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materiali, o che invoca un ideale fuori della vita umana, quel senso può svegliare la vista del bello puramente plastico, del sensualismo delle forme? Quel popolo, che ha palpitato nei teatri davanti alla rappresentazione del vero, che ha gridato per commozione sotto il potente fascino d’una musica espressiva de’ suoi affetti, passerà freddo ed indifferente davanti ad opere che gli parlano un linguaggio sconosciuto. E l’artista medesimo, creatore di tali opere, dovrà fare uno sforzo sopra sé medesimo per sottrarsi alla vita reale che lo circonda e per trasportarsi col pensiero ad un’epoca così discorde dalla sua per credenze e per sentimento.
Quest’è una verità non mai bastantemente predicata.
L’arte non fa che tradurre in forme palpabili e durevoli il pensiero dominante della propria età; lo appura talvolta, lo rende ideale, non mai lo travisa o lo rifiuta. Perché 1’arte è fatta pel popolo, e non per gli artisti; e, fintantoché farà duopo una speciale educazione per apprezzarla, quest’arte rimarrà inefficace e vuota d’insegnamento. Apelle esponeva il proprio quadro sulla pubblica piazza, e celavasi dietro quello ad aspettare il giudizio della moltitudine. Né è dirsi che il popolo Ateniese fosse stato per lunghe tradizioni educato al sentimento dell’arte, o che avesse posseduto in modo esclusivo la facoltà intuitiva del bello. No, esso giudicava per istinto, come ogni altro popolo: ma sentiva l’arte, perché l’arte s’identificava colla sua vita. Il cinquecento vide pur esso rinnovarsi per un momento questa concordia di sentimento tra gli artisti e la moltitudine, e anche allora che l’arte diventò imitatrice dell’antico, non fece se non che assecondare la tendenza esagerata degli spiriti. Ma d’allora in poi