Gemme d'arti italiane - Anno I/Paolo e Virginia
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PAOLO E VIRGINIA
gruppo in marmo
di
Alessandro Puttinati
per commissione del Conte Giulio Litta
Havvi una fatalità in alcune arti, le quali, giunte in un’epoca ad un punto estremo dì eccellenza, diventano tiranne del pensiero, e impongono le loro forme alle epoche successive, senza che alcuno ardisca mai ribellarsi e questo giogo che ne impedisce lo sviluppo progressivo. Le generazioni le trasmettono d’una in altra come una tradizione, quasi come una necessità; l’indolenza sistematica degli spiriti ten aci delle vecchie consuetudini ne sanziona la superiorità; e così, accettate sempre per autorità assai più che per sentimento, queste forme passano in retaggio ai più lontani posteri e durano pressoché immutabili.
Questa vicenda, propria specialmente dell’arti plastiche, toccò più che ad ogni altra, alla scultura. Ormai son trascorsi più di venti secoli, dacché lo scalpello greco lasciava monumenti stupendi del bello umano imitato colla pietra, e in tanto svolgersi e succedersi di civiltà diverse il greco pensiero predomina tuttavia nella moderna scultura. Il Cristianesimo trionfò invano degli animi, invano innalzò l’umanità ad un’ideale sconosciuto per l’addietro; la scultura, quand’anche non bamboleggiò dietro le fole mitologiche, rimase sempre pagana per la forma. Perfino nell’epoca, in cui la pittura, rigenerata dal concetto cristiano, vagheggiava un tipo d’angelica purezza, la scultura rinnovava sotto mille forme il concetto greco. E quell’età stessa, che consacrò lo spiritualismo dell’arte nei dipinti del Perugino e di Raffaello, applaudì pure all’apoteosi della forma nelle statue di Michelangelo, del Bologna e del Cellini.
Tuttavia quello era un secolo di reazione verso antichità.
L’Italia dimentica per un istante d’esser cattolica, s’era ricordata solamente d’esser discesa in linea retta da quel popolo eminentemente artistico, di cui ammirava i capolavori. La sua letteratura, troppo innamorata de’ vecchi modelli, non erasi per anco emancipata dalle tradizioni greche. E la vita molle e licenziosa del suo popolo concorreva a mantenere le reminiscenze d’un’età sensuale per eccellenza. Epperò noi vediamo nella Gerusalemme Liberata le divinità mitologiche insieme colle pure inspirazioni del Cristianesimo, vediamo le Sibille dipinte a canto ai profeti nella cappella Sistina, vediamo le statue d’Apollo, di Diana, di Venere confuse insieme con quelle di Cristo e della Vergine. Il Tasso cantava la conquista del Santo Sepolcro, e descriveva ad un tempo i lascivi amori dell’Aminta; Michelangelo dipingeva il più tremendo dei Misteri del Cattolicismo, e dava agli uomini del suo Giudizio Universale le forme dell’Ercole antico.
Ma a poco a poco la reazione cessò. La letteratura assunse forme nazionali e s’identificò colle credenze e coi bisogni del popolo: la musica sorse espressione passionata dei sentimenti e degli affetti comuni; l’architettura cominciò ad accorgersi che lo stile degli edifizj greci non era il più acconcio alle anguste abitazioni attuali; la pittura stessa, esaurita l’inspirazione religiosa, si mise per un nuovo campo, per quello della storia. La sola scultura ostinossi nell’imitazione antica,
e seguitò a riprodurre gli Ajaci, gli Achilli e le Veneri, e quando pure ebbe a ritrarre personaggi contemporanei, non seppe togliersi dal nudo e dal greco paludamento.
Tuttavia, quando un’arte per le continue imitazioni e traduzioni del pensiero primitivo si è svigorita ed esausta, quando non soddisfa più né alle inspirazioni dell’artista né ai desiderj della moltitudine, è d’uopo che sorga per lei un’epoca di emancipazione e di rinnovamento.
L’ingegno ha bisogno di fede, siccome il popolo d’entusiasmo; e qual fede, qual entusiasmo può destare un concetto spento da’ secoli, e in piena contraddizione col sentimento attuale? Nella moltitudine, che trascina la vita sotto il peso degl’interessi materiali, o che invoca un ideale fuori della vita umana, quel senso può svegliare la vista del bello puramente plastico, del sensualismo delle forme? Quel popolo, che ha palpitato nei teatri davanti alla rappresentazione del vero, che ha gridato per commozione sotto il potente fascino d’una musica espressiva de’ suoi affetti, passerà freddo ed indifferente davanti ad opere che gli parlano un linguaggio sconosciuto. E l’artista medesimo, creatore di tali opere, dovrà fare uno sforzo sopra sé medesimo per sottrarsi alla vita reale che lo circonda e per trasportarsi col pensiero ad un’epoca così discorde dalla sua per credenze e per sentimento.
Quest’è una verità non mai bastantemente predicata.
L’arte non fa che tradurre in forme palpabili e durevoli il pensiero dominante della propria età; lo appura talvolta, lo rende ideale, non mai lo travisa o lo rifiuta. Perché 1’arte è fatta pel popolo, e non per gli artisti; e, fintantoché farà duopo una speciale educazione per apprezzarla, quest’arte rimarrà inefficace e vuota d’insegnamento. Apelle esponeva il proprio quadro sulla pubblica piazza, e celavasi dietro quello ad aspettare il giudizio della moltitudine. Né è dirsi che il popolo Ateniese fosse stato per lunghe tradizioni educato al sentimento dell’arte, o che avesse posseduto in modo esclusivo la facoltà intuitiva del bello. No, esso giudicava per istinto, come ogni altro popolo: ma sentiva l’arte, perché l’arte s’identificava colla sua vita. Il cinquecento vide pur esso rinnovarsi per un momento questa concordia di sentimento tra gli artisti e la moltitudine, e anche allora che l’arte diventò imitatrice dell’antico, non fece se non che assecondare la tendenza esagerata degli spiriti. Ma d’allora in poi questa alleanza cessò: lo spirito umano sì mise sopra una nuova via, e l’arte invece sì concentrò, si ristrinse, e cercò in sé sola le proprie ispirazioni.
Questo valga in qualche parte a scusare il pubblico dell’indifferenza con che trae a visitare le Sale dell’Esposizione, non d’altro mosso che da un senso di curiosità. L’accusa di freddezza e di noncuranza, che si getta sul viso all’età nostra, è una vecchia canzone, fatta per accarezzare l’inerte orgoglio degl’impotenti.
Sotto la quieta superficie cova tuttora l’entusiasmo nella moltitudine, e chi l’ha veduta fremere davanti a qualche grande spettacolo della natura, chi la vede tuttodì commuoversi alle calde letture, alle inspirate declamazioni, ai molli o robusti concenti, non può dire che la vita materiale abbia soffocato in lei il sentimento.
Fate che l’arte le parli il linguaggio de’ suoi affetti e delle sue credenze, ed ella aprirà il cuore giubilando e applaudirà all’opera dell’artista.
Ed ecco perché i pochi e veri amatori dell’arte soffermavansi più volentieri e più a lungo davanti al gruppo del Puttinati, che ornava quest’anno le Sale dell’Esposizione. Non era un concetto astruso o simbolico, che avesse duopo d’una particolare spiegazione ad essere inteso; ma una scena semplice, mite, soave, di quelle che accadono ogni dì nella vita, e che si stampano di primo tratto nel cuore. Quand’anche nessuno avesse sussurrato all’orecchio de’ riguardanti il nome dei due personaggi componenti quel gruppo, il piacere da quello destato non sarebbe stato né men vivo ne meno istantaneo. Che importava allo spettatore, che quel garzone seduto in atto di stanchezza e d’abbandono colla destra mano cadente lungo la coscia, e colla sinistra mollemente appoggiata al fianco della fanciulla, si chiamasse Paolo anziché Pietro o Giovanni, e avesse vissuto nell’isola di Francia, piuttosto che in un paesello de’ nostri campi? Che importava che quella fanciulla ingenuamente amorosa, ritta davanti al garzone in atto di accarezzargli i capegli disordinati, portasse il nome di Virginia, o qualsiasi altro nome, e fosse nativa delle colonie, anziché dell’Europa? Non c’era bisogno di risalire ad un tipo conosciuto, di rammentarsi un ideale consacrato da una lunga tradizione, per esser commossi da quell’affetto semplice e casto, che spirava da entrambe quelle statue.
L’ideale ciascuno l’aveva in sé. Per poco che fosse disceso nel fondo del cuore a ridestare tra le sopite memorie qualche remota dolcezza, avrebbe trovato un istante della vita, un solo forse, ma lieto e soave come quello rappresentato dall’artista; avrebbe ricordato qualche estasi giovanile, qualche vergine sentimento, che le ingrate cure della vita possono aver soffocato, ma che la fantasia si compiace ancora tratto tratto di vagheggiare. E l’anima sarebbesi sentita quasi ringiovanire davanti a quel gruppo, e l’immaginazione avrebbe compiuto il pensiero dell’artista, popolando il terreno di fiori e di verzura, e creando intorno a que’ due personaggi qualche ridente campagna consacrata da una cara ricordanza.
La moltitudine non ha d’uopo d’altro. Ch’ella riviva davanti all’opera dell’artista della sua medesima vita, ch’ella parta commossa o consolata de’ suoi propri dolori o delle sue speranze; soprattutto ch’ella rechi con sé un più elevato sentimento della propria natura.
Quei che han letto il racconto di Saint-Pierre avran veduto nel gruppo di Puttinati la creazione del poeta fusa insieme con quella dell’artista, avran ricordato quelle pagine così semplici, così vere, avran ripetuto forse le parole, colle quali è descritta la scena riprodotta dallo scalpello. Paolo, stanco dalle fatiche della giornata, siede sul tronco d’un albero, e ricovra le forze nell’aspetto della sua Virginia. La confidente fanciulla gli si abbandona sul seno, gli racconcia i capegli, gli terge il sudore dalla fronte, e lo conforta di carezze e di baci. - O mia Virginia, dice il giovinetto, posa qui sul
mio seno; questo basterà a ristorarmi d’ogni fatica. – O fratel mio, soggiunge la fanciulla, i raggi del sole mattutino in sulle rocce non mi danno il piacere che provo al tuo aspetto. Quest’è poesia dolce, affettuosa, che sgorga da un’anima vergine, e che s’impronta della semplicità d’una natura primitiva. I più colti fra gli spettatori ne avran cercato la traccia nell’espressione delle due statue, e dal confronto ne avran tratto argomento di maggiore o minor lode all’artista. Ma la moltitudine, ignara d’ogni poetica finzione, non ha veduto in quelle statue nessuna speciale personificazione, ed ha vagheggiato invece un tipo di verità universale, che poteva aver un riscontro in ciascheduno. Ha veduto un garzone ed una fanciulla vestita dei panni che tutti vestono, spiranti un affetto che tutti possono sentire, composti ad un atteggiamento comune a tutti nella vita, e in quell’ideale amoroso ha trovato l’incarnazione del più caro de’ suoi desiderj. La Venere, l’Achille, il Bacco e tutte le statue di concetto antico possono bensì destare il compiacimento dei sensi per la bellezza delle forme; ma non giungeranno mai a svegliare questo palpito di simpatia e d’affetto.
Ma tuttavia questo non è il solo pregio del gruppo del Puttinati: l’esecuzione non è in lui minore del concetto.
L’aria dei volti, la quiete delle pose, la semplicità e la fluidità dei panni, la castigatezza del disegno e soprattutto la verità dell’espressione gli procacciano somma lode anche dal lato puramente artistico. I più arguti osservatori potranno trovar qualche menda, o nella mano sinistra del garzone che sostiene il fianco della fanciulla, o in qualch’altra parte meno appariscente del gruppo: ma la bella composizione, e quel non so che di soavemente tranquillo che spira da quella scena, fanno dimenticare, quando pur vi siano, questi lievi difetti. Si direbbe che l’aria non osi scherzare intorno a quei volti, che non osi turbare quell’estasi innocente, onde son comprese quelle due anime. Nei loro atti havvi un tale abbandono, una tale dimenticanza di sé medesimi, che rallegra il cuore e lo esalta. Ben fuvvi chi disse fredda l’espressione della fanciulla, e notò anzi certa qual severità di linee sul suo viso. Ma quest’accusa cade pressoché interamente, quando si pensi a quel suo affetto così ingenuo e quasi infantile, affetto che per la natura sua misteriosa doveva portare ad una cotal mestizia indefinita. Né fredda può dirsi certamente l’espressione del giovinetto, nella cui persona mollemente abbandonata vedesi lo sfinimento d’una ignota dolcezza, sfinimento che trapela pur dallo sguardo immobile e pieno d’un arcano desiderio. Del resto chi cercasse in questo gruppo l’esaltamento amoroso di Paolo e della Francesca da Rimini, andrebbe errato di gran lunga. Qui son due fanciulli che giuocano, e nei quali l’amore dorme inavvertito nel fondo del cuore. Se l’artista avesse posto sui loro volti la coscienza dell’interno sentimento avrebbe forse guadagnato nell’effetto, ma avrebbe in pari tempo tradito la verità del soggetto.
Sia lode adunque al Puttinati pel coraggioso tentativo di emanciparsi dalle tradizioni accademiche, e portar i suoi studii sulla natura e sul vero. Quand’anche il suo gruppo non fosse adorno di tutti quei pregi di composizione e di disegno che lo rendono una delle migliori opere dell’Esposizione, egli andrebbe sempre encomiato per avere osato pensare al vero scopo dell’arte, per aver sentito il dovere che incombe all’artista di farla camminare di pari passo coi bisogni della civiltà. È tempo una volta che la filosofia stringa alleanza colla pittura e colla scultura, siccome ha già fatto colla poesia e colla musica. Il senso morale dei popoli ha già trascinato con sé più d’un eletto ingegno; ma alla critica soltanto spetta d’esser mediatrice tra la moltitudine e gli artisti. E la critica ha già intrapreso l’opera del rinnovamento. Potremmo ingannarci; ma una nuova era dell’arte si sta maturando, e darà presto i suoi frutti.
C. Tenca