Guerino detto il Meschino/Capitolo X
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CAPITOLO X.
Il Meschino, grande ammazzatore di fiere pei luoghi deserti dell’India.
Mentre il Meschino era intento a guardare quell’animale, il Mediano cominciò a gridare per molti altri che venivano verso il fiume, ed erano più di cento. Per lo che montarono a cavallo con tanta fretta, che appena camparono dinanzi a loro, non avendo neanco potuto campare i cavalli della vettovaglia, chè spaventati fuggivano or in qua ed ora in là, perchè quegli animali se giungevano a terra, e lor s’appressavano, li pigliavano. Ma essi all’incontro camparono scostandosi al continuo dal fiume, e questo loro insegnò la guida, dicendo che questi animali vivono di pesce e mangiano d’ogni cosa, ma non si partono mezzo miglio lungi dal fiume, perchè non vivrebbero mancando loro l’acqua. Così essi rimasero senza vettovaglie e senza il compagno, onde secondo il consiglio del Mediano, il quale aveva detto di continuare a camminare pel mancamento di viveri, addolorati pel morto, di qui si mossero, e camminarono due giornate senza mangiare se non erbe e frutti selvatici. Il Meschino nei deserti.
Camminando ed alloggiando per luoghi squallidi e deserti, temendo le bestie selvatiche non meno della fame, per avventura trovarono certi pastori, i quali si maravigliarono di loro per tanto ardue intraprese, ed avendo loro dato del pane e carne, insegnarono ad essi la via di andare sopra la campagna, e ad un lago di acqua dolce e buona, più che non avevano ritrovato da poi che partiti si furono dal luogo di Sturpi. Però partiti dai pastori, i quali erano piccioli e negri, con pochi panni e quasi tutti pelosi, ed appena intelligibili nel lor parlare, andarono verso il lago nominato Archini, e colà giunti si rallegrarono per l’acqua dolce, e ne caricarono tre cavalli di tre otri pieni. Il Meschino si trasse l’elmo, e lavossi le mani e il volto, e tutto il capo si bagnò d’allegrezza, e bevutone alquanto, così un poco confortato rendette grazie a Dio lodandolo. Camminando poi sopra la via del lago, essendo alla sera, un leone che andava a bere, l’assaltò. Il Meschino come il vide, precipitò da cavallo, e il leone come conobbe che egli voleva battaglia, subito venne verso il Guerino, e colle branche lo afferrò, ma gli fece poco male per le buone arme che egli aveva. Allora il Guerino ferì il leone aspramente d’una punta, nel mentre questi erasi già mosso a partire, per cui adirato si voltò per gittarsegli addosso. Ma il Meschino attento gli diede un colpo di spada, e tagliogli la testa in due parti tanto che l’ebbe morto.
Appena risalito a cavallo, vide un altro animale di grandezza d’un buon ronzino comune che aveva la testa caprina, la barba a mo’ di becco, le gambe e piedi a modo di cervo. I crini della coda aveva come di cavallo, ed un corno in testa lungo quattro braccia. Questo animale non tentò di fare alcun male. Ed il Meschino disse al compagno: «Questo è un Alicorno». Pareva esso di colore or negro, ora sanguigno, e lustrava il suo pelo, il qual lustro rosseggiava. Però il Meschino soggiunse: «Questo è un segno che gli altri animali vengono». E per questo si affrettava di camminare ed andava attento. Non dopo molto cammino, trovarono una leonessa con quattro leoncini che l’assalì. Il Meschino la ferì e l’uccise, e per questo dì non ebbe più disavventura.
Albergarono la sera in una villa sur un lago, e l’altra mattina giunsero ad una città dove per maraviglia molti della medesima fecero loro grande onore. Questa gente molto si maravigliava del Meschino, poichè il Mediano aveva lor detto come egli aveva ucciso il re Pacifero nemico di quel reame, e di questo dimostrarono molto rallegrarsi. Questa gente è picciola di statura, minore a quella comune agli uomini negri non tanto, quanto agl’Indiani. E molti ne vide con disonesta portatura di vestire almeno quelli di bassa condizione uomini e donne. Dopo tre giorni poi che erano stati con quella gente, partirono, e fu data al Meschino un’altra guida. Il Mediano disse allora al Meschino: «Questa è Cubina, molte altre città si trovano ancora in questa regione, fra le quali è Alessandria Arida. Quest’Alessandria Arida fece fondare Alessandro Magno re di Macedonia, per dimostrare di essere stato in quel paese. Alla qual città molte altre sono sottoposte,» e tutte disse il Mediano averle vedute. Il Meschino nè le cercò nè le vide, perchè troppo avrebbe avuto da fare a cercare per tutto. Ma tanto velocemente cavalcarono, che giunsero a certi monti, i quali sono uniti colle grandissime montagne Coronate dette di sopra. Passarono questi monti in tre giornate, e allo scendere di essi, l’Indiano che avevano per guida, mostrò al Meschino un gran piano tanto da lontano, che appena lo vedeva, dicendogli: «Quello è il fiume Indus, che noi lascieremo di dietro, il quale passa per queste montagne sotto terra, dando il nome d’India a tutto il paese per dove scorre. Per i quali paesi verso levante abbiamo noi a fare molte giornate, dove vedremo diverse nazioni di contraffatte figure, rispetto alle nostre persone di Soria, di Grecia, d’Europa e d’Affrica».
Udite il Meschino queste parole, alquanto gli venne di sè stesso pietà, e guardando molto in qua e in là, vide una cima di montagne a man manca che parevagli toccassero il cielo, e dimandando se quelle eran nubi o montagne, e se eglino le avevano a passare, rispose il Mediano di non avere a passare quelle montagne, che loro rimarrebbero di dietro, dovendo essi andare verso levante. Allora il Mediano entrò in gran parole, e parlò in questa forma:
«O nobile e gentilissimo signore, non vi ho detto che non abbiamo a far niente verso le parti fredde, ma verso le calde? Vittoria o morte. Queste montagne, che voi vedete, sono verso le parti fredde chiamate monti Masarpi, e son maggiori di tutte le montagne del mondo, tutta la terra abitata e disabitata non avendo maggiori alpi di questa, imperciocchè hanno esse il principio nella più erta Tartaria, e finiscono al mar Caspio in Media andando verso ostro. Voi le vedeste per diverse parti queste grandissime alpi, le quali sono le montagne dove Alessandro fece serrar la bocca di questi tre giri di monti1. Dicono molti che egli serrò dentro di esse le tribù d’Israele, perchè le trovò estranee da tutta l’altra umana generazione. Ma questo non è vero, perchè Alessandro visse molte centinaia d’anni innanzi che i Giudei perdessero il regno di Gerusalemme. Quel che è verissimo, Alessandro vi serrò i Tartari senza legge, e poi li murò dentro in questa forma. Fece quindi cercare qual era il Dio sopra tutte le cose, e gli fu risposto essere il Dio d’Israele, epperò la notte seguente vide Dio padre. Allora egli pregò il Dio d’Israele che se egli era Dio sopra tutti gli altri Dei, comandasse a quelle montagne che si serrassero. Per la qual cosa l’altra mattina vide tutte le montagne serrate per virtù di Dio, e per segno ch’egli era Dio del cielo e della terra, e che ogni cosa gli era ad obbedienza.
«In questa regione sono cinquanta città, e da quelle montagne nasce un gran fiume chiamato Caos, e di qua in giù chiamato Indo, che è quello che noi vediamo. La regione, in cui siamo ora per entrare, è Suastene, dove vi ha un regno chiamato Pomodas, per esservi molto odor di pomi. Di là da questo regno v’è un regno detto Casperi, e di là dal fiume Sardabal trovasi il regno di Vacan vicino al fiume Bibans. Questi fiumi dove si congiungono fanno l’isola, e di là da Bibans è un regno grande chiamato Landina. Poi vi ha un altro gran paese disabitato vicino al gran fiume Dimnos nel luogo che entra nel Mare Indico. E tra il Mar Indico e il fiume Cancer vi sono le più belle regioni dell’India. La prima è Suastene, la quale ci mena ai confini di questa mezzanità di fiumi. Si vede poi il regno detto India tra Cancer e Indo. E da questo regno in giù corre Cancer verso levante, e Indo si volge alla parte di Persia, e tra questa mezzanità di fiumi vi hanno tutte le nobiltà d’India in fatto di mercanzia e di spezierie di questi regni. Il primo verso Persia è il regno Abaona, poi quello di Lergenas, poi il regno di Bauta, e in sul mar verso levante e il regno di Taurcia, il regno Medura, il regno Arcusas, e in questo regno d’Arcusas v’ha una città dello stesso nome, ed è la maggior città dell’India, e signoreggia quasi tutti questi paesi. E voi, signor mio, ne vedrete la maggior parte».
A tutte queste parole il Meschino lagrimò, pensando al gran cammino che egli aveva a fare dopo quello che aveva già fatto. Dissegli allora il Mediano: «Perchè ti sconforti, o signore? Non ti se’ sconfortato nei luoghi selvatici e deserti, ed ora entriamo nei luoghi abitati, dove vedrai le spezierie, vedrai il Mare Indico, e vedrai l’isola Tabrobana, ed il gran monte Tigrifonte, dove sono gli Alberi del Sole. Troverai pure altri paesi, e vedrai l’abitata India, la Persia, e l’Arabia Felice, e l’Egitto, l’India minore, e la Soria. Queste cose ti deggiono rendere assai di buon animo. Sia pur che accidente si vuole, tutto ti sarà dilettevole di vedere».
Il Meschino sorrise vedendo il buon confortatore Mediano, e dandogli leggermente della mano sulla spalla, disse: «Tu saresti buon parlatore». E così calando giù dalle montagne giunsero al regno dello Suastene, lasciando il monte Barcombas verso Levante.
Partendosi dal monte Barcombas, in tre giorni, giunsero al fiume Debas, e l’altro giorno arrivarono dove a questo fiume se ne congiunge un altro, e da questa congiunzione in giù detto Indo, perchè di due fiumi è fatto uno, e vogliono gli autori che dall’Indo sia detto India il paese, cioè in due, giacchè l’Asia è partita in due Indie. Alcuni dicono che India è detta dal re Indos, che fu re di quella provincia. Altri poi vogliono che sia detta India, perchè vede prima il sole che qualunque altra provincia della terra abitata. E questo è vero. Onde gli Affricani la chiamano India Minore, perchè è la prima d’Affrica, che vede il sole quando si leva, e dove sta il prete Janni, che è oltre al fiume Nilo.
Giunti al fiume Indo, disse la guida al Meschino che dirimpetto a loro eran sette regioni di gente, che di null’altro vivevano che di erbe, pomi ed altri frutti, e due altre regioni poi, che non mangiano, ma solo vivono dall’odorare, chiamate l’una Pomedosi, e Casparius l’altra. E così seguitando il fiume, trovarono molti pastori e bestiame e gente, che sempre abita all’aere, e certe città, per le quali andarono dieci giorni, tanto che trovarono una gente contraffatta, la quale chiamano Monocoli. Quivi cominciarono aver gran caldo, perchè il sole aveva gran possanza, e quanto più nell’India s’addentravano, maggior caldo sentivano; e come gli abitatori di quei paesi sono negri per il sole, così diventarono anche essi alquanto negri. Avevano già camminato oltre dieci dì, quando il Mediano, che era innanzi al Meschino cento braccia, voltatosi agli altri cominciò a gridare aiuto. Il Meschino guardò, e non vide niente. Il Mediano smontò, ed inchinatosi a guardare sotto il cavallo, disse: «Io sento un gran romore di vento». Però non si avvide che un griffone percosse il cavallo ed ucciselo. Il Mediano allora pieno di paura si mise a correre verso il Meschino, e l’uccello si posò sopra il cavallo, e cominciò a pascersi. Il Meschino sentì gran dolore del cavallo e del compagno; intanto aspettò che l’uccello si saziasse, indi imbracciato lo scudo, colla spada alla mano gli andò addosso. L’uccello se gli avventò soffiando come un drago, e presegli cogli artigli lo scudo, e col becco l’elmo, ma tirando lo trovò sì duro che spiccossene via, e credendosi fuggire, il Meschino gli menò tal colpo di spada, che gli tagliò gran pezzo dell’ala. Il griffone gettò allora gran grido, e rivoltossi per tornargli addosso soffiando, ma il Meschino pronto gli recise la testa, e l’uccello subito morì. Il Meschino volle poi vedere come era fatto, e trovò che era da mezzo indietro leone, da mezzo innanzi pennuto, ed aveva due branche che avevano un braccio di presa, due ale che dall’una punta all’altra erano dieci braccia di larghezza, il capo ed il collo di color rossino e come d’aquila, ma molto più grosso che l’aquila. Il Mediano consigliò subito di partire da quel luogo, perchè temeva che gli altri griffoni non li assalissero, i quali forse dovevano avere il loro nido in quelle alpi verso Persia. Molto più che avevan veduto quell’uccello maschio, e la guida indiana aveva detto che era di maggior grandezza la femmina, e di più gran pericolo del maschio.
Il Meschino montò a cavallo, e tolto il Mediano in groppa, andò verso la generazione de’ Monocoli. Il dì vegnente giunsero ad Aracuna città, dove trovarono genti contraffatte rispetto alla natura umana. Quelle genti erano negre, ed avevano solamente un occhio in testa in mezzo la fronte, perocchè son chiamati monocoli. Sono di grandezza comune, ma i loro occhi sono maggiori de’ nostri, e in parte rosseggiano. Vestono pelle di bestie, e gli altri che non hanno pelle, vanno nudi. In tutto il paese non videro alcuno che lavorasse la terra da poter coglier mangiare, quantunque ricca di praterie e di gran quantità di bestiame. Gli abitatori mangiano molta carne in vece di pane, e la lor città ha le mura di pietre cotte, le quali servono per difensione delle fiere selvatiche, cioè serpenti e dragoni. Il Meschino co’ suoi compagni introdotto dal loro signore, questi domandò molto dei fatti di ponente per mezzo dei due interpreti, che intendevano il suo parlare, e molto si maravigliava di quanto intendeva di loro. Tutta quella gente ammirava il modo del vestire del Meschino, le sue arme e il suo cavallo; e in segno di ospitalità offersero a lui ed alle sue guide delle erbe odorifere, delle quali hanno abbondanza nel loro paese. Accommiataronsi poi da loro con due guide, che essi lor diedero, e, condotti fino al fiume Indo, lo valicarono sopra certi legni legati insieme; passato il gran fiume, i due Monocoli vennero mezza giornata e non più con loro, contenti d’aver loro insegnata la via.
I due Monocoli fermatisi per tornar indietro, dissero: «Andate pur innanzi, ed andando, in capo di due o tre giornate troverete un grandissimo fiume chiamato Cancer, che scorre più paesi che l’Indo, ma non ha tant’acqua, e lungi da qui quattro giornate scorre verso levante, e accostandosi all’Indo, entra fra due montagne, l’una di cui è chiamata monte Vespericus, e da molti monte Lipro. Come voi vedrete queste montagne, ne passerete allato al di là, dove seguitando il fiume troverete molti paesi abitati e molte belle città. Ma ricordatevi di non partirvi mai dal fiume Cancer, perchè quella è la via di andar agli Alberi del Sole e della Luna». Perciò cavalcando verso levante videro i monti predetti, e come era stato lor detto, seguitando il fiume andarono in giù certi del paese. Passarono il gran fiume Cancer, ove fu loro insegnata la via per andar ad una città chiamata la bella Vorama, e penarono quel dì e l’altro a giungervi. Costretti a passare per molti boschi, videro molti cervi e molti animali selvatici, e dopo trovarono un animale selvatico sì strano, che il simile non avevano mai veduto. La bestia venne loro incontro mugghiando, però senz’assalirli, ma quei muggiti fecero aombrare i loro cavalli, che non li potevano tenere. I cavalli fuggivano, e la bestia pur li seguiva, finchè vergognato il Meschino di fuggire dismontò da cavallo, e fu per darle addosso. Il Mediano l’esortò a non andargli incontro, ch’ella era una cattiva fiera. Ma egli non gli credette, ed andatogli incontro, la bestia gli diede della testa nello scudo, gettandolo a questo modo per terra: tanta era la sua forza! Come fu caduto, la bestia non dimostrò di volergli fare alcun male, chè anzi era per andarsene. Le guide intanto se ne ridevano, per cui il Meschino disse loro: «Voi già non ridevate presso al griffone,» ed essi risposero: «Signore, quello era di pericolo, ma questa non è così, imperocchè fuggendo non fa male a persona». Tuttavia il Meschino mal sopportando di vedersi vinto, si voltò animosamente contro quella bestia selvaggia, la quale cominciò a schivar i colpi, ma si dirizzò alla fine su due piedi, ed affrontò il suo avversario. Questi le diede della punta della spada nella pancia, e passolla. Perciò trasse ella un muggito, e voltossi per fuggire. Il Guerino allora le tagliò una gamba di dietro, per cui essa cadde a terra, e morì sotto i colpi reiterati del suo nemico. Sappi, lettore, che poscia che morì la predetta bestia, il Guerino le menò colla spada molti colpi sopra la schiena, e mai non la potè macolare, tanto aveva duro il dorso. Disse una delle guide che questa bestia si chiama Centocchio, delle quali molte se ne trovano ne’ deserti indiani, e mai non si potè domesticare. Della sua pelle se ne fanno armature, e fortunato è colui che si può armare di tal cuojo, perocchè riesce invincibile. Hanno esse il corpo come un asino di Soria, la testa come il toro con due corna da caprina. Hanno le gambe come il leone, ed ogni piede un’unghia anche come di leone, benchè il leone ne abbia cinque, e questa non ne abbia che una alla punta, e non cavata di dentro. La schiena hanno arcata come il delfino, e il mezzo della schiena vuoto a modo di mascella. Sono senza denti, e colla mascella di sopra, e così di sotto, tutto di un osso, ed è solita a pascersi di erba. Di questi animali ve ne hanno assai in India, e dissero le guide che quella era in amore, epperò aspettava di combattere.
Morta quella bestia, cavalcarono verso la regione abitata dai Picinagli tartari, che raccolgono il pepe, e cavalcando trovarono molte noci di quelle che noi diciamo moscate, le quali nascono come fra noi le nocelle, ed è così odorifera questa foglia fresca di fuori, come la noce al di dentro. Trovarono ancora noci grandi e grosse più che uova d’oche, le quali noi d’Europa chiamiamo noci d’India. Videro ancora la montagna Vespericus, e la sua natura. Di là giunsero alla città Selepura, dove le genti sono meno selvagge, negri e piccioli di statura, doviziosi di biade e di bestiame, e molto ignoranti delle cose al di fuori, perocchè assai maraviglia facevano di quegli stranieri. Passata questa arrivarono in tre giorni ad un’altra città detta Canogizia. Molte ville e bestiame trovarono quivi, e molte spezierie, con arbori e noci di molte qualità, e pepe lungo. Dormendo una notte nella città di Canogizia, videro, come fu serrata la porta, accendersi il fuoco verso la montagna Vespericus, del qual fuoco non vedevasi il fine. Allora pareva che ardesse tutta la terra, ed in cielo tirava gran vento d’ostro. Il Meschino domandò di tal fuoco la cagione, che era maggiore al piano che alla montagna. Que’ del paese risero della dimanda del Guerino, maravigliando come e’ non sapesse quegli essere i Picinagli che andavano cogliendo il pepe. Gli dissero la natura del paese, cioè che gli alberi del pepe non sono troppo grandi, e spandono i rami tanto attorno, che per la loro caldezza niun albero può stare appresso, perchè lo fa seccare, ed il calore mena in quelle parti molti serpenti. Intorno a quegli alberi nascono molti erbaggi, e certi spiriti sottili, per cui sotto vi sono molti vermi. Ed è quando il sole entra nel segno di vergine, il quale è molto arido e secco, che tutti questi erbaggi si seccano, ed il pepe maturasi. Che dirai tu, lettore, quando saprai che il primo vento che levasi in tal tempo dall’ostro, in una sera mette fuoco a più miglia di terreno? Il Guerino allora dimandò il perchè si accordano tutti a un tratto, e se tra loro era legge di mettere fuoco ad un’ora? Risposero no, ma la cagione era, che se il fuoco non si mettesse ad un tratto, la verminaglia che fugge il fuoco, andrebbe nella parte dove non fosse fuoco, e che gli altri vicini non vorrebbero che si mettesse fuoco da noi, acciò la verminaglia non tornasse in su, non potendo altrimenti raccogliere il pepe, epperò stanno tutti attenti ad un’ora. Richieseli poscia il Guerino della natura di questi Picinagli, e fugli risposto essere uomini selvatici, i quali portano il pepe a molti porti di questi fiumi, in cambio del grano, del bestiame, della confezione, del panno di lino e delle ferramenta, ed abitano per le tane delle montagne appresso a’ fiumi, ed in questo paese non può vivere altra maniera di gente, sia per la terra come per l’aere o per l’odore del pepe. Ancora dimandò se il pepe è così negro avanti che si metta fuoco, e fugli risposto che no; ma che il fumo ed il fuoco lo faceva negro. Il Meschino soggiunse: «Io credeva che questi Picinagli fossero piccioli per quanto mi fu detto in Grecia». Risposero anche di no, ma però essere minori di quei d’Etiopia. Disse il Meschino avere già letto che questi combattono con le cicogne. L’altro, con cui parlava, se ne rise, e disse: «Dimani o l’altro, che il fuoco sarà raffreddato, verranno essi a mettersi sotto gli alberi, e si vedranno in questo paese gran quantità di cicogne, che vengono per pigliar quei vermi, come son seppie, picciole rane e biscie. Ma questi Picinagli le scacciano, ed alcuna volta nello scacciar le cicogne, queste si rivolgono contra loro, perchè son piccioli, e questa è la battaglia che fanno». Dopo queste e molte altre parole intorno alla natura di quel paese, determinarono di partirsi da questa città; e partiti da questa città, trovarono molti cammelli da portar soma, come muli ed asini, giacchè i somieri per que’ paesi tutti si servono di cammelli e cammelle grandi come buoi. Di fatti hanno piedi bovini, e spongoli e corna, e quindi rossi come di pelo bovino. Hanno il collo lungo circa due braccia, testa picciola, e occhio ovario, orecchie piccole e corte con poca coda, e sul mezzo della schiena un globo. Sopra questi cammelli videro essi cavalcare i Picinagli, e fu loro detto che quegli uomini per tre anni lavorano ed hanno figliuoli, e che in questa regione, dove è Canogizia, si è vecchio a nove anni. Presso a Canogizia videro molte altre città, e di là passarono nella regione detta Calcitras.
Entrati nella regione di Calcitras, convenne passare per più d’una giornata lungo una gran selva, onde andare alla città Consapi. All’uscire della selva, una fiera bestia assalì il Meschino. Era tanto snella e leggiera che mai non la potè offendere, anzi essa molte volte lo assaliva. Per questo il Mediano tremava di paura. Il Meschino all’incontro pensò meglio di scender da cavallo non potendosi vendicar altrimenti, e dato elmo e cavallo al Mediano, trasse la spada ritirandosi indietro. Quando la bestia il vide a piedi, mise tutta la sua possanza addosso a lui, e andavalo circondando d’intorno, spesso assalendolo. Era tanto destra che egli non la poteva giungere nè toccare, per cui avrebbelo stancato in modo che sarebbe caduto in terra, se non che il Signore Iddio gl’ispirò di gettarsi in terra rovescione, tenendo sempre la spada per difendersi. Come la bestia il vide in terra, se gli gettò addosso, e prese lo scudo colla bocca, crollando rabida la testa. Ma trovatolo sì duro, il lasciò per partire. Il Meschino, vedendola rivolgersi indietro, tagliolle in tutta fretta colla spada una gamba, sicchè ella cadde a terra senza aver più forza a muoversi. Levatosi allora il Meschino, le diede più colpi per modo che la ridusse a fine. Poi la guardò tutta com’era fatta, e vide che il suo corpo era tutto leonino di molto fiero aspetto. La sua testa era come d’uomo con tre ordini di denti, e gran presa di bocca. La voce ancora d’uomo che non s’intendeva, e molto forte soffiava, come fanno i serpenti. Le gambe e le zatte leonine con gran presa d’unghioni, poca e corta coda, pelle di colore di lupo, e folto e irsuto pelo. Cosa strana a vedersi!
Uccisa questa bestia chiamata Hermaticor, andarono ad una città detta Alfagas per lo fiume Doanas, e qui raccontato l’accidente, fu fatto al Meschino grande onore, tutti facendosi stupore di lui e delle cose che udivano, maravigliandosi tanto più che la fiera non li avesse tutti mangiati. Tre giorni passati in Alfagas onde riposare da tante fatiche, dimandò a quella gente il cammino per andare agli Alberi del Sole e della Luna. Fu loro indicato di non andare su pel fiume Doanas, il quale entra nel fiume Vospor, perocchè sono grandi selve le quali durano più di cinquecento miglia, e dove si trovano diverse fiere selvatiche e molte femmine e uomini contraffatti dalla natura umana, una razza di smisurati serpenti, tigri, molti elefanti selvatici, leoni e leopardi. In questa selva fra gli altri animali ve n’ha una specie che è di grandezza di quattro elefanti. Queste bestie hanno il collo lungo otto braccia quando lo distendono, ma sono solite a tenerlo raccolto nel corpo, tanto che appena si vede loro la testa. Non hanno i denti come gli elefanti, giacchè ogni lato della mascella ha dei denti come il cinghiale, acuminati e grossi proporzionalmente alla loro grandezza, e sporgenti quattro palmi fuori della bocca. I piedi hanno larghi, e per ciaschedun piede hanno tre unghie grandi e uncinate. Dissero inoltre che in certe montagne di questa selva v’erano uomini selvatici che hanno la testa e la bocca come i cani, chiamati Cinamomi. E in certe parti più verso dove si leva il sole, si trovano uomini che hanno i piedi corti di dietro. Pure sul fiume vi hanno uomini alti da un piede solo, il qual piede hanno sì grande, che quando riscalda troppo il sole, si levano il pie’ sopra la testa, e si fanno ombra. Questi uomini son chiamati Monopedi. Soggiunsero che que’ del paese, dove il fiume Doanas entra nel mare Indo, erano uomini d’un sol occhio nel petto, perchè in capo non ne hanno, e peloso il viso e tutto il corpo; traluce loro il pelo come oro. E’ corrono molto forte, poichè hanno quattro gambe come i cavalli. Questi uomini il più del tempo stanno in acqua. Molte altre cose intese da loro il Meschino, che più non fa di ricordare, e per cui fecesi insegnare altra via per passare il mare Indus, dove abitano molti popoli cristiani, saraceni e pagani, e vi sono infinite città belle, ma gli uomini tutti negri pei gran caldi che vi regnano.
Partiti da questa città, e lasciato il mare Indo verso levante, presero il cammino giù pel fiume Arancurea, il quale nasce da una montagna domestica dell’Arabia felice.
In sette giornate giunsero a Frigarica, città ben popolata d’uomini negri di bella statura, tutti cristiani e buoni mercanti. Quasi tutti gli abitanti di questa regione sono cristiani della cintura, ed in parte cristiani del fuoco. Partito il Meschino di Frigarica, andò ad una città d’una regione molto grande, appartenente all’India, chiamata Tigliafa, da cui tutto il regno riceve il nome. Que’ di Tigliafa vivono a popolo, e tutti sono cristiani, come di sopra è detto, per lo che quando udirono che essi pure erano cristiani, fecero loro tanto onore che lingua umana nol potrebbe dire. Si rallegrarono poi molto conoscendo all’abito esser uomini avvezzi alla guerra e ben armati, conciossiachè quella gente avesse in quel tempo intrapresa una gran guerra coi Saraceni, i quali si erano a loro ribellati.
- ↑ Vedi quanto sopra si è detto intorno al Caucaso. In queste montagne la tradizione favolosa dei primi popoli pone i giganti. Due cose meritano la nostra attenzione, la favolosa geografia sparsa qua e là nei romanzi del medio evo, comune a tutti i popoli nascenti, e come ogni nazione prende i principj dai diluvj insieme e dai giganti, come la greca e la sacra istoria pienamente dimostrano. Di giganti siffatti fu sparsa la terra dopo il diluvio, e i filosofi ce li mostrano anche nella vecchia storia d’Italia, chiamando figliuoli della terra i popoli antichissimi dell’Italia detti Aborigini. Cesare e Tacito parlano della gigantesca statura degli antichi Germani. Procopio la riferisce anche a’ Goti, e molti altri ad alcuni Americani che si credono presso lo stretto di Magaglianes. De’ quali giganti si sono trovati sopra i monti i vasti teschi e le ossa d’una sformata grandezza, la quale poi con le volgari tradizioni si alterò all’eccesso. A questo riguardo, da quanto dice Vico nella sua Scienza Nuova, appare che essi erano uomini di più ferina e bestiale educazione degli altri, mostrando come gli Ebrei con la pulita educazione e col timore di Dio e de’ padri abbiano durato nella loro giusta statura, all’incontro degli autori delle nazioni gentili che furono tutti giganti. Ed è da questi uomini stupidi, insensati, ed orribili bestioni, ovvero dall’età dei giganti che incomincia ogni storia umana, che comincia la greca storia come quella del medio evo, avendo questa come quella la sua favolosa età degli eroi, quella tramandata fino a noi da Omero, e questa conservata nella storia di Turpino, come un poema omerico da Vico stesso appellato. Dopo quest’osservazione parrà pienamente quanto utile sia l’investigare i nostri tempi oscuri, i quali racchiudono molta sapienza, e sono sorgente di grandi cognizioni a chi s’addentra nella filosofia dell’umano progredimento.