Gli amori/La Jettatrice
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LA JETTATRICE
Carissima Contessa,
Ella ha riassunto in un quadro di fortissime tinte quelle quattro idee che io sono venuto enunziando. Pare dunque che Schopenhauer possa andare a riporsi, giacchè il celebre filosofo misogino è stato di tanto avanzato, che si può, anzi si deve oramai considerare come la stessa galanteria, come la cavalleria personificata!... Infatti: le donne prima di tutto non amano con tanta anima con quanta gli uomini; ma viceversa sono anch’esse, all’occorrenza, sensuali e libertine. Ciò che cercano, negli uomini da amare, non è la morale altitudine, ma semplicemente la bellezza tutta materiale. Esse sono, nei loro amori, venali, e spingono la venalità fino a reclamare ciò che loro viene. Tra quelle che si fanno pagare per vivere e le altre che esigono il prezzo come segno del loro valore non c’è differenza di sorta... «Sia lodata la sincerità!...» ella esclama «Bene, benissimo!... Avete finito? C’è ancora dell’altro? Mi pare, veramente, difficile. Credo che oramai avete vuotato il sacco. Sapevo, perchè me l’avete molte volte ricantato, che uomini e donne non possono intendersi e che s’accusano a vicenda e che stanno insieme come gatti e cani, ad eccezione di quei rari momenti quando stanno come gatti e gatte... Ma non imaginavo che da parte degli uomini si potesse spingere tant’oltre l’odio e il vilipendio. Avete almeno finito?...»
No, contessa; non ho finito. C’è proprio dell’altro. Pensi un poco, o meglio rammenti ciò che le ho detto in principio: come i confessori, i cantastorie odono, molte volte senza volerlo, una quantità di fatti che gettano sprazzi di luce nei tenebrosi recessi dell’anima umana. E mentre il dovere professionale dei confessori consiste nel custodire gelosamente le confessioni, i novellieri hanno il dovere contrario: di ripeterle, di propalarle. Il risultato è poi tutt’uno; perchè, se i Padri spirituali hanno da trovar parole ed argomenti per lenire le anime piagate, il narratore che rivela a un pubblico più o meno largo le miserie delle quali è stato spettatore, acquista ai dolenti l’indulgenza pietosa, la commossa simpatia dei simili. Ora, fra le molte amare confidenze che io ho udite, questa che ora le riferirò è amarissima, e rivela fino a quale estremità può andare l’odio degli uomini per le donne, in che corrosivo e dissolvente sentimento può mutarsi l’amore che dovrebbe legarli.
Dunque l’inverno passato io tornavo a Napoli dopo un’assenza di parecchi anni. Molte cose di quel caratteristico paese mi fecero quasi lo stesso senso che fanno la prima volta. La credenza alla jettatura, la paura dei jettatori m’impressionò specialmente. Ella non sa a che punto arriva, com’è funestata la vita di quegli sciagurati ai quali si attribuisce il fascino maligno. Evitati, sfuggiti, aborriti come la peste, senza un amico, col vuoto sempre d’intorno, se per loro disgrazia hanno da guadagnarsi la vita esercitando una professione si vedono alle volte messo in forse il pane quotidiano, sono costretti a espatriare, così grave è il terrore che incutono. Spettatore di questo terrore che un tempo mi pareva inumano, io ora lo provo a mia volta. Non credo già che vi siano uomini nativamente dotati del potere di nuocere, ma credo che questo potere possa essere acquistato — precisamente da quelli ai quali è attribuito. Perchè uno ha la pelle colorita d’una certa tinta; perchè ha il naso conformato a un certo modo; perchè, essendo miope, porta gli occhiali; certe volte senza nessuna di queste ragioni, si vede messo al bando dall’umano consorzio, si sente odiato da tutti; egli non può accostar le persone, non può salutarle, non può neppure incontrarle senza che tutti imprechino contro di lui; la sola sua vista è una sciagura. Non è naturale che l’anima di costui s’abbeveri di fiele e che tutta la sua volontà debba tendere a esercitare veramente il funesto potere che realmente non ha? E se c’è una forza psichica che si proietta fuori dell’anima ed opera nel mondo della materia, la tensione dell’esasperata volontà non potrà essere veramente efficace? Se pure questa forza non esiste, la disposizione a compiacersi nel male, a commetterlo realmente, occorrendo, per vendetta, per rappresaglia, non ci deve rendere odiosi i jettatori e spingerci a fuggirli?... Ma io non ho ora da comunicarle le mie particolari vedute su questo argomento: ho da narrarle un fatto.
A Napoli, dunque, rividi molti amici, ma Vittorio Alfeni, fra tanti, fu quello la cui compagnia mi riuscì più cara. Alfeni, uomo per ogni rispetto superiore, crede alla jettatura in un modo affligentissimo; noi non potevamo stare insieme per le strade, in un caffè, al teatro, senza che, per pararla, egli facesse a ogni tratto un molto energico gesto, incontrando o scorgendo una quantità di facce, a suo vedere, proibite. Una sera al Sannazaro, intanto che guardavamo in giro per la sala, una dama entra in un palchetto di seconda fila, ed ecco Alfeni ripetere il gesto che sarà salutare, ma non è precisamente consigliato da Monsignor della Casa. Io credetti d’essermi ingannato: certo il preservativo atteggiamento era diretto contro l’influsso di qualche altra persona. Vi sono donne jettatrici? Il nefasto potere non è particolare agli uomini, agli uomini più brutti e sgraziati? Non bisogna avere lo sguardo losco, il naso adunco, il colorito terreo, l’andatura storta per far male al prossimo? I più spaventevoli jettatori non sono preti, gente tetra, vestita di nero, la cui vista rammenta la morte con la quale essa bazzica? La vista d’una donna, d’una dama giovine, piacente, elegante, sarà anch’essa capace di funestarci? E’ vero che quella dama guardava dietro l’occhialino e che tutti gli occhi armati di vetri sono, secondo i superstiziosi, fortemente sospetti; ma un occhialino dal manico di tartaruga bionda, ornato d’aurei fregi, maneggiato come lo scettro della grazia da una bianca mano soave, è da paragonarsi agli occhiali infissi sui nasi rostrati?... E poi, e poi... io conoscevo quella signora, sapevo quali rapporti eran passati fra lei ed Alfeni; l’amico mio mi aveva confidato, altra volta, la sua fortuna. S’erano amati, molto, a lungo; poi l’amor loro, naturalmente, era finito; come mai poter sospettare ch’egli avesse paura di lei?... Qualche giorno dopo, seduti alla terrazza del Gambrinus, vediamo passare la carrozza della dama; Alfeni mormora non so che cosa e si difende un’altra volta. Potevo dubitare ancora? Pure non mi capacitavo d’una cosa simile. Che l’amore dell’amico mio fosse finito, che avesse anche dato luogo all’odio, suo carnale fratello, avrei potuto ammettere e spiegare; ma la paura? la paura della jettatura? attribuire ad un essere che fu tanta parte di noi l’iniqua potenza, guardarsene come da un rettile?... Non potevo crederlo!... Ma noi non incontrammo mai quella signora senza che Alfeni si difendesse. Un giorno, su per Toledo, ella esce improvvisamente da un negozio dinanzi al quale passiamo: l’incontro è rapidissimo, inopinato; Alfeni non può subito mettersi sulla parata; egli borbotta un «Corpo del diavolo!» molto eloquente, schermendosi energicamente dopo che la dama è passata. Allora io non sto più alle mosse:
— Sei ammattito? Che cos’è quest’altra paura, adesso? E’ jettatrice anche ella?... — gli dico.
Ed egli, insistendo nelle tardive precauzioni:
— Perdio!... Perdio!...
— Non scherzi?
— C’è poco da scherzare, sai!
Non sapevo se alludere al loro passato; lo sdegno e più la curiosità mi spronarono:
— E quando trascorrevi la vita ai suoi piedi? O credi ch’io abbia dimenticato?...
Egli si fece così serio e buio che tacqui; poi con voce quasi brusca mi disse:
— Ti prego di non parlarmi di ciò.
— Non ne parleremo se non ti piace. Però mi pare che tu ripaghi in malo modo la felicità che un tempo godesti...
Alfeni m’afferrò per il braccio, e concitato, fremente:
— La pago, sì!... Hai detto bene!... La pago, perchè niente al mondo potrà più togliermi questa jettatura di dosso...
Non credevo neppur ora!
— Ma dici proprio sul serio? Non ti pare che sarebbe tempo di smetterla con questa indegna superstizione? Bada bene, sai, questa è la strada per la quale si va difilato alla monomania, al delirio della persecuzione...
— Ho paura.
Leggevo talmente nel suo sguardo sbigottito e nel suo accento gelato la sincerità del suo sentimento, che mi pentii delle dure parole.
— Vediamo un poco, ragionaci su! Parliamone, perchè io voglio guarirti di un pregiudizio che non ti fa onore. E’ jettatrice anche lei? Come, perchè? Che cosa ha fatto? Quali prove mi dai del suo influsso maligno?
— Le prove? Ne vuoi le prove? Non sono le prove quelle che mancano!... Ascolta un poco: nel metterla al mondo sua madre è morta! Capisci? Ha cominciato presto?... La morte, capisci?... E’ allevata da sua zia. Quando il padre la riprende con sè, la paralisi lo inchioda in fondo a una poltrona!... A vent’anni s’innamora d’un giovane e lo innamora; costui si ammala d’un male tremendo. Non può sposarla. Non la vede per molto tempo: e allora sta meglio! Si crede guarito, torna da lei, il matrimonio è concluso: ricade! Ella va a trovarlo: tre giorni dopo egli muore. Capisci?...
Io non capivo niente. Tutte queste cose m’erano note. Alfeni me le aveva altra volta narrate, attribuendo ad esse un senso tutto opposto. Allora egli s’impietosiva sul triste destino di quella creatura, della povera orfana: la morte della madre, la malattia del padre, i dolori che ella aveva patiti erano altrettante ragioni per commiserarla, per proteggerla, per amarla. La morte del giovane che aveva amato, la cui vita aveva voluto associare alla propria, spiegava i nuovi, i maggiori dolori: un matrimonio non più d’amore ma di convenienza, l’infelicità d’un marito che non diceva niente al cuor suo, la caduta con un uomo che aveva saputo farle battere il cuore... Ora anche il senso di queste cose era interamente capovolto: Alfeni continuava a addurle come nuove prove di perniciosità:
— A ventiquattro anni sposa un uomo, un galantuomo, che le vuol bene, che le dà un bel nome e una grande ricchezza, che crede d’aver assicurato la propria fortuna. Quest’uomo, dopo un anno di matrimonio, è tradito, offeso in tutto ciò che ha di più caro: nell’amore, nell’onore. Allora la scaccia: la sua casa è vuota, la sua vita infranta. Ma ella è lontana: egli torna a vivere tranquillo, se non felice... L’altro, l’amante, crede di toccare il cielo col dito: ha conquistato una bella donna, è l’eroe d’un dramma, si sente sollevato nell’altrui considerazione. Fa i conti senza la iettatura. Era ricco anch’egli, i suoi affari prosperavano: dacchè è con lei cominciano a andar male, precipitano: si rovina, fallisce, è costretto a lasciare il suo paese! Ella ha una figlia, il marito l’ha presa naturalmente con sè: ma la madre vuol vederla, vuole averla. Litiga lungamente finchè ottiene d’aver la bambina per pochi giorni, ogni tanto. Ecco sua figlia con lei: la bambina si mette a letto, febbricitante. In quindici giorni è morta: morta, capisci?
Queste cose mi venivano nuove. E Alfeni parlava con tono così raccapricciante, che mi sentii turbato.
— Quanto tempo è? — gli domandai.
— Saranno due anni.
— Tu eri ancora con lei?
— No, c’era un altro.
Allora io compresi.
— Tu parli così per gelosia di quest’altro!
— Gelosia di quest’altro?... Aspetta!... Credi che abbia finito? Quest’altro pensa anch’egli di aver toccato il cielo col dito. Io, che oramai so tutto, non provo gelosia, sento pietà di lui. Dico tra me: anch’egli la pagherà! Ma potevo sospettare in che modo? Ero sicuro che avrebbe sofferto, che gli sarebbe accaduta qualche disgrazia. Un giorno lascia Napoli, parte per Torino; non c’è ancora arrivato che il convoglio precipita fuori delle rotaie. Era uno dei più begli uomini ch’io abbia mai visti — pensa un poco se ne provavo gelosia! — e gli hanno da tagliare tutt’e due le gambe; anche le braccia, il viso, tutto il corpo è una piaga. Vive qualche tempo così, poi muore. Muore, capisci? La morte ancor, come dice Carmen!
Rise d’un riso così funebre, ch’io inorridii. Ma volli reagire:
— E poi? Che cosa prova tutto ciò? Post hoc, ergo propter hoc? Anche tu col vecchio sofisma? Tu, intanto, non sei morto: stai benone, ti prendi beffe di lei dopo esserti divertito altrimenti. Avranno ragione gli altri di crederla jettatrice, non tu!
— Io? Sai quanti anni ho io?
— Trenta, mi pare.
— A trent’anni sono vecchio come a sessanta. Questa donna mi ha corroso l’anima e il corpo. La morte è preferibile alla miseria nella quale io vivo. E guarda come costei fa a ciascuno il male più sensibile! Infama il marito e gli uccide la figlia, riduce il ricco a povertà, distrugge la bellezza di quell’altro che pareva una statua animata; a me, che non posso vivere se non col pensiero, con l’anima, ammorba l’anima, annebbia il pensiero. Non credo più a niente. Non aspetto più niente dalla vita. Non sono più capace di niente. Tutta la poesia, la fede, la speranza, son morte...
— Questo è lo scotto dei tristi amori, non è jettatura!
— E suo marito che cosa aveva da scontare? E sua madre? E gli altri?...
— Domani mi farò presentare a lei.
— Non credi?... Pensi di sfidare la jettatura?
Io pensavo in quel punto a un verso di Alfredo de Musset, un molto malinconico verso che avevo fin lì creduto espressione della verità:
Il n’est de triste amour qui n’ait son souvenir...
Io pensavo che il Poeta s’è ingannato, che vi sono amori così tristi che non solamente non hanno ricordi ma finiscono con l’inaudito sentimento al quale Alfeni era in preda...
— Allora, non vuoi credere?... — continuava egli a domandarmi; e scrollando il capo, reagendo ancora una volta contro le sue suggestioni:
— Io credo una cosa, — risposi: — che tu ammattisci!
— Allora, tu sei matto se ti senti gelare vedendo una biscia velenosa che ti guarda con gli occhi freddi? Che cosa provi per la biscia che schiacci col piede? Il ribrezzo sarà dunque da oggi in poi sintomo di pazzia?
Non risposi. Tacemmo lungamente, salendo oltre piazza Dante. Dinanzi al Museo incontrammo due graziose signorine in mezzo alle quali stava una donna sulla quarantina, magra, clorotica, con le lenti sul naso affilato, una specie di governante, uno di quegli esseri disgraziati la cui vista fa pena. Alfeni borbottò: «Oggi è giornata campale!...» e ripetè il gesto preservativo.
— Anche quest’altra?... Sono dunque molte le jettatrici?... — domandai, ridendo questa volta più schiettamente.
— Sono le più tremende, — rispose Alfeni: — credo anzi che siano le sole veramente temibili...