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frigescente et languido. Sotto de una ruvida et veterrima quercia, abundante dell’inscutellato, overo panniculato fructo, despreciato per la fertile Chaonia, nel megio del spatioso et graminoso prato, de strumosi et patuli rami frondosa, umbra frescha facendo, et del trunco hiante, exposimi accumbere sopra le rorate herbe. Sopra el sinistro lato cessabondo, iacente, atraheva cum gli attenuati spiriti le fresche aure, più assiduamente cum le crespe labra, che el stanco Cervo fugato et ad fianchi dagli mordaci et feroci cani morsicato, et nel pecto cum la sagitta vulnerato, apodiata cum le ramose corne alle debole tergore la ponderosa testa, ultimamente consistere non valendo, sopra gli volubili genochii moribondo se prosterne lasso. Onde in questa simigliante angonia iacendo scrupulosamente nell’animo discorreva, degli litii intricatissimi della inferma fortuna, et gli incanti della malefica Cyrce, si a caso per gli sui versi innodato fusse, overo contra me usato el Rhombo. Ad questi tali et tanti accessorii spaventi. Umè dunche, ove potrei io quivi tra sì diverse herbe ritrovare la Mercuriale Moly, cum la nigra radice per aiuto, et mio medicamento? Poi diceva questo non è, ma che cosa è? Se non uno maligno differire diciò la optata morte? Stando cusì in questi perniciosi agitamenti, le virtute erano paulatine, et nulla altra Salute ritrovare pensiculava, se non frequente et sedulo haurire et ricevere le recente aure, et quelle nel pecto, ove uno pauculo di vitale calore radunato palpitava riscaldate, cum la absorbula gula, fora poscia vomabonda exallare. Non per altra via dunque che semivivo ritrovantime, per ultimo refrigerio prehendeva le humide foglie rorulente, sotto la frondosa quercia riservate, et quelle porgere alli pallidi et aspri labri, cum ingurgitissima aviditate, d’ingluvie lambendole assuccare, et la siticulosa uvea refrigerare alquanto. Desiderando allhora Hypsipyle che ancora qual agli Graeci Langia fonte mi monstrase. Imperoché pensiculatamente io sospicava, si per caso nella vasta silva non advertendo dalla serpa Dipsa io fusse morso, tanto era la mia sete insupportabile. Novissimamente rinunciata la taediosa vita et proscripta, diciò a tutto che gl’intravenisse. Cum gravissimi cogitamenti attonito et alienato, quasi maniando vacillava, di novo sotto di questa umbra quercunea, cum patula opacitate degli rami lasciva, i’ fui di eminente somno oppresso, et sparso per gli membri il dolce sopore, iterum mi parve de dormire.