Hypnerotomachia Poliphili/I
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POLIPHILO INCOMINCIA LA SUA HYPNEROTOMACHIA AD DESCRIVERE ET L’HORA, ET IL TEMPO QUANDO GLI APPARVE IN SOMNO DI RITROVARSI IN UNA QUIETA ET SILENTE PLAGIA, DI CULTO DISERTA. DINDI POSCIA DISAVEDUTO, CON GRANDE TIMORE INTRÒ IN UNA INVIA ET OPACA SILVA.
HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI.
AURORAE DESCRIPTIO
In quella medesima hora che gli colorati fiori del veniente figliolo di Hyperione, el calore ancora non temeano nocevole. Ma delle fresche lachryme de Aurora irrorati et fluidi erano et gli virenti prati. Et Halcyone sopra le æquate onde della tranquilla Malacia et flustro mare, ad gli sabuleti litori appariano di nidulare. Dunque alhora che la dolente Hero ad gli derosi littori el doloroso et ingrato decessio del natante Leandro caldamente sospirava. Io Poliphilo sopra el lectulo mio iacendo, opportuno amico del corpo lasso, niuno nella conscia camera familiare essendo, se non la mia chara lucubratrice Agrypnia, la quale poscia che meco hebbe facto vario colloquio consolanteme, palese havendoli facta la causa et l’origine degli mei profundi sospiri, pietosamente suadevami al temperamento de tale perturbatione. Et avidutase de l’ora che io già dovesse dormire, dimandò licentia. Diqué negli alti cogitamenti d’amore solo relicto, la longa et taediosa nocte insomne consumando, per la mia sterile fortuna et adversatrice et iniqua stella tutto sconsolato, et sospiroso, per importuno et non prospero amore illachrymando, di puncto in puncto ricogitava, che cosa è inaequale amore. Et come aptamente amare si pole, chi non ama, et cum quale protectione da inusitati et crebri congressi assediata, et circumvenuta da hostile pugna, la fluctuante anima possi tanto inerme resistere, essendo praecipue intestina la seditiosa pugna, et assiduamente irretita di soliciti, instabili et novi pensieri. De cusì facto et tale misero stato, havendome per longo tracto amaramente doluto, et già fessi gli vaghi spiriti de pensare inutilmente, et pabulato d’uno fallace et fincto piacere ma dritamente et sencia fallo d’uno non mortale, ma più praesto divo obiecto di Polia, la cui veneranda Idea in me profundamente impressa, et più intimamente insculpta occupatrice vive. Et già le tremule et micante stelle incohavano de impallidire el suo splendore, che tacendo la lingua, quel nemico desiderato, dal quale procede questo tanto et indesinente certame, impatiente solicitando el core sauciato, et per proficuo et efficace remedio el chiamava indefesso. Il quale altro non era che innovatione del mio tormento, sencia intercalatione, crudele. Cogitabondo et la qualitate degli miselli amatori, per quale conditione per piacere ad altri dolcemente morire optano, et piacendo ad sé malamente vivere. Et el frameo disio pascere, et non altramente, de laboriose et sospirabile imaginatione. Dunque quale homo, che dapò le diuturne fatiche lasso, cusì né più né meno, sedato apena el doloroso pianto exteriore alquanto, et inclaustrato el corso delle irrorante lachryme le guance d’amoroso languore lacunate, desiderava hogimai la naturale et opportuna quiete. Hora li madidi ochii uno pocho tra le rubente palpebre rachiusi, sencia dimorare tra vita acerba, et suave morte. Fue invasa et quella parte occupata et da uno dolce somno oppressa, la quale cum la mente et cum gli amanti et pervigili spiriti non sta unita né participe ad sì alte operatione. O Iupiter altitonante, foelice o mirabile o terrifica, dirò io questa inusitata visione, che in me non sa trova atomo che non tremi et ardi excogitandola. Ad me parve de essere in una spatiosa planitie, la quale tutta virente, et di multiplici fiori variamente dipincta, molto adornata se repraesentava. Et cum benigne aure ivi era uno certo silentio. Né ancora alle promptissime orechie de audire, strepito né alcuna formata voce perveniva. Ma cum gratiosi radii del Sole passava el temperato tempo.
Nel quale loco io cum timida admiratione discolo, da me ad me diceva. Quivi alcuna humanitate al desideroso intuito non già apparisce, né ancora silvatica, né silvicola, né silvia, né domestica fera. Né casa rurestra alcuna, né alcuno tugurio campestro, né pastorali tecti, né Magar né Magalia se vide. Né similmente ad gli herbidi lochi non videva Opilione alcuno, né Epolo, né Busequa, né Equisio, né vago grege et armento, cum le sue bifore Syringe rurale, né cum le sue cortice Tibie sonanti. Ma freto per la quieta plagia, et per la benignitate del loco, et quasi facto securo procedendo, riguardava quindi et indi, le tenere fronde immote riposare, niuna altra opera cernendo. Et cusì dirrimpecto d’una folta silva ridrizai el mio ignorato viagio. Nella quale alquanto intrato non mi avidi che io cusì incauto lassasse (non so per qual modo) el proprio calle. Diqué al suspeso core di subito invase uno repente timore, per le pallide membre diffundentise, cum solicitato battimento, le gene del suo colore exangue divenute. Conciosia cosa che ad gli ochii mei quivi non si concedeva vestigio alcuno di videre, né diverticulo. Ma nella dumosa silva appariano si non densi virgulti, pongence vepretto, el Silvano Fraxino ingrato alle vipere, Ulmi ruvidi, alle foecunde vite grati, corticosi Subderi apto additamento muliebre, duri Cerri, forti roburi, et glandulose Querce et Ilice, et di rami abondante, che al roscido solo non permettevano, gli radii del gratioso Sole integramente pervenire. Ma come da camurato culmo di densante fronde coperto, non penetrava l’alma luce. Et in questo modo me ritrovai nella fresca umbra, humido aire, et fusco Nemorale.Per la quale cosa, principiai poscia ragionevolmente suspicare et credere pervenuto nella vastissima Hercynia silva. Et quivi altro non essere che latibuli de nocente fere, et cavernicole de noxii animali et de seviente belve. Et perciò cum maximo terriculo dubitava, di essere sencia alcuna defensa, et sencia avederme dilaniato da setoso et dentato Apro, quale Charidemo, overo da furente, et famato Uro, overo da sibillante serpe et da fremendi lupi incursanti miseramente dimembrabondo lurcare vedesse le carne mie. Diciò dubitando ispagurito, ivi proposi (damnata qualunque pigredine) più non dimorare, et de trovare exito et evadere gli occorrenti pericoli, et de solicitare gli già sospesi et disordinati passi, spesse fiate negli radiconi da terra scoperti cespitando, de qui, et de lì pervagabondo errante, hora ad lato dextro et mo al sinistro, tal hora retrogrado et tal fiata antigrado, inscio et ove non sapendo meare, pervenuto in Salto et dumeto et senticoso loco tutto granfiato dalle frasche, et da spinosi prunuli, et dal intractabile fructo la facia offensa. Et per gli mucronati cardeti, et altri spini lacerata la toga et ritinuta impediva pigritando la tentata fuga. Oltra questo non vedendo delle amaestrevole pedate indicio alcuno, né tritulo di semita, non mediocremente diffiso et dubioso, più solicitamente accelerava. Sì che per gli celeri passi, sì per el meridionale aesto quale per el moto corporale facto calido, tutto de sudore humefacto el fredo pecto bagnai. Non sapendo hogi mai che me fare, solamente ad terribili pensieri ligata et intenta tegniva la mente mia. Et cusì alla fine, alle mie sospirante voce Sola Echo della voce aemula novissima offerivase risponsiva. Disperdando gli risonanti sospiri, cum il cicicare dell’amante rauco della roscida Aurora, et cum gli striduli Grylli. Finalmente in questo scabroso et invio bosco. Solamente della Pietosa Ariadne cretea desiderava el soccorso. Quando che essa per occidere el fratello monstro conscia, el maestrevole et ductrice filo ad lo inganevole Theseo porgette, per fora uscire del discolo labyrintho. Et io el simigliante per uscire della obscura Silva.