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aci delle vecchie consuetudini ne sanziona la superiorità; e così, accettate sempre per autorità assai più che per sentimento, queste forme passano in retaggio ai più lontani posteri e durano pressoché immutabili.
Questa vicenda, propria specialmente dell’arti plastiche, toccò più che ad ogni altra, alla scultura. Ormai son trascorsi più di venti secoli, dacché lo scalpello greco lasciava monumenti stupendi del bello umano imitato colla pietra, e in tanto svolgersi e succedersi di civiltà diverse il greco pensiero predomina tuttavia nella moderna scultura. Il Cristianesimo trionfò invano degli animi, invano innalzò l’umanità ad un’ideale sconosciuto per l’addietro; la scultura, quand’anche non bamboleggiò dietro le fole mitologiche, rimase sempre pagana per la forma. Perfino nell’epoca, in cui la pittura, rigenerata dal concetto cristiano, vagheggiava un tipo d’angelica purezza, la scultura rinnovava sotto mille forme il concetto greco. E quell’età stessa, che consacrò lo spiritualismo dell’arte nei dipinti del Perugino e di Raffaello, applaudì pure all’apoteosi della forma nelle statue di Michelangelo, del Bologna e del Cellini.
Tuttavia quello era un secolo di reazione verso antichità.
L’Italia dimentica per un istante d’esser cattolica, s’era ricordata solamente d’esser discesa in linea retta da quel popolo eminentemente artistico, di cui ammirava i capolavori. La sua letteratura, troppo innamorata de’ vecchi modelli, non erasi per anco emancipata dalle tradizioni greche. E la vita molle e licenziosa del suo popolo concorreva a mantenere le reminiscenze d’un’età sensuale per eccellenza. Epperò noi vediamo nella Gerusalemme Liberata le divinità