Giacinta/Parte terza/I
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I.
La pioggia che scrosciava violenta come la grandine sui cristalli della finestra, il vento che urlava lamentosamente dentro la gola del fumaiolo, rendevano più raccolto e più intimo il silenzioso tepore del salotto.
Andrea, senza scomodarsi dalla poltrona dov’era disteso, prendeva di tratto in tratto con le molle un bel pezzo di legna e lo aggiungeva agli altri tizzi che scoppiettavano fiammeggianti nel caminetto. Più in là, accanto al tavolino ingombro di matassine di lana di diversi colori, Giacinta lavorava a una piccola tappezzeria, girando sul pugno il filondente, tirando la corta gugliata con un movimento nervoso, alzando il capo quando i tizzi all’improvviso crollavano, e la fiamma si sminuzzava in tante linguette azzurrognole, agitantisi sulla brace.
Il vento che urlava fuori, la pioggia che sbatteva sui cristalli rompevano a mala pena quel silenzio pieno d’impaccio. Andrea ricominciava a farsi una sigaretta, assestando diligentemente il tabacco, agguagliandolo, saggiandolo fra le dita prima d’avvolgere la carta: e Giacinta, lasciate cader le mani sulle ginocchia, lassamente, lo guardava fisso, con qualcosa sulla punta della lingua che non le riusciva di buttar fuori.
Marietta, che recava della biancheria da tavola, si era fermata sull’uscio.
— È andato a letto? — domandò Giacinta.
— Il signor conte si sta spogliando.
— Ha cenato?
— No, signora contessa.
— Perchè?
— Vuole che ne domandi a Battista?
— No. Prepara qui; sarà meglio, vero?
— Pare anche a me, — rispose Andrea, chinato per accendere a un tizzo la sigaretta.
Giacinta ripose nel cestino il suo lavoro e si alzò da sedere.
— La bambina?
— Dorme, signora contessa.
Mentre Marietta cominciava ad apparecchiare, ella avvicinavasi ad Andrea. Con le braccia sulla spalliera della poltrona, gli parlava all’orecchio:
— Dimenticone!... Oggi compionsi quattro anni; non vi hai neppure badato!... E sembra proprio ieri!
— Quattro anni! — replicò Andrea.
— Tu lo dici in un modo...
— Come vuoi che lo dica?
E col capo abbandonato, con le gambe accavalciate, seguitava a fumare.
Giacinta, un po’ commossa, riprendeva:
— Ti rammenti di quella sera presso il caminetto nel salotto della mamma? Io ero al tuo posto; e tu, piegato un ginocchio, armeggiavi con le molle e facevi spegnere la fiamma...
— Sì, sì! — brontolò Andrea, stringendo la sigaretta fra le labbra, strizzando gli occhi.
— Te ne rammenti? Io ti dissi: stia fermo, fa peggio. E tu mi rispondesti: Dice bene. Destar fiamme non è il mio forte. Quel tuo accento turbato mi rimase nell’orecchio.
— Sì, sì!
Giacinta si rizzò sulla vita, sdegnosamente:
— Se ti annoi, se...
Ma frenossi, vedendo la Marietta che ritornava con un canestro pieno di posate, di bicchieri e di piatti.
Andrea, buttata la sigaretta nel fuoco, in piedi, si allungava, stirando in giù le braccia, aggrottando le sopracciglia:
— Aah!... Nulla impoltronisce come la fiamma del camino! Non mi muoverei di qui giorno e notte; mi lascerei rosolare, senza tirarmi indietro!
E tornava a stirarsi. Nel silenzio, si sentiva soltanto il rumore dei piatti e delle posate che Marietta andava disponendo sulla tavola.
— Se ti annoi, dillo pure! — insistè Giacinta, appena la cameriera uscì di nuovo. — Sei stato tutta la serata muto come un pesce, ruminando chi sa che cosa...
— Io?
— Sì. Tu cominci a diventarmi strano... Non posso più star zitta, soffro troppo!... T’annoi con me; confessalo!
— T’inganni, t’inganni!
Giacinta crollava tristamente il capo:
— No, non m’inganno. Ho notato, fra gli altri, un terribile indizio. Son donna, capisci?
— Quale?
Andrea spalancò gli occhi, aspettando ch’ella parlasse; e le stese una mano per rassicurarla.
— Hai ripreso a giocare, — disse Giacinta, con aria severa.
— Oh... figurati!
Però si voltava di là, un po’ confuso, per evitare le di lei pupille che gli penetravano nel cuore come una lama.
— Ti voglio tutto per me!... Ti voglio tutto per me! — esclamò Giacinta.
E lo accarezzava con la voce, stringendogli le mani fra le sue, non sapendo rimproverarlo altrimenti. Quegli si scusava:
— È stato due o tre volte, per compiacere agli amici. Mi parve brutto rifiutare. — E tutt’a un colpo, mostrandosi offeso, aggiunse: — Ho fatto male, ne convengo.
— Non finger di fraintendere! — ella gli disse bruscamente.
Nel sedersi a tavola si passava le mani sulla fronte, atterrita all’idea che, insistendo ancora, avrebbe forse potuto scoprire qualcosa di peggio, dietro quel dubbio che le rodeva da più mesi il cervello.
— Sarebbe un’infamia! — pensava. — Una cosa contro natura!... Nel naufragio della mia vita, mi sono aggrappata a lui come a una tavola di salvezza, e me gli aggrappo di giorno in giorno più fortemente, per passione, per gratitudine... È nello stesso caso anche lui;... Non dovrebbe accadergli lo stesso?
Marietta girava attorno, presentando le pietanze, levando via i piatti vuoti, un po’ sorpresa dall’insolito silenzio che gli urli del vento, cessata la pioggia, rendevano più tristo e più significativo.
Andrea mangiava in fretta senz’avvedersene, frugando nel cervello per trovarvi qualcosa da sviare quell’incubo; ma non trovava nulla! Il suo cervello era vuoto. E si mesceva spesso:
— Il vino, forse, gli avrebbe sciolto la lingua.
Scorgendo che Giacinta assaggiava le pietanze appena con la punta delle labbra, assorta chi sa da quali pensieri, sentì maggiormente aggravarsi addosso l’intero malessere che lo opprimeva:
— Un bell’anniversario, davvero? Ma la colpa è di lei che ingrandisce ogni nonnulla e si foggia continui spauracchi. Diamine!... Dopo quattro anni è naturale non si rinnovino gli entusiasmi d’una volta... L’abitudine ammortisce le impressioni più acute... Ma perchè non lo dico anche a lei? Perchè sto muto?
La pioggia ricominciava, a sbruffi, a rovesci rabbiosi, a seconda del vento.
— Tempo di levante, — disse Andrea. — Ne avremo almeno per tre giorni.
Giacinta rizzò la testa:
— Finalmente!... Mi pareva che non avresti aperto più la bocca!
Andrea, col naso nel piatto, strappando con due dita un po’ di crosta da un panino, fra un boccone e l’altro continuava:
— Me lo sentivo da due giorni dentro le ossa. Un malumore, una fiacchezza!... L’umido, m’irrita i nervi. Sono un barometro.
Giacinta, per credergli e star tranquilla, avrebbe voluto potergli leggere in cuore, come in un libro. Non provocava una spiegazione perchè temeva di far peggio; e sentendolo parlare del cattivo tempo, dell’umido, dei nervi, senza che la voce di lui le rivelasse altro, assentiva col capo, intanto che presentavagli il bicchiere perchè le versasse un po’ d’acqua.
— Toh! — egli disse a un tratto. — Dimenticavo di darti la notizia che Gessi ed Elisa son tornati questa mattina dal loro viaggio di nozze. Gli ho incontrati in carrozza, all’arrivo dalla stazione...
E, lieto d’aver trovato finalmente un soggetto di discorso, rideva anticipatamente di quel che stava per dire:
— Sai? La Elisa (pare impossibile!) è tornata più nera, più stecchita; con certi zigomi, con certi denti!... Ogni bacio dev’essere una contusione pel povero Gessi.
Giacinta fece mostra di sorridere. La Marietta, per non farsi scorgere, torceva il capo:
— Meno male! Un po’ d’allegria veniva a galla. Le pareva fosse tempo.
Ma appena intesero nell’altra stanza un rumore di passi gravi e strascicanti, si guardarono tutti e tre negli occhi.
— Il conte non era dunque andato a letto?
— Sì, signora contessa. Battista è in cucina.
— Si sarà levato, — disse Andrea.
E il conte apparve in mezzo all’uscio, così sfigurato dalla malattia che lo affliggeva da un anno da sembrare un vecchio; il collare della camicia sbottonato, i capelli in disordine. Non riusciva ad infilare una manica del vestito.
Entrò curvo, un po’ barcollante; ma la tavola apparecchiata, coi bicchieri e le posate che scintillavano, col vino che accendeva nelle bottiglie trasparenze di rubino, gli fecero alzar la testa.
— Oh, bene! Oh, bene!
Batteva le mani, avanzandosi verso la tavola con passo mal fermo, facendo scoppiettare le labbra, come se già masticasse qualcosa.
— Qui — gli disse, Andrea, cedendogli il suo posto.
Marietta era mortificata:
— Quello scimunito di Battista!
E voleva scusarsi, per la sua parte, parlando alla padrona sotto voce, guardando il conte che s’era messo subito a mangiare nello stesso piatto d’Andrea.
— Ho capito, non importa, — rispose Giacinta.
Il conte, dando un’occhiata ora a lei ora ad Andrea, faceva dei bocconi grossi e masticava in fretta:
— Non mi aspettavate, è vero? Non mi aspettavate!
— Ti si sapeva a letto, — risposero ad una volta Giacinta e Andrea.
Stavano a vederlo mangiare, muti, un po’ imbarazzati, sebbene Andrea non fosse tanto dolente dell’inattesa apparizione:
— Era un diversivo.
— Giulio, no; il dottore non vuole, — disse Giacinta, fermando il braccio al conte, che voleva versarsi del vino.
— Ah! Ah! Il dottore!... Ah! Ah!
Egli rideva e parlava, con la bocca piena, tentando di svincolare la mano, dando da bere alla tovaglia:
— Il dottore non è qui... Un gocciolino solo!
— No, no; lo sai bene, il dottore non vuole! — ripetè Andrea, levandogli la bottiglia di mano.
Il conte seguì con gli occhi desolati Marietta che la portava via; poi, subitamente rassegnatosi, riprese a mangiare, ingollando i bocconi appena masticati, stendendo le mani lunghe e scarne al pane, alle frutta, ai vassoi delle pietanze, mettendoseli dinanzi, tutti in fila.
— Che fai lì? — diceva alla Marietta guardandola di traverso, diffidente.
Giacinta, rimescolata da una pietà sorda sorda, non poteva più levar gli occhi d’addosso al marito. Provava un intenerimento strano, quasi un bisogno di piangere. E siccome Andrea cercava di prenderle la mano, sotto la tavola, ella la ritirò vivamente.
— Almeno un gocciolino! — replicava il conte. — Il dottore non è qui... Non gli diremo nulla!