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e ai marmi magnifici furon surrogati pezzi di tarlato legname, e là dove forse un giorno s’alzavano superbamente dorati gli stemmi di patrizia famiglia, ora leggi Nuova Osteria con quel solito festivo W sottoposto che un turista umanitario piglierebbe per una misteriosa allusione al trionfo della plebe sulle antiche feroci oppressure dei signorotti. Su quella porta è una folta di gente che v’entra e n’esce. E in mezzo ad essa spiccano due personaggi indispensabili a quel teatro; cioè il venditore d’ostriche ed il poeta delle Osterie, che mette di buon umore la popolaglia con sonetti e canzoni estemporanee da dieci anni ripetute, e che egli accompagna coll’aspro strimpellamento dell’ingrata chitarra. Povera poesia! ella accarezzata un dì dalle Corti, coronata in Campidoglio, salutata educatrice delle nazioni; vedetela là col cappello pesto dal tempo e dalla pioggia, lacera, affamata, ricovrarsi fra l’orgie briache della taverna a reggersi d’accatto e a domandare, spesso indarno, un tozzo che essa vede gettato ai cani della contrada! Ma almeno in quel colmo di miseria e di avvilimento essa non ha lo sconforto di udir la nazione comandarle imperiosa il silenzio, perché il suo regno è finito; ella non sente lo stridore delle vie ferrate soffocar la voce inspirata e lamentevole de’suoi carmi, e cinquanta economisti dirle che essa non ha più fra gli uomini sede acconcia, perchè non intende le statistiche speculazioni, il sistema penitenziario e i rimedii pel pauperismo. Povera poesia! essa almeno ascoltata adesso nelle Osterie da una plebaglia festosa, trova nella sudicia tana il suo Olimpo e il suo bosco Parrasio, e anche essa in questo giorno d’universale gazzarra, col bicchiere in mano riderà forse del matto secolo