Atto I

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Prologo Atto II

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ATTO I

SCENA I

Gherardo e Virginio vecchi.

Gherardo. Fa’ adunque, Virginio, se desideri in questa cosa farmi piacere, come hai detto, che quanto piú presto sia possibile si faccino queste benedette nozze; e cavami una volta di cosi intrigato laberinto nel quale non so come disavedutamente son corso. E, se pur qualche cosa ti tenesse, come il non aver danari per le veste (che ben so che ’l tutto perdesti nel miserabil sacco di Roma) e paramenti per la casa, o per a ventura ti trovasse male agiato di prò veder per le nozze, dimelo senza rispetto: che a tutto provederò io; né mi parrá fatica, pur che questa cosa segua un mese prima, per cavarmi questa voglia, spendere un dieci scudi piú, che, per grazia di Dio, so dove sono. E ben cognosci tu che ormai niun di noi è piú erba di marzo, ma si ben di maggio e forse... E quanto piú si va in lá piú si perde tempo. Né ti maravigliar, Virginio, che tanto te ne importuni, ch’io ti do la mia fede che, perch’io sono entrato in questa girandola, non dormo la metá della notte; e, che sia vero, guarda a che ora mi son levato questa mattina e sappi che, prima ch’io venissi a te per non destarti, avevo udita la prima messa a duomo. E, se forse avessi mutata fantasia e 1 paresseti che con gli anni di tua figliuola non s’affacesseno i miei, che giá sono agli «anta» e forse gli passano, dimmelo arditamente: perché a tutto provederò, voltando i pensieri altrove; e te e me liberarò, in un punto, di fastidio, che ben sai s’io son ricerco d’imparentarmi con altri. [p. 318 modifica]

Virginio. Né questo né altro rispetto mi terrebbe, Gherardo, se fusse in arbitrio mio di poterti fare oggi sposar mia figliuola, ch’io non lo facesse; e, avenga che quasi ogni mia facultá perdesse nel sacco (ed insieme Fabrizio, quel mio benedetto figliuolo), per grazia di Dio, mi è rimaso ancor tanto di patrimonio ch’io spero poter vestire e far le nozze di mia figliuola senza gravare alcun che mi sovenga. Né pensar ch’io mi sia per mutare di quel ch’io t’ho promesso, quando la fanciulla se ne contenti; che ben sai tu che non sta bene a mercatanti mancar di quello ch’una volta promettono.

Gherardo. Cotesta è una cosa, Virginio, che piú si sente in parole che non si truova in fatti fra’ mercatanti de’ nostri tempi. Ben credo che non sia tu di quelli. Non di meno il vedermi menar d’oggi in domane e di domane nell’altro mi fa sospettar non so che; né ti cognosco io per cosí da poco che, quando vorrai, non facci far tua figliuola a tuo modo.

Virginio. Ti dirò. Tu sai che m’accadde l’andare a Bologna per saldar la ragione d’un traffico che aveamo insieme messer Buonaparte Ghisilieri, il cavalier da Casio ed io. E perch’io sono in casa solo, ed abitavo in villa, non volsi lasciar mia figliuola in man di fantesche; ma la mandai nel monister di San Crescenzio, a suor Camilla sua zia: ove è ancora, che sai ch’io tornai iersera. Ora io ho mandato il famiglio a dirgli che la torni.

Gherardo. Sai tu certo ch’ella sia nel monistero e ch’ella non sia altrove?

Virginio. Come s’io il so? dove vuo’ tu ch’ella sia? che domanda è questa?

Gherardo. Dirotti. Son stato certe volte lá per mie facende ed honne domandato; e mai non l’ho potuta vedere; e alcune mi hanno detto ch’ella non v’è.

Virginio. Gli è perché quelle buone madri la vorrebon far monaca per redare, dopo la morte mia, questo poco di resto. Ma non per questo gli riuscirebbe il pensiero, ch’io non son però si vecchio ch’io non sia atto ad avere un par di figliuoli, quando io tolga moglie. [p. 319 modifica]

Gherardo. Vecchio? Oh! Ti prometto ch’io mi sento cosí bene in gambe ora come quando io ero di vinticinque anni; e massimamente la mattina, prima ch’io pisci. E, s’io ho questa barba bianca, nella coda son cosí verde come il poeta toscano. E non vorrei che niun di questi sbarbatelli, che van facendo il bravo per Modena col pennacchio ritto alla guelfa, con la spada alla coscia, col pugnai di dietro, con la nappa di seta, mi vincesseno in cosa nissuna, eccetto che nel correre.^ Virginio. Tu hai buono animo. Non so come le forze riusciranno.

Gherardo. Vorrò che tu ne domandi Lelia, come sará, la prima notte, dormita con me.

Virginio. Or, col nome di Dio, ti bisogna avergli discrezione, perché l’è pure ancor fanciulla e non è buono, in principio, d’esser cosí furioso.

Gherardo. Che tempo ha?

Virginio. Quando fu il sacco di Roma, ch’ella ed io fumo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni.

Gherardo. Gli è appunto il mio bisogno. Io non la vorrei né piú giovane né piú vecchia. Io ho le piú belle veste e’ piú bei vezzi e le piú belle collane e’ piú bei finimenti da donne che uom di Modena.

Virginio. Sia con Dio. Son contento d’ogni suo bene e tuo.

Gherardo. Sollecita.

Virginio. Della dote, quel ch’è detto è detto.

Gherardo. Credi ch’io mi mutassi? Addio.

Virginio. Va’ in buona ora. Certo, che ecco la sua balia: che mi torrá fatica di mandarla a chiamare perché accompagni in qua Lelia.

SCENA II

Clemenzia balia e Virginio vecchio.

Clemenzia. Io non so quel che si vorrá indovinare che tutte le mie galline hanno fatto, questa mattina, si fatto il cicalare che pareva che mi volesser metter la casa a romore o [p. 320 modifica]arricchirmi d’uova. Qualche nuova cosa m’interverrá oggi; che non mi fanno mai questa cantèppola che, quel di, non senta o non m’avvenga qualche cosa mal pensata.

Virginio. Costei debbe testé parlar con gli angeli o col beato padre guardiano di Santo Francesco.

Clemenzia. Ed un’altra cosa m’è avvenuta, che anco di questo non so che me ne indovinare: ben ch’el mio confessore mi dica ch’io fo male a por mente a queste cose e dar fede alli augúri.

Virginio. Che fai, che tu parli cosí drento a te? Egli ha pur passata la befania.

Clemenzia. Oh! Buon di, Virginio. Se Dio m’aiuti, ch’io mi venivo a stare un pezzo con voi. Ma voi vi séte levato molto per tempo. Voi siate il ben venuto.

Virginio. Che dicevi cosí fra’ denti? Pensavi forse di cavarmi di mano qualche staiuol di grano o qualche boccal d’oglio o qualche pezzo di lardo, come è tua usanza?

Clemenzia. Si certo! Oh che liberalaccio da cavargli di mano! E forse che fa massarizia pei suoi figliuoli?

Virginio. Che dicevi adunque?

Clemenzia. Dicevo ch’io non sapevo pensare quel che si volesse dire che una gattina bella, ch’io ho, che l’ho tenuta quindici di perduta, questa mattina è tornata; e, poi ch’ella ebbe preso un topino nel mio camarin buio, scherzando con esso, mi riversciò un fiasco di tribiano che me lo aveva dato il predicator di San Francesco perch’io gli fo le bocate.

Virginio. Cotesto è segno di nozze. Ma tu vuoi dir ch’io te ne desse un altro, è vero?

Clemenzia. Cotesto è vero.

Virginio. Or vedi s’io so’ indivino! Ma che è di Lelia, la tua allieva?

Clemenzia. Eh! povera figliuola, quanto era meglio ch’ella non fusse mai nata!

Virginio. Perché?

Clemenzia. Perché, dici, ch? Gherardo Foiani non va dicendo per tutto che gli è sua moglie e che gli è fatto ogni cosa?

Virginio. Dice il vero. Perché? Non ti par forse ch’ella sia [p. 321 modifica]bene allogata, in una casa onorevole, a un ricco, ben fornito di tutti i beni, senza avere niuno in casa, che non avrá a combattere né con suociara né con nuora né con cognate che sempre stanno come cani e gatte? E trattaralla da figliuola.

Clemenzia. È cotesto il male: che le giovani vogliono essere trattate da mogli e non da figliuole; e voglion chi le strazi, chi le morda e chi raccenci ora per un verso e ora per un altro, e non chi le tratti da figliuole.

Virginio. Tu credi che tutte le donne sien come te? che sai che ci conosciamo. Ma e’ non è cosi; benché Gherardo ha un buono animo di trattarla da moglie.

Clemenzia. E come, che ha degli anni passati cinquanta?

Virginio. Ch’emporta cotesto? Io so’ pur quasi al medesimo; e tu sai pur s’io son buon giostrante o no.

Clemenzia. Oh! De* par vostri se ne trovan pochi. Ma, s’io credesse che voi glie la desse, prima l’affogarci.

Virginio. Clemenzia, io perdei ciò ch’io avevo. Ora mi bisogna fare il meglio ch’io posso. Se Fabrizio, un di, si trovasse ed io avesse dato ogni cosa a costei, si morrebbe di fame; che non vorrei. Ora io la marito a Gherardo con condizione che, se Fabrizio non si truova infra quattro anni, abbi mille fiorini di dote; se ritornasse, ne abbi aver solamente dugento; e, del resto, la dota egli.

Clemenzia. Povera figliuola! So che, se la fará a mio modo...

Virginio. Che n’è? Quant’ha che tu non l’hai veduta?

Clemenzia. Son piú di quindici giorni. Oggi volevo andarla a vedere.

Virginio. Intendo che quelle monache la voglion far monaca e dubito che non gli abbin messo qualche grillo nel capo, come è lor costume. Va’ fin lá, tu, e digli da parte mia che ella se ne venga a casa.

Clemenzia. Sapete? Vorrei che mi prestasse due carlini per comprare una soma di legna, che non n’ho stecco.

Virginio. Diavolo, empiela tu! Orsú! Va’, che te le comprarò io.

Clemenzia. Voglio andare prima alla messa. [p. 322 modifica]

SCENA III

Lelia da ragazzo chiamata per finto nome Fabio e Clemenzia balia.

Lelia. Gli è pure un grande ardire il mio, quando io ’l considero, che, conoscendo i disonesti costumi di questa scorretta gioventú modanese, mi metta sola in questa ora a uscir di casa! Oh come mi starebbe bene che qualcun di questi gioveni scapestrati mi pigliasse per forza e, tirandomi in qualche casa, volesse chiarirsi s’io son maschio o femina! E cosí m’insegnasseno a uscir di casa, cosí di buona ora. Ma di tutto questo è cagione l’amore ch’io porto a questo ingrato e a questo crudel di Flamminio. Oh che sorte è la mia! Amo chi m’ha in odio, chi sempre mi biasma; servo chi non mi conosce; ed aiutolo, per piú dispetto, ad amare un’altra (che, quando si dirá, nissun sará che lo creda) senza altra speranza che di poter saziare questi occhi di vederlo, un di, a mio modo. Ed infino a qui mi è andato assai ben fatto ogni cosa. Ma, da ora innanzi, come farò? che partito ha da essere il mio? Mio padre è tornato. Flamminio è venuto ad abitar nella cittá. E qui non poss’io stare senza esser conosciuta: il che se avviene, io resto vituperata per sempre e divento una favola di tutta questa cittá. E, per questo, sono uscita fuora a questa ora; per consigliarmi con la mia balia, che da la finestra ho veduta venire in qua, ed insieme con lei pigliarci quel partito che giudicaremo il migliore. Ma prima vo’ vedere s’ella in questo abito mi conosce.

Clemenzia. In buona fé, che Flamminio debbe essere tornato a stare in Modena, ch’io veggio l’uscio suo aperto. Oh! Se Lelia lo sapesse, gli parrebbe mill’anni di tornare a casa di suo padre. Ma chi è questo fraschetta che tante volte m’attraversa la strada, questa mattina? Che pur mi ti metti fra’ piei? che non mi ti levi dinanzi? che pur ti vai attorniando? che vuoi da me? Se tu sapesse come i tuoi pari mi piacciono... [p. 323 modifica]

Lelia. Dio vi dia il buon di, mona Scrocca-il-fuso.

Clemenzia. Va’. Dallo pure a chi tu debbi aver dato la buona notte.

Lelia. Se ad altri ho data la buona notte, a voi darò il buon di, se lo vorrete.

Clemenzia. Non mi rompare il capo, che tu mi faresti, questa mattina... ti so dir io.

Lelia. Séte forse aspettata dal guardian di San Francesco? o pure andate a trovar fra Cipollone?

Clemenzia. Doh! che te venga la febre ben ora! Che hai a cercar tu i fatti miei né dov’io vo né dov’io stia? che guardiano? che fra Cipollone?

Lelia. Oh! Non v’adirate, mona Molto-mena-e-poco-fila.

Clemenzia. Per certo, io conosco costui; e, non so dove, mi pare averlo veduto mille volte. Dimmi, ragazzo: e dove mi conosci tu, che vuoi saper tanto delle cose mie? Levati un poco questa cappa dal volto.

Lelia. Orsú! Fai vista di non mi conoscere, ch?

Clemenzia. Se stai nascosto, né io né altri ti conoscerá.

Lelia. Tirati un poco piú in qua.

Clemenzia. Ove?

Lelia. Piú in qua. Ora cognoscimi?

Clemenzia. Se’ tu forse Lelia? Dolente a la mia vita! Sciagurata a me! Si, che gli è essa. Oimè! Che vuol dir questo, • figliuola mia?

Lelia. Di’ piano. Tu mi pari una pazza, a me. Io m’andarò con Dio, se tu gridi.

Clemenzia. Parti forse che si vergogni? Saresti mai diventata femina del mondo?

Lelia. Si, che io son del mondo. Quante femine hai tu vericordi.

Clemenzia. Adunque, hai tu perduto il nome di vergine?

Lelia. Il nome no, ch’io sappi, e massimamente in questa terra. Del resto si vuol domandarne gli spagnuoli che mi ten- ^ ner prigiona a Roma. [p. 324 modifica]

Clemenzia. Questo è l’onor che tu fai a tuo padre, a la tua casa, a te stessa ed a me che t’ho allevata? che ho voglia di scannarti con le mie mani. Entrami innanzi, vch! ch’io non voglio che tu sia piú veduta in questo abito.

Lelia. Oh! Abbi un poca di pazienzia, se tu vuoi.

Clemenzia. O non ti vergogni d’esser veduta cosi?

Lelia. So’ io forse la prima? N’ho vedute a Roma le cen/ tinaia. E, in questa terra, quante ve ne sono che, ogni notte, vanno in questo abito ai fatti loro!

Clemenzia. Coteste son ribalde.

Lelia. Oh! Fra tante ribalde non ne può andare una buona?

Clemenzia. Io vo’ saper perché tu vi vai e perché sei uscita del monistero. Oh! Se tuo padre il sapesse, non t’uccidarebbe, pò vara te?

Lelia. Mi cavarebbe d’affanni. Tu credi forse ch’io stimi la vita un gran che?

Clemenzia. Perché vai cosi? Dimmelo.

Lelia. Se m’ascolti, io tei dirò; e, a questo modo, intenderai quanta sia la disgrazia mia e la cagion per ch’io vada in questo abito fuor del monistero e quel ch’io voglio che in questa cosa tu faccia. Ma tirati piú in qua: che, se alcun passasse, non mi conoscesse, per vedermi ragionar con teco.

Clemenzia. Tu mi fai consumare. Di’ presto, ch’io morrò disperata. Oimè!

Lelia. Sai che, dopo il miserabil sacco di Roma, mio padre, perduta ogni cosa e, insieme con la robba, Fabrizio mio fratello, per non restar solo in casa,, mi tolse dai servizi della signora marchesana con la quale prima m’aveva posta; e, costretti dalla necessitá, ce ne tornamo a Modana in casa nostra per fuggir quella fortuna ed a viver di quel poco che avevamo.

E sai che, per esser mio padre tenuto amico del conte Guido Rangone, non era molto ben veduto da alcuni.

Clemenzia. Perché mi dici tu quel ch’io so meglio di te?

(E so che, per questa cagion, andaste a star di fuore al vostro podere del Fontanile; ed io ti feci compagnia.

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Lelia. Ben dici. Sai anco quanto, in que’ tempi, fu aspra e dura la mia vita e, non pur lontana dai pensieri amorosi, ma quasi da ogni pensiero umano: pensando che, per essere io stata in mano di soldati, che ognuno m’aditasse; né credevo poter vivere si onestamente che bastasse a far che la gente non avesse che dire. E tu ’l sai, che tante volte me ne gridasti e * mi confortasti a tener vita piú allegra.

Clemenzia. Se io lo so, perché mei dici? Segui.

Lelia. Perché, se questo non t’avesse ridetto, non potresti saper quel che segue. Avvenne che, in que’ tempi, Flamminio Carandini, per esser de la parte che noi, prese stretta amicizia con mio padre; e, ogni giorno, ogni giorno, veniva in casa; e, alcuna volta, molto segretamente mi mirava, poi, sospirando, ancora abbassava gli occhi. E fusti cagion tu di farmene accorgere.

A me cominciorono a piacere i suoi costumi, i suoi V ragionamenti e i suoi modi molto piú che da principio non facevano; ma non però pensavo ad amore. Ma, durando la pratica del suo venire in casa, ed ora uno atto ed ora un segno amoroso facendomi, sospirando, sollecitando, mirandomi, m’accorsi che costui era preso di me non poco: tal che io, che non avevo mai piú provato amore, parendomi egli degno dov’io potesse porre i mie’ pensieri, m’invaghii si fieramente che altro ben non aveva che di vederlo.

Clemenzia. Tutto questo ancor sapevo.

Lelia. Sai ancor che, essendo partiti li soldati di Roma, volse mio padre tornar lá per veder se niente del nostro fusse salvato ma, molto piú, per veder se nuova alcuna sentiva del mio fratello; e, per non lassarmi sola, mi mandò a stare alla Mirandola, fin che tornava, con la zia Giovanna. Quanto mal volentieri mi separasse dal mio Flamminio tu lo puoi dire, che tante volte me ne asciugasti le lagrime! Alla Mirandola stei uno anno. Poi, essendo tornato mio padre, sai ch’io tornai a Modena e piú che prima innamorata di colui che, essendo il mio primo amore, tanto mi era piaciuto, pensandomi che ancor egli m’amasse come prima aveva mostrato.

Clemenzia. Pazzarella! E quanti modanesi hai tu trovati che [p. 326 modifica]durin d’amare una donna sola un anno e che un mese non dien la berta a questa e un mese a quell’altra?

Lelia. Trovailo che tanto apponto si ricordava di me quanto se mai veduta non m’avesse; e, ch’è peggio, ch’ogni suo animo, ogni sua cura ha posta in acquistar l’amor d’Isabella di Gherardo Foiani come quella che, oltre ch’è assai bella, è unica a suo padre, se quel vecchio pazzo non piglia moglie e faccia altri figliuoli.

Clemenzia. Egli si crede certo d’aver te; e dice che tuo padre te gli ha promesso. Ma questo che tu m’hai detto non fa a proposito del tuo andar vestita da maschio e del tuo essere uscita del monistero.

Lelia. Se mi lassi dire, vedrai che gli è a proposito. Ma, rispondendo a quel di prima, dico che me non averá egli. Tornato che fu mio padre da Roma, gli accadde il cavalcare a Bologna per certi intrighi di conti; e, non volendo io piú tor• nare alla Mirandola, mi messe nel monistero di San Crescenzio in compagnia di suor Amabile, nostra parente, fin che tornasse, che si pensò di tornar presto.

Clemenzia. Tutto questo sapevo.

Lelia. Ivi stando, né d’altro che d’amor ragionare sentendo a quelle reverende madri del monistero, m’assicurai ancor io di scoprire il mio amore a suor Amabile de’ Cortesi. Ella, che ebbe pietá di me, non fino mai ch’ella fece venire piú volte Flamminio a parlar seco e con altre acciò che io, in questo tempo, che nascosta dopo quelle tende mi stava, pascesse gli occhi di vederlo e l’orecchie d’udirlo; che era il maggior desiderio ch’io avesse. Venendovi un di, fra gli altri, sentii che molto si rammaricò d’un suo allievo che morto gli era e molto diceva delle lode e ben servire suo; soggiungendo che, se un simile ne trovasse, si terrebbe piú contento del mondo e che gli porrebbe in mano quanto teneva.

Clemenzia. Meschina a me! Io dubito che questo ragazzo non mi facci vivere scontenta.

Lelia. Subbito mi corse nell’animo di voler provare se a me potesse venir fatto d’esser questo aventuroso ragazzo (e, [p. 327 modifica]partito ch’ei si fu, conferii questo pensiero con suor Amabile) e, poi che Flamminio non stava per stanza a Modena, veder se seco per servidore acconciar mi potesse.

Clemenzia. Noi diss’io che questo ragazzo... Disfatta a me!

Lelia. Ella me ne confortò; e amaestrommi del modo ch’io avevo a tenere; e accommodommi di certi panni che nuovamente! s’aveva fatti per potere ella ancora, alcuna volta, come l’altre! fanno, uscir fuor di casa travestita a fare i fatti suoi. E cosi, una mattina per tempo, me ne uscii in questo abito fuor del monistero che, per esser fuor della terra come gli è, mi die’ molto animo e fu molto a proposito. E anda’mene al palazzo ove Flamminio abitava, che sai che non è molto discosto dal monistero; ed ivi mi fermai tanto che gli usci fuora. E, in questo, non posso se non lodarmi della fortuna perché subito Flamminio mi voltò gli occhi adosso e molto cortesemente mi domandò se alcuna cosa domandavo e d’onde io era.

Clemenzia. È possibil che tu non cadesse morta della vergogna?

Lelia. ^Anzi, aiutandomi Amore, francamente gli risposi ch’io ero romano che, per essere rimasto povero, andavo cercando mia ventura. Mirommi piú volte dal capo ai piedi tal che quasi ebbi paura che non mi cognoscesse; poi mi disse che, se mi fusse piaciuto di star seco, mi terrebbe volentieri e mi trattarla bene e da gentile uomo. Io, pur vergognandomi un poco, gli risposi di si.

Clemenzia. Io non vorrei esser nata, sentendoti. E che util ne vedesti, per te, di far questa pazzia?

Lelia. Che utile? Part’egli che poco contento sia d’una innamorata veder di continuo il suo signore, parlargli, toccarlo, intendere i suoi segreti, veder le pratiche che gli ha, ragionar seco ed esser sicura, almeno, che, se tu noi godi, altri noi gode?

Clemenzia. Queste son cose da pazzarelle; e non è altro ch’agiugner legna al fuoco, se non sei certa che, facendolo, piaccino al tuo amante. E di che ’l servi tu? [p. 328 modifica]

Lelia. Alla tavola, alla camera. E conosco essergli venuta, in questi quindici di ch’io l’ho servito, in tanta grazia che, se in tanta gli fusse nel mio vero abito, beata a me!

Clemenzia. Dimmi un poco: e dove dormi tu?

Lelia. In una sua anticamara, sola.

Clemenzia. Se, una notte, tentato dalla maladetta tentazione, ti chiamasse che tu dormisse con lui, come andarebbe?

Lelia. Io non voglio pensare al mal prima che venga. Quando cotesto fusse, ci pensarei e risolvereimi.

Clemenzia. Che dirá la gente, quando questa cosa si sappia, cattivella che tu sei?

Lelia. Chi lo dirá, se non lo dici tu? Or quello ch’io vorrei che tu facesse è questo (perch’io ho veduto che mio padre tornò iersera e dubito che non mandi per me): che tu facesse si che, fra quattro o cinque giorni, non ci mandasse; o gli desse ad intendere ch’io sono andata con suor Amabile a Roverino e, fra questo tempo, tornare.

Clemenzia. E questo perché?

Lelia. Ti dirò. Flamminio, com’io ti dissi poco fa, è innamorato d’Isabella Foiani e spesso spesso mi manda a lei con lettere e con imbasciate. Ella, credendo ch’io sia maschio, si è si pazzamente innamorata di me che mi fa le maggior carezze del mondo; ed io fingo di non volerla amare, se non fa si che Flamminio si levi dal suo amore; e ho giá condotta la cosa a fine. Spero, fra tre o quattro giorni, che sará fatto e che egli la lasciará.

Clemenzia. Dico che tuo padre m’ha detto ch’io venga per te; e ch’io voglio che tu te ne venga a casa mia, che mandarò pe’ tuo’ panni; e non voglio che sia veduta cosi, se non che dirò ogni cosa a tuo padre.

Lelia. Tu farai ch’io andarò in luogo che mai piú mi ve^ drete né tu né egli. Fa’ a mio modo, se tu vuoi. Ma non ti posso finir di dire ogni cosa. Sento che Flamminio mi chiama.

Signore! Aspettami fra un’ora in casa, che ti verrò a trovare.

E sai? abbi avertenzia’ che, domandandomi, mi chiami FaJ dío degli Alberini, che cosí mi fo chiamare; si che non errare.

Vengo, signore! Addio. [p. 329 modifica]

Clemenzia. In buona fé, che costei ha veduto Gherardo che viene in qua; e però s’è fuggita. Or_che farò io? Di costei non è cosa da dire al padre e non è da lasciarla star qui. Tacerò fin che di nuovo gli parli.

SCENA IV

Gherardo vecchio, Spela suo servo e Clemenzia balia.


Gherardo. Se Virginio fa quanto m’ha promesso, io mi vo’ dare il piú bel tempo ch’uom di Modena. Che ne dici, Spela? Non farò bene?

Spela. Credo che molto meglio fareste a far qualche bene ai vostri nepoti, che stentano, e a me, che v’ho servito tanto tempo e non mi so’ pure avanzato un par di scarpe; ch’io ho paura che questa moglie non vi mandi qui o che la vi faccia... So ben io.

Gherardo. Vorrò che tu vegga s’ella si terrá ben pagata da me.

Spela. Credolo: che, dove un altro la pagarebbe di grossi e di cinquine, e voi la pagarete di doppioni e di piccioli.

Gherardo. Ecco la sua balia. Taci, ch’io voglio astutamente domandare che è di Lelia.

Clemenzia. Oh che bel giglio d’orto da voler moglie si tenera! Credi che fusse ben condotta, quella povera figliuola, nelle man di questo vecchio rantacoso? Alla croce di Dio, che io la strozzerei prima che voler ch’ella fusse data a questo vieto, muffato, baboso, rancido, moccioso. Io ne voglio un poco di pastura. Lassamigli accostare. Dio vi dia il buon di e la buona mattina, Gherardo. Voi mi parete, questa mattina, un cherubino.

Gherardo. E a te ne dia centomila e altri tanti ducati.

Spela. Cotesti starebbon meglio a me.

Gherardo. O Spela, quanto sarei stato contento s’io fusse costei!

Spela. Perché avreste, forse, provati molti mariti, ove non avete provato se non una moglie? O pur il dite per altro? [p. 330 modifica]

Clemenzia. E quanti mariti ho io provati, Spela? che Dio te faci spelar da le mosche! Hai tu forse invidia di non esser stato un di quelli?

Spela. Si, per Dio! che la gioia è bella, almanco.

Gherardo. Tace, bestia, che non lo dico per cotesto, io, no.

Spela. Perché lo diceste adunque?

Gherardo. Perché arei tante volte abbraciata, baciata e tenuta in collo la mia Lelia dolce, di zuccaro, d’oro, di latte, di rose, di non so che mi dire.

Spela. Oh! ohu! Padrone, andiamo a casa. Sii! presto!

Gherardo. Perché?

Spela. Voi avete la febbre e vi farebbe male lo star qui a questa aria.

Gherardo. Io ho il malan che Dio ti dia. Che febbre! Io mi sento pur bene.

Spela. Dico che voi avete la febbre: lo conosco ben io, certo; e grande.

Gherardo. So ch’io mi sento bene.

Spela. Duolvi il capo?

Gherardo. No.

Spela. Lasciatemivi toccare un poco il polso. Duolvi stomaco o pur sentite qualche fumo andare al cervello?

Gherardo. Tu mi pari una bestia. Vuo’ mi far Calandrino, forse? Io dico ch’io non ho altro male che di Lelia mia, delicata, inzuccarata.

Spela. Io so che voi avete la febbre e state molto male.

Gherardo. A che te ne accorgi tu?

Spela. A che? Non vi accorgete che voi séte fuor di gangari, farneticate, affannate e non sapete che vi dire?

Gherardo. Gli è Amor che vuol cosi, non è vero, Clemenzia? Omnia vincit Amor.

Spela. Ohu! Che bel detto da napoletani! Facetis manum, brigata. Mai piú fu detto.

Gherardo. Quella crudelina, traditorina di tua figliana...

Spela. Questa non sará febbre, ma scemamento di cervello. Ohu! Povero a me! come farò? [p. 331 modifica]

Gherardo. O Clemenzia, mi vien voglia d’abracciarti e di baciarti mille volte.

Spela. Qui bisognaranno le funi, dissi ben io.

Clemenzia. Di cotesto guardatevi molto bene, ch’io non voglio esser baciata da vecchi.

Gherardo. Paioti cosí vecchio?

Spela. Che credi? Al mio padrone non sono ancor caduti, gli occhi fuor di bocca; volsi dire, i denti.

Clemenzia. In ogni modo, non avete il tempo che si crede, veggo ben io.

Gherardo. Dillo a Lelia. E sai? Se mi metti in sua grazia, ti vo’ donare un mongile.

Spela. Ehi, liberalaccio! E a me che darete?

Clemenzia. Tanto fusse voi in grazia del duca di Ferrara quanto voi séte in grazia di Lelia, che buon per voi! Ma si! j Voi la dileggiate: che, se voi gli volesse bene, non la terreste in | queste trame né cercar esti di tuorgli la sua ventura.

Gherardo. Come torgli la sua ventura? Io cerco di darglila, non di torgliela.

Clemenzia. Perché la tenete, tutto questo anno, in su le pratiche di volerla o di non volerla?

Gherardo. Che! Pensasi Lelia che rimanga da me, adunque? S’io non sollecito ogni di suo padre, se non è la maggior voglia ch’io abbi al mondo, s’io non volesse che si facesse piú presto oggi che domane, che tu mi vegga, fra pochi di, sovr’una bara.

Clemenzia. E questo non mancare, se a Dio piace. Io gli dirò ogni cosa. Ma sapete? La vi vorrebbe vedere andare altramente che cosí gli parete un pecorone.

Gherardo. Come «un pecorone»? che gli ho io fatto?

Clemenzia. No. Ma perché voi andate sempre avviluppato ne le pelli.

Spela. Sará buon, dunque, che per amor suo si faccia scorticare o che, almanco, corra ignudo per questa terra. Ha’ veduto?

Gherardo. Io ho piú be’ panni ch’uom di Modena. Ho caro che me l’abbi detto. Vorrò che, di qua a un poco, mi [p. 332 modifica]vegga altrimenti. Ma dove la potrei vedere? quando tornerá i dal monistero?

Clemenzia. Alla porta Bazzovara. Or ora voglio andare a trovarla.

Gherardo. Che non mi lassi venir con te, che andarem ragionando?

Clemenzia. No, no. Che direbben le genti?

Gherardo. Io muoio. Oh amore!

Spela. Io scoppio. Oh bastone!

Gherardo. Oh beata a te!

Spela. Oh pazzo che tu se’!

Gherardo. Oh Clemenzia avventurata!

Spela. Oh bestia mal cignata!

Gherardo. Oh latte ben contento!

Spela. Oh capo pien di vento!

Gherardo. Oh Clemenzia felice!

Spela. Oh! in culo avestú una radice!

Gherardo. Orsú, Clemenzia! Addio. Viene, Spela, ch’io mi voglio ire a raffazzonare. Ho deliberato di vestirmi altrimenti u per piacere alla mia moglie.

Spela. L’andará male.

Gherardo. Perché?

Spela. Perché giá cominciate a fare a suo modo. Le brache saran pur le sue.

Gherardo. Vanne alla buttiga di Marco profumiere e comprami un bossol di zibetto, ch’io voglio andare in su l’amorosa vita.

Spela. I denari ove sono?

Gherardo. Eccoti un bolognino. Va’ presto. Io m’avvio a casa.

SCENA V

Spela servo e Scatizza servo di Virginio.


Spela. Se ad alcuno venisse voglia di racchiuder tutte le sciocchezze in un sacco, mettivi il mio padrone, che sará fatto a punto quanto e’ vuole. E magiormente, or che gli è entrato in questa frenesia d’amore, egli si spela, si pettina, passeggia [p. 333 modifica]intorno alla dama, va fuor la notte a’ veglini con la squarcina, canticchia tutto ’l dí con una voce rantacosa, ribalda e con un leutaccio piú scordato di lui. E èssi dato infino a far le fistole (che gli venghino!) e i sognetti e i capogirli, gli strenfiotti, i materiali e mill’altre comedie: cosa da far creppar di ridere gli asini, non che i cani. Or vuol portare il zibetto. Al corpo di Dio, che c’impazzerebben le palle. Ma ecco Scatizza che debbe tornar da le monache.

Scatizza. Ti so dir che questi padri che fan le lor figliuole monache debbono esser di que’ buoni uomini del tempo antico di Bartolommeo Coglioni. E forse che non si credono ch’elle stien sempre dinanzi al Crocefisso a pregare Iddio che facci del bene a chi ve l’ha messe? È ben vero che pregano Dio e ’l diavolo; ma che gli faccia rompare il collo a chi è cagion ch’elle ci sieno.

Spela. Voglio intender questa novella.

Scatizza. Com’io bussai alla ruota, subito tutta la stanza s’empí di suore; e tutte giovane e tutte belle come angeli. Comincio a domandar di Lelia. Chi ride di qua, chi sghignazza di lá; tutte si facevan beffe del fatto mio, come se io fusse stato un zugo melato.

Spela. Addio, Scatizza. E donde si viene? Oh! Tu hai delli zuccarini. Dammene.

Scatizza. Il cancar che ti venga, a te e quel pazzo di tuo padrone!

Spela. Lasciame andare e tira a te. Donde vieni?

Scatizza. Dalle monache di Santo Crescenzio.

Spela. Or be’, che è di Lelia? È tornata a casa?

Scatizza. La forca tornará per te! Pò fare Iddio che quel mentecatto di tuo padrone se la crede avere?

Spela. Perché? Non lo vuole?

Scatizza. Credo di no, io. Parti ch’ella sia carne da’ suo’ denti?

Spela. Ella ha ragione, in fine; ma che dice?

Scatizza. Niente non dice. Che vuoi ch’ella dica, quando io non l’ho potuta vedere? che, come io gionsi lá e domanda’la, quelle sgherracce di quelle monache volevan la pastura di me. [p. 334 modifica]

Spela. Altro volevan che la pastura! Piú presto il pastorale. Tu non le conosci bene.

Scatizza. Le conosco meglio di te, cosí gli venisse il cancaro! Vo’ che tu vegga. Chi mi domandava s’io ne sto male; chi s’i’ la torrei per moglie; chi diceva ch’ell’era in molle in dormentorio, che s’asciugava; chi ch’ell’era in soppresso nel chiostro. Un’altra mi disse: — Tuo padre ebbe figliuoli maschi? — Oh! Io fui per dire: — Ebbe un ca...cameto. — Tanto che pur m’accorsi che m’uccellavano, che non volevano ch’io le parlasse.

Spela. Tu fosti un da poco. Dovevi entrar dentro e dir che la volevi cercar tu.

Scatizza. Cancaro! Entra dentro solo! Va’ lá, va’ lá: tu mi conciaresti! Oh! Non c’è stallone in Maremma che ci regesse col fatto loro, solo. Monache? Cancaro! Ma io non posso star piú con te; che ho da rispondere al mio padrone.

Spela. Ed io ho a comprare il zibetto a quel pazzo del mio.