Gli amori/Lo scandalo
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LO SCANDALO
Ma no, ma no, mia buona amica; io non mi sono mai sognato di dire che
tutte, o la più gran parte delle mercenarie sono come quelle delle quali
le ho parlato, ancora capaci di sentimenti buoni e degne di ispirarne.
Lo scherzo è scherzo, ed ella sa, senza che io glie lo dica, a che punto
comincia e dove poi finisce. Se un certo sdegno contro i giudizii
volgari può spingere al paradosso, la verità vera non deve restare a
lungo disconosciuta, e la vera verità intorno all’argomento che oggi ci
occupa, è questa: che le mercenarie come la Toscanina e la sua compagna
dalle cicatrici sono troppo rare eccezioni; d’ordinario non accettano e
non gustano la turpe vita se non turpi creature. Tuttavia, hanno gli
uomini il diritto di disprezzarle — intendo gli uomini che le cercano e
se ne giovano? Non c’è in questa nostra società un’ipocrisia
spaventevole grazie alla quale — diciamo meglio: per colpa della quale —
i morigerati difensori della scrupolosa morale sono poi quelli che più
godono nel vizio?
Le persone molto virtuose sono sovranamente indulgenti — quando non sono spietatamente severe. E se questa sentenza le pare un bisticcio, io le dirò che ci sono diverse qualità di virtù: una arcigna, l’altra benigna; e che la virtù più vera, più virtuosa, è la virtù buona. Io credo che bisogni diffidare un poco dell’esagerazione scrupolosa. Mi pare che un’anima capace d’intendere veramente la vita debba inclinare al compatimento. E senza insistere questa volta nell’esordio, passo a narrarle una saporosa storiellina non solamente per dimostrarle questa mia idea, ma anche per darle ragione nella sua protesta contro il troppo indulgente giudizio delle donne che si vendono. In questa mia storiella vedrà una mercenaria-tipo, cioè volgare, cupida, odiosa; una di quelle per le quali non si può provare altro che sdegno — a patto di non frequentarle...
Uscivamo una sera dell’inverno passato, io ed il mio amico Baglioni dal teatro dei Fiorentini: io spettatore, Baglioni autore d’un dramma intitolato L’Onore che aveva fatto un fiasco tremendo. Il dramma era una cosa fortissima, straordinariamente bella, una vera opera d’arte. L’avevano fischiato dalla platea, dai palchi, dal loggione, tutti quanti, accaniti, feroci, inumani, perchè era immorale. Quelle poche persone non destituite interamente di senso comune con le quali avevo parlato, andando via, riconoscevano il valore dell’opera, ma disapprovavano altamente che sulla scena si portassero fatti tristi e personaggi abbietti. «Non sono neppur veri!» avevo sentito dire; «gli uomini non sono così indegni come questa nuova scuola letteraria li fa! Se pure fatti simili accadono, saranno eccezioni; e perchè mai l’arte avrà da cercare col lanternino i rari e oscuri esempii dell’infamia e della viltà, e non dovrà invece rappresentare gli esempii quotidiani e luminosi della bontà, della dignità, della grandezza?» Non avevo voluto discutere, tanto ero irritato ed offeso per l’amico mio dagli urli selvaggi, dall’osceno baccano che aveva accolto l’opera sua; se avessi discusso avrei risposto ai moralisti: «La prova della dignità, della bontà, della grandezza, eccola qui, lampante: un uomo pensa, studia, discute tra sè, giorno e notte; egli ha la febbre, non dorme, non riposa. Perchè? Che cosa fa? Che cosa vuol fare? Egli vuol rappresentare un pezzetto di vita, prendere tre o quattro creature umane e inchiodarvele lì, vive, palpitanti ed immortali! Con le parole, con segni immateriali, egli vuol darvi l’illusione della vita; l’illusione? No, qualcosa di reale, di più reale; perchè la vita passa e l’arte resta; perchè senza Dante, senza Shakespeare e senza Balzac noi non sapremmo che cosa furono e che cosa sono gli uomini! E perchè questo scrittore, questo artista, questo pensatore ha scelto male — concediamo! — perchè ha rappresentato cose non belle, costoro, i difensori della bellezza, per provargli che bisogna far meglio, lo ingiuriano, lo scherniscono, l’offendono, lo vilipendono, gli urlano dietro, lo pigliano a sassate come un cane rognoso. E chi sono costoro che si sollevano in nome dell’offesa morale? Prendeteli a uno a uno, guardate nella loro vita, cercate che cosa hanno fatto oggi, che cosa faranno stasera, stanotte, quando andranno via di qui, dopo compiuto il dovere di svergognare l’immoralità, e poi ditemi se hanno proprio il diritto di compiere questo dovere; se tutte queste reboanti parole delle quali s’empiono la bocca, il dovere, il diritto, il giusto, il bello, il buono, la dignità, il rispetto, non sono per la maggior parte di essi suoni, fiati, accozzamenti di sillabe dei quali sconoscono il senso...» Queste cose che non avevo detto ai critici le venivo ora dicendo all’amico mio, in istrada, tenendolo per il braccio; glie le dicevo perchè avevo bisogno di sfogarmi dicendole, non già perchè egli avesse bisogno dei miei conforti. Egli rideva, d’un riso schietto, d’un riso sonoro ed infrenabile. Prima della rappresentazione m’aveva, sì, espresso i suoi dubbii sull’arditezza del dramma e le previsioni della caduta; ma se ai primi sintomi del fiasco s’era crucciato come un padre che vede mal accolta la creatura sua, il selvaggio accanimento del pubblico, il rossiniano crescendo dell’indignazione, la sollevazione furente delle timorate coscienze dinanzi alla dipintura d’un fatto preso dal vero, d’un fatto disgraziatamente troppo frequente e tanto tollerato nella vita reale, lo aveva esilarato come una cosa buffa, come una caricatura morale.
— Ah! Ah! Ah!... E’ incredibile!... E’ troppo!... E’ troppo!... — esclamava. — No, senti, è troppo!... E come dò ragione a quei filosofi che fanno consistere l’umorismo, il riso, nell’effetto d’una esagerazione, d’una sproporzione imprevista!... Se m’avessero zittito o fischiato solamente, avrei pensato ai casi miei, avrei dubitato di me stesso, dell’opera mia; ma questa tempesta?... Ah! Ah! il barone di Caggiano che non m’ha salutato, hai visto? quando gli son passato dinanzi!... Don Ferdinando Acquaviva che urlava come un ossesso!... Il generale Crozio che s’è alzato ed è andato via dal palchetto di Donna Irene!.. Ah! Ah! Ah! Che bellezza! Non misuri tu la bellezza di queste cose?... Il barone di Caggiano paladino della morale!... Don Ferdinando accanito contro di me che l’ho salvato dalla gogna!... E Caggiano con lui, e il generale e una trentina di costoro che hanno creduto di mettere alla gogna me e l’opera mia!... No, è incredibile! è grande....
Non dunque la sola goffaggine dell’indignazione pubblica faceva ridere tanto Baglioni; egli aveva un’altra ragione più intima, ottenendo da tanta parte degli spettatori una insigne prova d’ingratitudine. La mia curiosità fu naturalmente eccitata da questo accenno; talchè, non appena le sue risa si sedarono:
— Come mai li salvasti dalla gogna? — gli domandai.
— Come? In un modo semplicissimo!... Ma tu li conosci, costoro? Li conosci bene? Conosci le loro famiglie, la società dove vivono?... Sai che Caggiano ha una moglie giovane ancora, bella, buona, una fenice di moglie, e due figliuole, due pure giovanette, una più gentile dell’altra, delle quali la mamma sembra la sorella maggiore?... Tu non sei stato in quella casa, non conosci la vecchia madre di quel signore, una dama del vecchio stampo, tutta dedita alle opere di carità, rimasta fedele alla dinastia spodestata, legittimista e cattolica severa e sincera?... E don Ferdinando? Lo spauracchio dei suoi scapestrati nipoti! Un altro borbonico, amico di Sua Eminenza, frequentatore assiduo di tutte le sacrestie?... Ed il generale Crozio che fa piovere gli arresti sulle spalle dei suoi poveri tenentini, solo colpevoli di avere vent’anni?... E il cavaliere Stromita, il direttore del Vesuvio, il giornale più rugiadoso, più untuoso del mondo?... E il vecchio don Gennaro Debiase, letterato morigerato, dello stampo antico, strenuo idealista e romantico inconvertibile, a settant’anni, con i capelli tinti e le unghie in lutto?... Orbene, sta un poco a sentire. Ah! Ah! Ah!...
Ricominciava a ridere, mentre ce ne andavamo per via Caracciolo, lungo il mare che ciangottava contro la riva e rompeva il riflesso della luminosa collana distesa dalla Vittoria a Posillipo.
— Sta dunque a sentire!... Quattro anni addietro, subito dopo laureato, quando ancora la mania letteraria non m’aveva ben preso, o per meglio dire quando non aveva ancora trionfato dell’opposizione di mio padre, io feci, per obbedire al desiderio di lui, il vice-pretore. Ne vidi di belle! E il motivo dell’Onore lo trovai appunto nelle severe aule di Temi. Dunque un giorno, mentre ero col pretore titolare ad accordarmi con lui intorno a ciò che dovevo fare durante la sua prossima assenza, entra l’usciere, tutto sossopra, con gli occhi spalancati dietro gli occhiali cascanti, e dice: «Signor pretore! Signor pretore! C’è una signora che le vuol parlare!...» Il mio principale domanda: «Non ne avete viste mai, che siete così sbalordito?...» E il poveromo: «Una signora, signor pretore... una signora! una baronessa!» Rido ancora rammentando con qual tono di stupito rispetto, di reverente e quasi annichilita meraviglia il povero don Pasquale riferì quel titolo: «Una baronessa!» E allora il pretore — bisogna averlo conosciuto anche lui: giovane ancora, ma unto, lurido, sbracato, con una chioma boscosa, la barba d’otto giorni, villoso fin sul naso — il pretore, dicendo all’usciere di farla p assare, si ricompone sul seggiolone, porta le mani al nodo della cravatta, ficca le dita nella selva dei capelli, cerca di cavar fuori dalle maniche i polsini dei quali la camicia mancava, per esser meglio in grado di ricevere l’annunziata gran dama. E appena costei entra, con un fruscio di gonne insaldate, appestando d’ylang-ylang la sala, egli si leva, fa un inchino spropositato, avanza una seggiola ed esclama: «Signora baronessa, voglia favorire d’accomodarsi!...» Mio caro, una scena da morire dalle risa.
«La baronessa era un bel donnone stagionato, statura da carabiniere, capelli tinti del color rame, ciglia di nero fumo, occhiaie di filiggine, labbra di carminio: tutta una pittura. Sulle forme copiose portava un abito giallo abbarbagliante, un gran cappellone nero con una montagna di penne e di fiori, grosse perle alle orecchie e guanti lunghi fino alle ascelle. «In che cosa posso servirla?» fa il principale; ed ella, con la voce professionale, dolcemente rauca, e un terribile accento francese: «Signor pretor, si c’è une giustisia al mond, i calunniator debbon andar in prison!» Il principale, sprofondato adesso nella sua poltrona, con la testa affossata tra le spalle, stende ambe le braccia e risponde: «Non dubiti, signora baronessa: c’è una giustizia, ed io ne sono un indegno ministro; ma prima di mandare la gente in prigione, bisogna vedere! Ella è stata calunniata? Come? Da chi?» E la baronessa: «Da una sale canaglia, che fino a quindici giorni addietro veniva in casa mia e mi faceva l’amico! Dopo tutto quello che m’è costato! Se gli presentassi il conto del solo champagne, non avrebbe come pagarlo, miserabile crapule!... E adesso tira a rovinarmi, a togliermi il pane, pezzo di voyou, che possa finire in galera!...» Che ti posso dire, amico mio? Il diluvio delle male parole era spaventevole. Agli epiteti più violenti il pretore emette un sst! discreto e fa con le mani il gesto della moderazione: «La prego, signora baronessa: voglia calmarsi!... E dunque, questo suo, diciamo, ex-amico, adesso vuole rovinarla? In che modo, di grazia?...» Qui ti voglio! Io che pur vedevo prepararsi qualcosa di molto incongruo, mai più avrei sospettato che razza di calunnia la baronessa veniva a denunziare. Imagina dunque che questo suo ex-amico era un giovanottino di primo volo, il quale, o per non avere come pagarla, o perchè dava noia a qualche più ricco cliente, o per chi sa qual altra ragione, era stato da lei pulitamente messo alla porta. Su tutte le furie egli pensa di vendicarsi, e che fa? Va dicendo per tutta Napoli, a chi vuole e a chi non vuole saperlo, che la baronessa ha portato di Francia e regala ai suoi clienti un ricordo che non suol essere molto gradito!... Tu vedi di qui la testa del pretore quando la dama gli spiega la cosa in tutte lettere e gli chiede che, seduta stante, egli chiami un uomo della scienza, il quale accerti la verità e confonda il calunniatore!... Essersi creduto con una vera signora, e sentirsi narrare una storia che sarebbe stata benissimo in bocca a una abitatrice di Porta Capuana!... Ma, sia onore al vero, il mio principale fu molto come si deve e continuò a darle galantemente della baronessa, significandole tuttavia, come del resto era troppo naturale, che di tutta quella storia egli non poteva tenere nessun conto se non prima riceveva una querela su carta bollata. «Una querella? E come si fa?» domanda l’altra; e il principale: «Si va da un avvocato, gli si spiegano i fatti, e al resto pensa lui.» Ora, dopo una settimana da quella scena, quando il pretore era andato via, in permesso, arriva la querela a me in persona. Amélie Bourgand, niente più baronessa, nata a Montreuil, Passo di Calais, Francia, d’anni quarantadue, di professione... tu mi capisci, sporgeva querela contro Alfonso Mantiello, per aver costui detto e ripetuto sul conto di lei, in luoghi di pubblico ritrovo ed in presenza di più persone, cose che le recavano pregiudizio e allontanavano da lei le sue pratiche: volendo dimostrare come l’accusa fosse presentemente falsa, la querelante chiedeva una perizia medica; volendo provare che era stata falsa sempre, chiedeva che il magistrato citasse e udisse in pubblico giudizio le persone ragguardevoli e degne di fede che avevano avuto rapporti con lei: il barone di Caggiano, il generale Crozio, don Ferdinando, il direttore del Vesuvio, Debiase, tutta Napoli morigerata, castigata e timorata; i rispettabili padri di famiglia, i nonni severi, gli zii scrupolosi, i moralisti, puristi, idealisti che hanno seppellito il mio dramma!... Imagina come rimasi! Io potevo benissimo lasciare che lo scandalo scoppiasse; ma tutta questa gente che la mercenaria inferocita per vedersi mancare il pane trascinava nel suo fango e metteva alla berlina, mi fece tanta pena che volli vedere di trovare un riparo. Mandato a chiamare la baronessa, le tenni un discorso per persuaderla a desistere. Desistere? Ella era pronta; ma prima voleva essere indennizzata! Voleva cinque mila lire di danni-interessi; e diceva di essere discreta! Era una specie di ricatto; ma in qual altro modo rimediare? Con belle maniere, parlandole delle difficoltà della causa, consigliandole d’evitare il chiasso nel suo stesso interesse, ottenni che avrebbe desistito contro il pagamento di due mila lire. Allora andai io stesso dal Caggiano, da quel signore che m’ha tolto il saluto, e gli spiegai il pericolo dal quale egli e tutti quegli altri erano minacciati. Costoro già si videro, con l’imaginazione, in pretura, dinanzi a un pubblico di maligni sorridenti ed ammiccanti, attestare che la baronessa non aveva dato loro... nessun regalo; già videro i giornali pieni di relazioni dell’udienza, udirono i clamori dello sdegno, del disprezzo, il coro delle risa sardoniche; pensarono alla virtù delle loro mogli, all’innocenza delle loro figliuole, alla severità dei loro amici, e si tennero perduti. Allora mi si messero a tremare dinanzi perchè io li salvassi! E udendo che bastava pagare, furono felici di cavarsela con qualche biglietto da cento. Dirti gli scorporati ringraziamenti che mi prodigarono per avere evitato lo scandalo, non è possibile. E stasera li ho io scandalizzati! Ah! Ah! Non è bello? Non è grande? Ah! Ah! Ah!...