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valente Bosa, facendo di tante svariate e vivaci scene raccolta, le tradusse sulla tela in tal ordine che quasi presentassero tante pagine della storia popolare dei Veneziani; ed egli poi raggiunse il difficile assunto con tale una verità ed un sapere, che in breve gli guadagnò nome d’uno de’più valenti d’Italia in sì fatti argomenti.
Il quadro sul quale ora dirò alcune parole è anch’esso pagina di questa storia e forse una delle più care e delle meglio condotte.
È in Venezia costume antico che nel primo giorno in cui s’apre un di quei ricetti nei quali il popolo va cosi spesso ad affogare nel vino la ragione e gli affanni, il nuovo Oste dia da bere ad ufo ad ognuno che passa, affinchè vada trombettando per la città l’eccellenza della vernaccia ch’egli spillò dalla botte allora.
Ma quel mezzo solo sarebbe e debole e tardo a procurar pronta fama; e l’Ostiere, che è uomo di attualità e di progresso, ben sa che il più delle volte senza pagare un gridatore pubblico che persuada l’attonito universo esser noi il non plus ultra delle brave persone, l’universo non se ne vuol persuadere. Quindi a guisa di certi cantanti e di certi scrittori, ha anche egli il suo giornalismo assoldato che gli cresce riputazione. Se volete è un giornalismo alla buona che non mette uggie o paure nella repubblica delle lettere, che non va per le stampe, e non fa spendere gli associati; è un giornalismo parlato o meglio gridato, che esce dalla bocca di un buon barcajuolo in tutta confidenza, con una sdrucita camicia indosso e le brache raccenciate, il quale con quanto ha di voce nell’ampio polmome, invita il vicinato a profittar della basa. — E la stentorea sua voce non cade inascoltata nel vano come quella del profeta: