Grotta di Frasassi nei subappennini dell'Italia centrale/Testo
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L’occupazione straniera è l’ignominia più grande che possa una nazione subire, e la nostra patria lo sa per prova di molti secoli di servaggio!
Volgeva l’anno 1179 quando Federico I Imperatore colle sue soldatesche invadeva l’Italia, e le orde tedesche in Toscana e nell’Umbria osavano perfino deridere gli Italiani come gente pusillanime, senza forza, senza esperienza nelle militari discipline. Un giovanetto diciasettenne, leggiadro e gentile, mal soffrì l’insulto al nome italiano, e sfidò in Perugia a singolar certame Ulrico, uomo fra gli Imperiali assai prudente e valoroso. Sulle prime questi ricusò accettare la sfida, ma vinto dai rimproveri e dalle minaccie si dichiarò pronto alla pugna. Era Ulrico di gigantesca statura e di aspetto terribile; di più vantavasi avere ucciso moltissimi cavalieri nelle battaglie. Il giovanetto invece non erasi mai esposto ad alcun fatto d’arme, ma per una maschia educazione era stato fin da fanciullo addestrato in maneggiare armi e cavalli, non che a vestire costantemente corazza e maglia, e crebbe agile e robusto. — Fissato il giorno del combattimento, il popolo trepidava per la sorte del prode garzoncello. Combatterono tutto il giorno; il giovinetto evitando maestrevolmente i furiosi colpi dell’avversario potente, potè ferirlo nel petto ed in una spalla. La notte pose fine al certame. Nel dì seguente si tornò all’assalto, e nel mezzodì Ulrico cadeva esanime al suolo. Questa vittoria fu stimata dai Tedeschi caso, non già arte e valore, ed Ermando capitano imperiale si offrì di provarlo in isteccato ad onore del nome germanico. Fu stabilita Siena per luogo del combattimento in cui il giovanetto riportò una sola ferita mentre con ammirabile prontezza recise il capo ad Ermando. In seguito capitanò in Asia valorose schiere e là pure fece prodigi di bravura. Rimpatriando e precisamente nel porto d’Ancona, miseramente annegò. A suo onore lo Scevolini scrisse un epitaffio in versi onde perpetuare del prode ed infelice giovanetto le chiarissime gesta.
Questo eroe era Guido dell’illustre e nobile casa dei Conti della Genga, Castello sul Sentino presso la via provinciale tra Fabriano e Sassoferrato. Narrasi che questa distinta famiglia avesse origine ai tempi di Pirro da Manlio Lucio Conte Sentinate. Nel 1300 ebbe Ercole, che rese in Italia chiaro ed illustre il suo nome come valoroso capitano; Leonora, gentile poetessa; Contuccio, di cui celebrò le lodi Niccolò Piccinino, e finalmente Annibale che venne elevato alla dignità di Pontefice Romano col nome di Leone XII.
La montagna di Frasassi che, secondo l’insigne geografo Strabone, offre in Italia uno spettacolo, il più bello che possa presentare la natura, è nel feudo dell’illustre famiglia Della Genga, alla distanza di kilometri nove da Fabriano ed altrettanti da Sassoferrato, in quel punto dove il fiume Sentino s’apre un varco per unirsi all’Esino. Quivi avvennero fatti d’armi fra Galli, Sanniti e Romani. Quivi Totila re dei Goti si difese da Narsete. Quivi finalmente la Repubblica di Fabriano mosse in più incontri guerra ai pacifici Conti della Genga per disputare ai medesimi il possesso di questi luoghi, quando il sacro nome di libertà non era compreso se non nel diritto della forza brutale esercitato con ignominiose contese fraterne. Narrata per sommi capi la storia del luogo e dei nobili abitatori di quelle contrade passo alla descrizione.
Una tradizione costante esaltata da mille idee spaventose asseriva che a nessuno era dato penetrare nel fondo di una grotta ivi situata. Io più volte mi era recato in quel luogo, ma nei giorni di festa, e senza essere preparato ad intraprendere una minuta ispezione, mancando di quegli attrezzi necessarii a premunirsi da qualsiasi pericolo. Scegliendo l’epoca in cui non vi era la molesta presenza degli innumerevoli pipistrelli che annidano in quella caverna, il 9 marzo 1874 in compagnia dell’egregio amico sig. Giuseppe Nicoletti Direttore dell’Istituto Giannini in Pergola e del mio nepote Giuseppe Marini, mi posi in viaggio per effettuare la desiata ispezione. Ci munimmo di tutti gli attrezzi necessari, quali sono picconi, corde, torcie, candele, bussola, e di quant’altro stimammo necessario alla buona riuscita dell’impresa. Giunti a Frasassi facemmo arrestare la vettura, sul famoso ponte di Bovesecco, opera stupenda di architettura, costruito per ordine del Papa Leone duodecimo. Qui trovai due miei coloni spediti avanti, ed il custode della Grotta già prevenuto dal signor Tito Garducci agente dell’illustre famiglia Della Genga. Noi c’incamminammo per la via che quell’antichissima famiglia rese accessibile. Le traccie delle mine e dei picconi che resero più spazioso e comodo quel sentiero si scorgono un kilometro prima della grotta, e qui appunto regna un orrido maestoso che arresta lo sguardo del passeggiero, e l’obbliga a rimanere estatico. — Il monte che appartiene alla catena dei Subapennini si divide in due quasi ad arte, per dare il passo al fiume Sentino che nel mezzo vi scorre. Superbe si ergono le opposte balze che mostrano le cime di folta verdura. Il masso è uniforme di carbonato calcare, tinto a striscie dalle acque che vi grondano, o pei licheni che lo colorano, o per altri principii minerali. — In certi punti è tagliato perpendicolarmente dalla cima al fondo, in altri osservansi cavità ronchiose, enormi prominenze. Il fiume serpeggiando lambe la falda e qualche volta sembra, in causa dei suoi giri bizzarri, che tra gli scogli si perda. Le ombre grandiose prolungate dagli elevati culmini, la luce che rallegra gli opposti balzi, i forti riflessi rappresentano nell’orrido scene piacevoli e stupende quali solamente l’ardito pennello di Salvator Rosa seppe riprodurre nelle sue magiche tele. Se volgesi indietro lo sguardo dopo essersi alquanto internati in quelle balze, sembra chiusa la via, e il viaggiatore trovasi circondato da ogni parte da quei giganteschi macigni. — La solitudine e la quiete vi regnano e producono nell’animo una soave malinconia. E se mai odesi un qualche suono, è del ruscello che si rompe fra i sassi, è dell’agile garrulo rampichino. Stilla ancora in qualche angolo inaccessibile il miele che l’ape industriosa in popolati alveari ha disposto. Il falco e l’aquila nelle più recondite ed elevate screpolature vi adattano il loro nido.
Percorso il sentiero, apparisce, attraverso un cancello che serve d’ingresso al recinto, la vista meravigliosa e stupenda dell’antro imponente che io tento descrivere, ma che non è possibile riprodurre a parole, tanto ne è la magnificenza.
Per un grande arco esposto al Sud s’apre la vasta caverna larga ed alta metri 24 circa, profonda 48. Le mezze tinte delicatissime che la abbellano ora di un pallido color di rosa or di perlino e d’altri mille colori; le piante sparse con giusta economia fra le fessure rivestite di un verde costantemente languido; le tortuose striscie alabastrine formano il più semplice come il più nobil ornamento dell’immensa caverna.
Nel mezzo di questa grotta sotto la gigantesca volta sorge un tempio, opera elegantissima dell’insigne architetto Valadier che si acquistò gran fama per molti lavori eseguiti in Roma ed altrove, ma specialmente nella costruzione della Villa al Pincio. Il tempio è di forma ottagona, il suo diametro misura metri 10, 50 ed è sormontato da una cupola la cui croce tocca quasi la volta. L’edificio è fatto con massi di travertino bianchissimo, simile al celebre carbonato che all’Inghilterra diede il nome di Albione. Nel centro del tempio vedesi un altare di alabastro, marmo che si rinviene sul luogo, e sopra l’altare havvi una statua della Madonna col Bambino, opera dell’immortale Canova. In un lato della grotta ammirasi l’antica cappella dove trovasi un’immagine di Maria festeggiata solennemente in tutte le domeniche di giugno con straordinario concorso di popolo. In quello stesso punto vedesi un’altra grotta non molto profonda, ma che richiama l’attenzione del visitatore per la svariata disposizione delle arcate, per l’edera brunita, il capelvenere e la ridente verdura che l’adornano. Qui è una limpida e fresca fonte, la cui stilla cadente viene raccolta da un sasso ridotto a maniera di bacino. Nel fondo della grotta circoscritto da un altipiano a guisa di anfiteatro s’apre la profonda caverna che noi intendevamo d’ispezionare. — L’apertura è in alto al livello del soffitto larga metri 6 per metri 3 di altezza. Vi si accede per piccoli viottoli obliquamente salienti. Sul limitare godesi una vista sorprendente. Gli avanti, per esprimermi coi termini dell’arte, campeggiano sugli indietro, e questi graziosamente risaltano nel buio. La luce che vi entra tagliente ad angolo i primi oggetti rende fulgenti; lascia, i più lontani nell’ombra e solo pei rifiessi si distinguono; per cui si ammira un graziosissimo chiaro-scuro.
Erano le 12 meridiane quando accese le torcie e provvisti degli oggetti necessarii c’incamminammo per quella cieca via. Sul limitare trovammo le traccie di recenti escavazioni praticate da illustri scienziati. Frantumi di ossa umane, di antiche stoviglie e segni del fuoco lasciano campo a mille investigazioni che la scienza od una fervida immaginazione possono solo spiegare.
Procedendo oltre, il custode ci avvisò che un anno fa, un pelottone di bersaglieri dell’esercito italiano riuscì a trovare un pertugio in cui tutti i soldati penetrarono, ma che con somma meraviglia, di tale foro si perdette la traccia. Fattane accurata ispezione, il signor Nicoletti potè rinvenire quell’ingresso scabroso e animosamente vi discese. Benchè con qualche difficoltà, lo seguii anch’io con gli altri compagni. Breve fu l’ispezione poichè nulla in quell’antro trovammo di pregevole. Retrocedendo risalimmo ed io per primo vidi gli altri sortire colla face, pallidi per le esalazioni della resina e quali ombre che sorgono da uno scoperchiato avello. — Riprendemmo il cammino nella grotta principale che per lungo tratto corrisponde all’ampiezza dell’atrio. Perduti intieramente i raggi di luce incomincia un’ascesa incomoda perchè molto erta. Si giunge ad una sala che stendesi in giro. Il cammino percorso è di metri 229. Qui si trovano tre aperture. In quella di fronte incontrasi una rapida salita che a poco a poco si va stringendo, e tanto che un uomo appena vi può entrare, procedemmo ancora per poco, quindi tornammo indietro perchè il custode ci avvertì che quella non era la via principale e che per conseguenza non aveva alcuna importanza. L’apertura destra si ripiega in sè stessa; sicchè il proseguimento del cammino per la nostra ispezione ci fu indicata nella parte sinistra. Calcare dissi essere il monte, e questo principio predomina costantemente in ogni parte. Scabroso, ad angoli, disuguale è l’interno; spesso presenta svariati pertugi, talora s’innalza a considerevoli altezze; talvolta poi si abbassa e tanto da costringere il visitatore a camminar carponi. Spesse volte gronda filtrata nel masso la pioggia e per quelle punte che alla rinfusa sporgono, compone mille stalattiti. Di forma sono tanto dissimili quanto diverse le direzioni dell’acqua che lentamente discende. Così pure le stalagmie, che trovansi sparse pel suolo, alabastrine colonne, piedistalli, basi, ed innumerevoli scherzi della natura si incontrano. Tali composizioni risultanti dalle stille grondanti, figlie dei secoli, vedonsi meglio nelle piccole grotte che ad ogni passo si presentano. Elegantissime sono quelle che vedonsi nelle arcate irregolari, in modo vario sospese come drappi smerlati. Le ineguaglianze sassose tormentano il piede, l’umidità facilita lo sdrucciolamento e vien reso più frequente dallo sterco dei pipistrelli primi e soli abitatori del luogo. Proseguendo l’antro si abbassa così che ad una persona appena è dato di passare in piedi. Trovansi varii sentieri, ma la strada pricipale conduce ad una spaziosa sala dove il suolo è ineguale, perchè profondo alla destra, ammontato negli angoli. Gli escrementi dei pipistrelli sono in tanta copia da rendere malagevole il cammino. Come dissi, in quest’epoca e fino a primavera inoltrata io sapeva che non vi sarebbero stati quegli animali, ma il custode ci disse che durante l’estate nell’immensa soffitta della sala havvene uno stuolo innumerevole, e che i medesimi vi stanno attaccati alle sassose punte strettamente gli uni agli altri uniti a guisa di sciame, ricoprendo d’ogni intorno la volta della tetra caverna. In remota età si estrasse gran parte di quegli escrementi per uso dell’agricoltura ma con poco profitto, essendo stato quel concime non convenientemente adoperato. Recentemente ne fu fatto commercio e sempre con incerto guadagno per ispesa del trasporto. Lungo il percorso cammino leggonsi molti nomi e date, incisi sulle pareti, e disegnati col fumo della candela sul soffitto.
Dal salone delle nottole si prosegue per lungo tratto a discendere; a poco a poco diminuiscono le traccie dei pipistrelli e le iscrizioni. Continua l’incomoda discesa indi si ascende. Le stalattiti si vedono più spesse, più colossali e belle; la strada comincia a restringersi, ogni segno di animale vivente scompare. Il custode ci annunziò che egli più innanzi non era mai penetrato, e che in questo punto era giunto solo un anno fa in compagnia di un francese che desiderò visitare quei luoghi. Io sentiva che ancora si respirava bene e che pericoli non vi potevano essere andando innanzi, seppure fosse stato possibile. Esaminando la località mi fu dato rinvenire una fessura, vi cacciai la torcia per misurarne la profondità, e visto che metteva ad un nuovo antro praticabile, mi vi lasciai cadere. Disgraziatamente l’occhio erasi ingannato, le mie gambe erano molto più corte di quello che sarebbe stato necessario e caddi facendomi una distorsione al ginocchio, la quale sul momento mi dette poca molestia. La grotta era angusta e conveniva procedere carponi. I compagni e per primo Nicoletti mi seguirono. La corrente dell’aria cominciava a indebolirsi, segno evidente che si era prossimi al fondo. Un sudore copioso ci copriva la fronte, e riescendo affannosa la respirazione in causa ancora del fumo delle torcie a vento, ordinai che si spegnessero subito, e si accendessero invece candele di cera, tenendo sempre pronti i fiammiferi. Sembrò non garbar tanto l’ordine a mio nipote, ma ubbidì. Questo veramente fu un istante poco piacevole, trovandoci fra quell’orrido quasi al buio. Proseguimmo a camminare carponi finchè ci trovammo a capo della via. Esaminato attentamente ogni angolo non fu possibile rinvenire alcun pertugio; decisamente noi eravamo giunti al fondo della grotta, meta desiderata. Incidemmo le nostre iniziali sul sasso, quindi retrocedemmo. Ci sembrava di essere chiusi sotto la volta di un forno di forma però irregolare. Allorchè arrivai al posto dove fatalmente nel discendere caddi, non trovava il modo di uscire, tanto era angusta la fessura per la mia corpulenza, se la mano pietosa dei compagni non fosse venuta in mio soccorso. A poco a poco risalimmo per le traccie lasciate nell’andare; si cominciò a respirare un’aura più libera, un raggio di luce cominciò a rischiararci il cammino. Nel mirare distinti gli oggetti, nel risentire il puro spiro dell’aria accelerammo il passo, e lieti sulla soglia ci assidemmo a ristorarci.
Questa visita smentisce la volgare opinione di leggende fantastiche intorno a questa grotta, che è certamente meno profonda di altre rinomatissime. È un fatto però che il suolo incomodo, la totale mancanza di luce, il timore, la stravagante novità degli oggetti danno a tale caverna un carattere assai singolare.
Non posso affermare che non trovisi altra via nascosta la quale conduca ad una maggiore distanza; con sicurezza però ritengo anche sulla fede del custode, che da mezzo secolo conosce e percorre quella località, che la più vasta direzione corrispondente alla grandiosita dell’atrio è quella da me esplorata. Forse la nausea e le cattive esalazioni prodotte dai pipistrelli, l’arduo cammino, l’orrore del sito avranno trattenuto i curiosi meno arditi a penetrare sino al fondo; cosa che a noi fu concessa e per essere provvisti dell’occorrente e per avere scelta un’epoca in cui mancava la presenza di quegli animali notturni.
Raggiunta la vettura ritornammo alle ore 9 pom. a Pergola d’onde eravamo partiti alle ore 5 antim.
Stanco pel viaggio andai subito in letto, ma l’indomani non potei rialzarmi. La distorsione al ginocchio cagionatami dalla caduta mi recava un dolore insopportabile il quale mi tenne fermo in letto per ben 20 giorni.
E dal letto io dettai queste rimembranze di una gita che a me ed ai compagni lasciarono un piacevole senso non disgiunto da tetre impressioni per la vista di cose, nel loro orrido, oltre il dire leggiadre.
ASCANIO GINEVRI BLASI