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non col pensiero, con l’anima, ammorba l’anima, annebbia il pensiero. Non credo più a niente. Non aspetto più niente dalla vita. Non sono più capace di niente. Tutta la poesia, la fede, la speranza, son morte...
— Questo è lo scotto dei tristi amori, non è jettatura!
— E suo marito che cosa aveva da scontare? E sua madre? E gli altri?...
— Domani mi farò presentare a lei.
— Non credi?... Pensi di sfidare la jettatura?
Io pensavo in quel punto a un verso di Alfredo de Musset, un molto malinconico verso che avevo fin lì creduto espressione della verità:
Il n’est de triste amour qui n’ait son souvenir...
Io pensavo che il Poeta s’è ingannato, che vi sono amori così tristi che non solamente non hanno ricordi ma finiscono con l’inaudito sentimento al quale Alfeni era in preda...
— Allora, non vuoi credere?... — continuava egli a domandarmi; e scrollando il capo, reagendo ancora una volta contro le sue suggestioni:
— Io credo una cosa, — risposi: — che tu ammattisci!
— Allora, tu sei matto se ti senti gelare vedendo una biscia velenosa che ti guarda con gli occhi freddi? Che cosa provi per la biscia che schiacci col piede? Il ribrezzo sarà dunque da oggi in poi sintomo di pazzia?
Non risposi. Tacemmo lungamente, salendo oltre piazza Dante. Dinanzi al Museo incontrammo due graziose signorine in mezzo alle quali stava una donna sulla quarantina, magra, clorotica, con le lenti sul naso affilato, una specie di governante, uno di quegli esseri disgraziati la cui vista fa pena. Alfeni borbottò: «Oggi è giornata campale!...» e ripetè il gesto preservativo.
— Anche quest’altra?... Sono dunque molte le jettatrici?... — domandai, ridendo questa volta più schiettamente.
— Sono le più tremende, — rispose Alfeni: — credo anzi che siano le sole veramente temibili...