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A vent’anni s’innamora d’un giovane e lo innamora; costui si ammala d’un male tremendo. Non può sposarla. Non la vede per molto tempo: e allora sta meglio! Si crede guarito, torna da lei, il matrimonio è concluso: ricade! Ella va a trovarlo: tre giorni dopo egli muore. Capisci?...
Io non capivo niente. Tutte queste cose m’erano note. Alfeni me le aveva altra volta narrate, attribuendo ad esse un senso tutto opposto. Allora egli s’impietosiva sul triste destino di quella creatura, della povera orfana: la morte della madre, la malattia del padre, i dolori che ella aveva patiti erano altrettante ragioni per commiserarla, per proteggerla, per amarla. La morte del giovane che aveva amato, la cui vita aveva voluto associare alla propria, spiegava i nuovi, i maggiori dolori: un matrimonio non più d’amore ma di convenienza, l’infelicità d’un marito che non diceva niente al cuor suo, la caduta con un uomo che aveva saputo farle battere il cuore... Ora anche il senso di queste cose era interamente capovolto: Alfeni continuava a addurle come nuove prove di perniciosità:
— A ventiquattro anni sposa un uomo, un galantuomo, che le vuol bene, che le dà un bel nome e una grande ricchezza, che crede d’aver assicurato la propria fortuna. Quest’uomo, dopo un anno di matrimonio, è tradito, offeso in tutto ciò che ha di più caro: nell’amore, nell’onore. Allora la scaccia: la sua casa è vuota, la sua vita infranta. Ma ella è lontana: egli torna a vivere tranquillo, se non felice... L’altro, l’amante, crede di toccare il cielo col dito: ha conquistato una bella donna, è l’eroe d’un dramma, si sente sollevato nell’altrui considerazione. Fa i conti senza la iettatura. Era ricco anch’egli, i suoi affari prosperavano: dacchè è con lei cominciano a andar male, precipitano: si rovina, fallisce, è costretto a lasciare il suo paese! Ella ha una figlia, il marito l’ha presa naturalmente con sè: ma la madre vuol vederla, vuole averla. Litiga lungamente finchè ottiene d’aver la bambina per pochi giorni, ogni tanto. Ecco sua figlia con