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atto primo | 321 |
bene allogata, in una casa onorevole, a un ricco, ben fornito di tutti i beni, senza avere niuno in casa, che non avrá a combattere né con suociara né con nuora né con cognate che sempre stanno come cani e gatte? E trattaralla da figliuola.
Clemenzia. È cotesto il male: che le giovani vogliono essere trattate da mogli e non da figliuole; e voglion chi le strazi, chi le morda e chi raccenci ora per un verso e ora per un altro, e non chi le tratti da figliuole.
Virginio. Tu credi che tutte le donne sien come te? che sai che ci conosciamo. Ma e’ non è cosi; benché Gherardo ha un buono animo di trattarla da moglie.
Clemenzia. E come, che ha degli anni passati cinquanta?
Virginio. Ch’emporta cotesto? Io so’ pur quasi al medesimo; e tu sai pur s’io son buon giostrante o no.
Clemenzia. Oh! De* par vostri se ne trovan pochi. Ma, s’io credesse che voi glie la desse, prima l’affogarci.
Virginio. Clemenzia, io perdei ciò ch’io avevo. Ora mi bisogna fare il meglio ch’io posso. Se Fabrizio, un di, si trovasse ed io avesse dato ogni cosa a costei, si morrebbe di fame; che non vorrei. Ora io la marito a Gherardo con condizione che, se Fabrizio non si truova infra quattro anni, abbi mille fiorini di dote; se ritornasse, ne abbi aver solamente dugento; e, del resto, la dota egli.
Clemenzia. Povera figliuola! So che, se la fará a mio modo...
Virginio. Che n’è? Quant’ha che tu non l’hai veduta?
Clemenzia. Son piú di quindici giorni. Oggi volevo andarla a vedere.
Virginio. Intendo che quelle monache la voglion far monaca e dubito che non gli abbin messo qualche grillo nel capo, come è lor costume. Va’ fin lá, tu, e digli da parte mia che ella se ne venga a casa.
Clemenzia. Sapete? Vorrei che mi prestasse due carlini per comprare una soma di legna, che non n’ho stecco.
Virginio. Diavolo, empiela tu! Orsú! Va’, che te le comprarò io.
Clemenzia. Voglio andare prima alla messa.