Gli amori/La Consolatrice
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LA CONSOLATRICE
Amica carissima,
Non abbia paura! Il mondo non è ancora presso a finire, come ella teme. Il genere umano non pare disposto a sopprimersi. Se dobbiamo credere alla statistica, anzi, si corre un altro pericolo, tutto opposto: l’evangelico precetto è sempre tanto onorato e obbedito, la popolazione universale cresce con progressione così rapida, che non è da temere che la terra si spopoli, c’è piuttosto il caso che non possa più contenere i troppo prolifici suoi abitatori. I filosofi arcigni hanno un bel dire, i narratori pessimisti hanno un bel fare: vivere e amare non è tanto increscioso come essi sostengono. Io conosco un pessimista il quale rifiuta questa qualificazione come troppo mite. «Voi dite pessimista per significare uno al quale la vita pare pessima?... Io sono orribilista!» Questo orribilista suole anche ripetere che vorrebbe avere mille vite per togliersele una dopo l’altra. Però, siccome ne ha una sola, la tiene da conto.
Se gli uomini hanno scritto intere biblioteche di contumelie contro le donne, non vuol dir niente; anzi vuol dire il contrario di ciò che dapprima parrebbe: chi ben ama ben castiga. Se essi fossero persuasi, come Simonide d’Argo, che le donne sono simili alla cagna rabbiosa, alla volpe astuta, al mare capriccioso, alla terra bruta, all’asino — parla sempre Simonide — cocciuto, alla donnola ladra, alla scimmia cattiva, alla... femmina del cinghiale domestico; se fossero proprio persuasi di ciò, invece d’assordare il prossimo con le loro querimonie, cercherebbero — e troverebbero — qualche rimedio eroico contro il mal d’amore. Ma il loro giudizio non è sempre così severo. Lo stesso Simonide noverava dieci specie di donne: io le ho riferito quali sarebbero le prime otto; il greco ginofobo aggiunge che vi sono donne le quali somigliano al cavallo dalla bella criniera e all’ape industre. L’industria e la bellezza sono qualità non disprezzabili; ma le donne non si contentano di questi attributi, e non se la prendono tanto contro gli offensori brutali come Simonide, quanto contro quei freddi osservatori i quali affermano — e provano! — che l’intelligenza e la sensibilità muliebre sono molto inferiori a quelle degli uomini. Lasciamo stare l’intelligenza, intorno alla quale c’è poco da discutere, e parliamo un poco, se non le dispiace, della sensibilità. Nessuno s’è sognato di dire che le donne sono insensibili; s’è detto che la loro sensibilità non è molto lucida o, per adoperare la parola propria, cosciente. Per escire dal dubbio intorno al loro modo di sentire, ci sarebbe un mezzo semplicissimo: potrebbero esse dirci come sentono e che cosa provano. Ma, disgraziatamente, accade che le donne capaci di dircelo sono meno donne, hanno più caratteri virili nell’ingegno e nella stessa persona, e parlano e scrivono press’a poco come gli uomini; le altre, le donne veramente donne, quelle le cui rivelazioni importerebbero, non ci rivelano niente.
Gli scrittori di professione sanno per esperienza che quando le idee o le imagini non sono ben precise, l’espressione riesce difficile, laboriosa, contorta. Precisata l’idea, fissata l’imagine, le parole vengono. Ma vi sono certe imagini e certe idee che non si possono precisare, perchè naturalmente ambigue, confuse, evanescenti; allora il tormento dello scrivere, ciò che Gustavo Flaubert chiamava les affres du style dà maggior pena. E’ credibile e verisimile che le donne si trovino ordinariamente in condizioni simili a queste: i loro sentimenti sono incerti, ondeggianti, nebulosi, inafferrabili; non è che esse non sentano, ma non sanno precisamente che cosa sentono; se le accusate di insensibilità, s’offendono, si ribellano; ma quando hanno da esprimersi, da provarvi il vostro inganno, non ne trovano il modo. Perchè mai gustano ed apprezzano sopra ogni altra arte la musica, se non perchè l’espressione musicale è appunto imprecisa, ambigua, indefinibile come tutto il loro sentimento? Di tratto in tratto, quando meno ce lo aspettiamo, esse hanno però lampi di chiaroveggenza, intuizioni rapide, nitide comprensioni; e allora ci stupiscono e ci deliziano. Hauptig di Mannheim, celebre artista, mi riferì una volta un motto femminile di rara bellezza. Egli aveva un’amica, una povera modella, semplice, ignorante, primitiva. Gli voleva bene come il cane vuol bene al padrone, senza saperglielo dire. Una volta Hauptig — credo che già ella lo sappia — dovè venire in Italia, stette un pezzo lontano da lei, e fu anche ammalato. Non le scrisse, non sapendo che cosa dirle, non sentendosi disposto a strizzarsi il cervello per scrivere una lettera tanto pedestre da esser capita da lei. Di ritorno a casa, narrò alla modella il male sofferto. Ella giunse le mani, impietosita, dolente, esclamando:
— E non averlo saputo!...
Perchè si rammaricava dell’ignoranza nella quale era rimasta? Non aveva già da temere della salute di lui, ridivenuta ora perfetta. Voleva forse dire che, se lo avesse saputo ammalato, lo avrebbe raggiunto? Ma come, senza quattrini, tanto lontano? E Hauptig, curioso, le domandò:
— Perchè avresti voluto saperlo?...
Ella rispose:
— Per angustiarmi...
Adesso ella dice, cara contessa, che siamo finalmente sulla buona via. E giacchè ci sono ci resto. La modella tedesca seppe con due parole esprimere ciò che provava: il rimorso di non aver sofferto, per simpatia, per amore, mentre l’amico suo soffriva realmente, fisicamente, lontano da lei; la storiella che ora le narrerò è un poco diversa. In questo quadro contemplasi una donna che non legge nel proprio pensiero, ma nell’altrui. Abbiamo anche una diversa donna; non una semplice modella, ma una gran dama. La differenza è, però, più esteriore che intima. Questa dama è intellettualmente semplice quanto la pedina. Se così non fosse, l’esempio non vorrebbe dir molto. Noi dobbiamo prendere a esempio donne che sieno tali in ogni senso, non già quelle eccezionali e quasi mostruose creature sul cui sesso la natura par che si sia sbagliata. Dicevo dunque: una signora come ce ne sono tante. Guglielmo Valdara la conobbe in una molto triste stagione. Il cuore di quest’uomo sanguinava per un abbominevole tradimento del quale era stato vittima immeritevole. Aveva riposto tutta la sua fede in una donna, e costei l’aveva distrutta. Egli non viveva se non per lei; perdutala, voleva morire. Sarebbe morto, se pensare ancora a lei, dopo ciò che gli aveva fatto, non fosse stata una cosa amara quanto la morte. Quando egli conobbe la dama di cui vo’ parlarle, la notò appena, le disse appena qualche parola. Non poteva più notare niente e nessuno. Nondimeno la viltà di quel suo dolore per una indegna gli faceva talvolta salire al viso le fiamme della vergogna: allora egli si proponeva di strapparsi l’indegna dal cuore, di cercare e di gustare le distrazioni del mondo. Rivide la dama e s’informò di lei. Le davano molti amanti — ed ella li aveva presi, per dire la verità. Allora Valdara pensò di trovare presso di lei, se non un conforto, almeno una distrazione al proprio cordoglio. Era andato in cerca di altre donne, di mercenarie: il disgusto era stato più forte dell’ebbrezza. Quantunque la perfida avesse dimostrato, col tradimento, la nequizia dell’anima sua, Valdara non rammaricavasi d’aver perduto la persona di lei, ma quest’anima iniqua. Di simiglianti graziose contraddizioni e assurdità incredibili è pieno l’amore — com’è piena tutta la vita. Dunque, giudicando che la perfida non valesse più delle mercenarie, Valdara non voleva accostarle. Nè egli credeva di poter mai trovare nella dama con la quale tentava distrarsi le sublimi qualità del cuore e della mente che attribuiva — e negava! — alla perduta amante; ma, benchè il suo cuore restasse gelato, benchè neppure i suoi sensi ardessero, egli riconosceva spassionatamente che l’intimità di questa nuova donna valeva pure la pena d’essere acquistata. Se non che, egli non poteva fingere un amore che non provava, un desiderio che non lo struggeva. La menzogna gli repugnava; e poteva forse dire a costei il sentimento dal quale era spinto?... Così fu che, risoluto a tentare di guarirsi ma incapace di fingere, un giorno che era solo con lei — noti che l’aveva vista tre o quattro volte in tutto — durante un colloquio ch’egli procurava di rendere quanto più disinvolto gli era possibile, Valdara, cominciando ad apprezzare una cosa alla quale non era stato molto sensibile, cioè la bellezza di questa donna, una bellezza vivace, quasi direi aperta e tutta luminosa, Valdara, dico, spronato dal primo destarsi del desiderio, stese la mano per coglierla, come il viandante stende la mano per cogliere un bel grappolo pendente su da una siepe verso la via. Allora quella donna allegra e leggiera, cui tutti davano una lunga esperienza delle cose e nessuna delle idee, si schermì, si ritrasse, nè sdegnata nè offesa, e gli disse, semplicemente:
— Voi mi trattate così perchè un dolore vi rode.
Egli tremò. Non di vergogna perchè si vedeva leggere nel cuore; tremò dall’ambascia.
— Voi non vedete in questo momento, — continuava ella, — voi non potete vedere quanto dovrebbe offendermi il vostro contegno. Come siete diverso da quello che mi sembraste la prima volta!... Capii che dovevate soffrire, allora... Ed anche oggi, ciò che oggi fate mi dice che non mi sono inganna ta... Una donna v’ha tradito: è vero?... Voi piangete un amore perduto, e per guarire del vostro dolore mi trattate così...
Egli aveva propriamente gli occhi rossi di lacrime. Questo appunto gli era stato più grave dal giorno che aveva perduto l’amor suo: di non poterne più parlare, di non avere alcuno al quale confidarsi. Il suo dolore era covato in lui, s’era mantenuto e diffuso covando chiusamente. Il conforto della confidenza, della confessione, della comunione simpatica gli era mancato. Ora, improvvisamente, da chi meno egli avrebbe creduto, era compreso, scusato, compianto. Non solo quella donna non s’offendeva della brutalità con la quale egli l’aveva assalita, non solo gli leggeva nel cuore, ma esprimeva, con la voce e con lo sguardo, una commossa simpatia per il suo dolore. Le lacrime che gli gonfiavano gli occhi erano dolci, pertanto; erano lacrime di consolazione. Molto più soavi riuscivano all’anima di lui quelle parole, il sentirsi compreso da un’altra anima, l’aver trovato un’intellettiva anima dove non la sospettava neppure, che non sarebbe stato dolce ai suoi sensi dissetarsi al bel grappolo. Egli non ha mai più ritentato di stender la mano; e di questa donna, di costei cui deve la sua prima consolazione, è rimasto amico sincero e devoto, come di Lei, contessa, io mi onoro di essere.