIONE, USCITTE FORA ANXIOSO ET SITIBONDO, ET VOLENDO DI AQUA RISTORARSE, ODE UNO SUAVE CANTARE. EL QUALE LUI SEQUENDO, REFUTATE L’AQUE, IN MAGIORE ANXIETATE PERVENE.
FFUSCARE GIÀ PRINCIPIATO havendo el mio intellecto, de non potere cognoscere, et nubilare gli sentimenti, quale optione eligere dovesse, over la odibile morte oppetere, overo nell’ombrifero et opaco luco nutante sperare salute. Indi et quindi discorrendo, dava intenta opera ad tutte mie forcie et conati de uscire. Nel quale quanto più che pervagando penetrava, tanto più obscuriva. Et già de grande pavore invalido devenuto, solamente d’alcuna parte dubitando expectava, che qualche saevissima fera impetente incominciasse a devorarme. Overo inpremeditatamente cespitando caecuciente, cadere in abyssosa fossura et scrobe, overo in qualche vasto hiato di terra praecipitare. Et hogi mai la fastidiosa vita de terminare simile ad Amphiarao et Curtio absorpto dalla voragine mephitica terrestre, et cadere da magiore altitudine, che non fece el vecorde Pyreneo. Per questo modo quasi sencia sperancia la mente d’ogni parte conturbava, pur sencia lege vagante et devio exito tentando. Onde più tremulo, che nel mustulento Autumno le mobile foglie ad gli furenti Aquili sencia il virore et sencia el suchioso pondo del suo humore, tra me cusì orante diceva. O Diespiter Maximo, Optimo, et Omnipotente, et Opitulo. Si dalli divini suffragii la humanitate per iuste prece merita suffragio, et debi essere exaudita. Al praesente di qualunque fragile offensa dolente, te supplice invoco summo patre degli superi, Medioximi, et inferi aeterno rectore, che de questi mei mortali pericoli et praesente horrore, me ad la tua immensa Deitate piaqui liberare, et finire questa mia dubiosa vita per altro megliore fine. Et quivi quale Achemenide horridulo dal horrifico Cyclope exorava cum solicite et precarie voce Aenea, più praesto desiderando da gli homini inimici morire che per cusì horrendo interito. Cusì né per altro modo io precante orai. A pena le divote oratione sinceramente fusse, cum el core unito orante, contrito et exagitato, de lachryme perfuso hebbi terminate, fermamente tenendo, che gli Dii ad la bona mente occorreno, che sencia mora fora dell’angusto, aspero, et imbricoso nemore inadvertente me ritrovai. Et quasi ad novo dì, da l’humida nocte fora pervenuto. Gli ochii obumbrati, per alquanto non pativano l’amabile luce. Tutto lurido et moesto, et anxioso. Non manco niente al desiderato lume ad me parve de essere giunto. Che de uno caeco carcere chi fora advenisse diloricato delle gravose et molestante cathene, et uscito de caliginose tenebre. Tutto sitibondo lacerato, et la facia et le mane cruentate, et da morsicante Urtica pustulate sentendome exanimo, ad la gratiosa luce pur niuna cosa obiecta istimando. In tanto era sitiente, che delle fresche aure non poteva refrigerarme, né ancora acconciamente al sicco core satisfare. Avidissimo d’inglutire la vana Saliva che in me era assucta. Ma poi che alquanto io fui rasicurato, et in me rivocato uno pauculo de animo, el pecto arefacto per crebri sospiri et per anxietate di spirito, et per corporale faticha, deliberai per ogni modo di extinguere l’arida sete, diqué per quella plagia curiosamente explorando de trovare qualche aqua, onde molto lasso inquirendo, opportunamente, ad me uno iocundissimo fonte se offeritte cum grossa vena de aqua freschamente resurgente. Il loco del quale gli palustri Achori et la barba Silvana mi discoperse, et la fiorita Lisimachia, et la muscariata Imperatoria. Dal quale nasceva uno chiarissimo fluento, che cum discursivi rivuli per medio della deserta silva cum discolo et flexuoso alveo influente, incremento da molti altri liquenti canali tollendo dilatavase. Et per gli impedienti Saxi et ruinati trunchi insurgevano le corrente et sonante unde. Et poscia da impetuosi et undisoni torrenti dalle risolute neve dagli alpestri et rigidi monti lapse cadendo, gli quali non tropo lontano distare apariano candidati nel algente monstro de Pana, grande augumento riceveva. Al quale molte fiate nella mia timorosa fuga pervenuto. Io trovava alquanto de fusca luce, per gli excelsi arbori uno poco nelle cime discuneati, sopra el limoso fiume, ove vedeva el coelo lacerato per gli impedienti rami frondosi, et tali sicchi, horrido loco a homo solo ritrovarse Sencia traiecto alcuno. Ancora cum le ultranee rive più che le citime obscure et intricabile apparendo. Quivi era el mio spavento sentire de lì alcuna fiata sibilante ruina d’arbori, et uno fragore de rami, et sfindere crepitante de ligne, cum geminato et horrisono strepito, per longo tracto nella densitate degli arbori et incluso aire riservato. Volendo dunque io Poliphilo territo et afflicto evaso tanto horrore, le optate aque sopra le verdose rive exhaurire, cum gli popliti consternato, et in clausura le dette reducendo, et la vola lacunata, feci vaso da bevere gratissimo. La quale infusa nel fonte et di aqua impleta per offerire alla rabida et hanelante bucca, et refrigerare la siccitudine del aestuante pecto. Più grate alhora ad me, che ad gli Indi Hypane et Gange, Tigride et Euphrate ad gli Armenii, né ancora è cusì grato alle gente Aethiopice el Nilo. Et ad gli Aegyptii el suo inundare imbibendo la tosta gleba. Né Eridano ancora alli populi Liguri, quanto mi se offerivano le acceptissime et fresche rive. Né cusì peracceptissimo fue a Libero Patre el fonte dimonstrato dal fugiente Ariete. Acadette che non cusì praesto le expectate et appetibile aque claustrale, nella caveata mano ad la bucca aperta era per approximarle, che in quello instante audivi uno Dorio cantare, che non mi suado, che Thamiras Thratio el trovasse, per le mie caverniculate orechie penetrante, et ad lo inquieto core tanto suave dolce et concino traiectato. Cum voce non terrestre, cum tanta armonia, cum tanta incredibile sonoritate cum tanta insueta proportione. Umè quanto mai si potrebbe imaginare. Perché sencia dubio questa cosa excede ultra la potentia di narratione. La dolcecia della quale et delectatione, molto più de oblectamento che la potiuncula offerentise mi se praestava. Intanto che l’aqua hausta intra la clausura dell’intervalli degli denti, insenso quasi et già obstupefacto lo intellecto, et sopito l’appetito, niuna virtute contradicendo reserati gli nodi se sparse ad humida terra.Hora quale animale che per la dolce esca, lo occulto dolo non perpende, postponendo el naturale bisogno, retro ad quella inhumana nota sencia mora cum vehementia festinante la via, io andai. Alla quale quando essere venuto ragionevolmente arbitrava, in altra parte la udiva, ove et quando a quello loco properante era giunto, altronde apparea essere affirmata. Et cusì como gli lochi mutava, similmente più suave et delectevole voce mutava cum coelesti concenti. Dunque per questa inane fatica, et tanto cum molesta sete corso havendo, me debilitai tanto, che apena poteva io el lasso corpo sustentare. Et gli affannati spiriti habili non essendo el corpo gravemente affaticato hogi mai sostenire, sì per el transacto pavore, sì per la urgente sete, quale per el longo pervagabondo indagare, et etiam per le grave anxietate, et per la calda hora, difeso, et relicto dalle proprie virtute, altro unquantulo desiderando né appetendo, se non ad le debilitate membra quieto riposo. Mirabondo dell’accidente caso, stupido della melliflua voce, et molto più per ritrovarme in regione incognita et inculta, ma assai amoeno paese. Oltra de questo, forte me doleva, che el liquente fonte laboriosamente trovato, et cum tanto solerte inquisito fusse sublato et perdito da gli ochii mei. Per le quale tute cose, io stetti cum l’animo intricato de ambiguitate, et molto trapensoso. Finalmente per tanta lassitudine correpto, tutto el corpo frigescente et languido. Sotto de una ruvida et veterrima quercia, abundante dell’inscutellato, overo panniculato fructo, despreciato per la fertile Chaonia, nel megio del spatioso et graminoso prato, de strumosi et patuli rami frondosa, umbra frescha facendo, et del trunco hiante, exposimi accumbere sopra le rorate herbe. Sopra el sinistro lato cessabondo, iacente, atraheva cum gli attenuati spiriti le fresche aure, più assiduamente cum le crespe labra, che el stanco Cervo fugato et ad fianchi dagli mordaci et feroci cani morsicato, et nel pecto cum la sagitta vulnerato, apodiata cum le ramose corne alle debole tergore la ponderosa testa, ultimamente consistere non valendo, sopra gli volubili genochii moribondo se prosterne lasso. Onde in questa simigliante angonia iacendo scrupulosamente nell’animo discorreva, degli litii intricatissimi della inferma fortuna, et gli incanti della malefica Cyrce, si a caso per gli sui versi innodato fusse, overo contra me usato el Rhombo. Ad questi tali et tanti accessorii spaventi. Umè dunche, ove potrei io quivi tra sì diverse herbe ritrovare la Mercuriale Moly, cum la nigra radice per aiuto, et mio medicamento? Poi diceva questo non è, ma che cosa è? Se non uno maligno differire diciò la optata morte? Stando cusì in questi perniciosi agitamenti, le virtute erano paulatine, et nulla altra Salute ritrovare pensiculava, se non frequente et sedulo haurire et ricevere le recente aure, et quelle nel pecto, ove uno pauculo di vitale calore radunato palpitava riscaldate, cum la absorbula gula, fora poscia vomabonda exallare. Non per altra via dunque che semivivo ritrovantime, per ultimo refrigerio prehendeva le humide foglie rorulente, sotto la frondosa quercia riservate, et quelle porgere alli pallidi et aspri labri, cum ingurgitissima aviditate, d’ingluvie lambendole assuccare, et la siticulosa uvea refrigerare alquanto. Desiderando allhora Hypsipyle che ancora qual agli Graeci Langia fonte mi monstrase. Imperoché pensiculatamente io sospicava, si per caso nella vasta silva non advertendo dalla serpa Dipsa io fusse morso, tanto era la mia sete insupportabile. Novissimamente rinunciata la taediosa vita et proscripta, diciò a tutto che gl’intravenisse. Cum gravissimi cogitamenti attonito et alienato, quasi maniando vacillava, di novo sotto di questa umbra quercunea, cum patula opacitate degli rami lasciva, i’ fui di eminente somno oppresso, et sparso per gli membri il dolce sopore, iterum mi parve de dormire.