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atto primo | 327 |
partito ch’ei si fu, conferii questo pensiero con suor Amabile) e, poi che Flamminio non stava per stanza a Modena, veder se seco per servidore acconciar mi potesse.
Clemenzia. Noi diss’io che questo ragazzo... Disfatta a me!
Lelia. Ella me ne confortò; e amaestrommi del modo ch’io avevo a tenere; e accommodommi di certi panni che nuovamente! s’aveva fatti per potere ella ancora, alcuna volta, come l’altre! fanno, uscir fuor di casa travestita a fare i fatti suoi. E cosi, una mattina per tempo, me ne uscii in questo abito fuor del monistero che, per esser fuor della terra come gli è, mi die’ molto animo e fu molto a proposito. E anda’mene al palazzo ove Flamminio abitava, che sai che non è molto discosto dal monistero; ed ivi mi fermai tanto che gli usci fuora. E, in questo, non posso se non lodarmi della fortuna perché subito Flamminio mi voltò gli occhi adosso e molto cortesemente mi domandò se alcuna cosa domandavo e d’onde io era.
Clemenzia. È possibil che tu non cadesse morta della vergogna?
Lelia. ^Anzi, aiutandomi Amore, francamente gli risposi ch’io ero romano che, per essere rimasto povero, andavo cercando mia ventura. Mirommi piú volte dal capo ai piedi tal che quasi ebbi paura che non mi cognoscesse; poi mi disse che, se mi fusse piaciuto di star seco, mi terrebbe volentieri e mi trattarla bene e da gentile uomo. Io, pur vergognandomi un poco, gli risposi di si.
Clemenzia. Io non vorrei esser nata, sentendoti. E che util ne vedesti, per te, di far questa pazzia?
Lelia. Che utile? Part’egli che poco contento sia d’una innamorata veder di continuo il suo signore, parlargli, toccarlo, intendere i suoi segreti, veder le pratiche che gli ha, ragionar seco ed esser sicura, almeno, che, se tu noi godi, altri noi gode?
Clemenzia. Queste son cose da pazzarelle; e non è altro ch’agiugner legna al fuoco, se non sei certa che, facendolo, piaccino al tuo amante. E di che ’l servi tu?