Galateo insegnato alle fanciulle/Lezione VIII - Sensibilità
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LEZIONE VIII.
Sensibilità.
Dotati d’un’anima impressionabile e d’un sistema nervoso perfetto, allorchè non siamo o paralitici od affatto stupidi, egli è impossibile non essere sensibili al bene, al male fisico e morale, nostro ed altrui. Ma questa sensibilità, che l’educazione raffina, nobilita ed ingentilisce, non deve mai eccedere, nè venir guidata dall’egoismo.
Male intendono i giusti limiti della sensibilità quelle fanciulle che si fanno un vanto di non reggere la vista d’un infermo tormentato d’acuti dolori o da ferite e da piaghe; che si svengono al racconto d’un’operazione chirurgica; che fuggono spaventate e strillano all’avvicinarsi d’una vespa, d’un bruco, d’un topo; che tremano e piangono al minimo male fisico; che impallidiscono, si turano le orecchie e chiudono gli occhi per sottrarsi al rombo del tuono e alla rapida e vivace luce del lampo; che amano una bestia più del prossimo; che si commuovono di gioia, si mostrano entusiaste alla semplice promessa d’un bell’abito, d’una festa ecc., o s’offendono, s’adirano, s’imbronciano per la minima causa.
Ortensia era appunto una di queste. Ella vantavasi di essere sensibilissima. Fuggiva l’altrui sventura, perchè troppo la commoveva; piangeva per un nonnulla e tutto urtava in un modo o nell’altro il suo sistema nervoso. In carrozza non poteva occupare che il posto migliore per non soffrire disturbi di stomaco; la luce un po’ troppo viva offendeva le sue pupille; il menomo rumore, un odore acuto le dava il dolor di capo; i cibi alquanto grossolani od a lei non prediletti le riescivano indigesti; il pranzo ritardato di mezz’ora le cagionava languori penosi. Il sole le irritava la pelle ed una passeggiala d’un’ora prostrava tutte le sue forze, l’ammazzava di fatica. Di sera non sarebbe entrata in una camera da sola e senza lume, nè di notte avrebbe dormito, senza compagnia, per tutto l’oro del mondo.
Chi poi avesse ardito rivolgerle uno scherzo, una parola un po’ viva di rimprovero o le avesse negate le cure ed i riguardi che pretendeva, provocava in lei le convulsioni, o per lo meno l’ira sua, in modo da non ottenerne mai più il perdono.
Ortensia con tale smisurata sensibilità era un peso, un fastidio per la sua famiglia e per gli amici, perchè riusciva a tutti impossibile il contentarla e l’evitarle sempre penose sensazioni. Era mestieri che ognuno vivesse per lei ed ella non era capace di essere utile in nulla agli altri. Invece di vedersi stimata ed amata, per questa esagerata, stucchevole sensibilità, contraria alla buona educazione, ella veniva giudicata da tutti un’egoista, noiosa, permalosa, mal avvezzata, schiava delle sue passioni, incapace d’alto sentire, insopportabile. I più benevoli la scusavano col crederla malaticcia o mal ferma di mente. Emilia invece, senza parlar mai della sua sensibilità, era di fatto di tempra assai più sensibile di Ortensia. Con pazienza sopportava i piccoli incomodi della vita, come la stanchezza d’una lunga passeggiata, il caldo, il freddo, il sole, la pioggia, il vento, la sete, il languore, ovvero un posto disagiato in carrozza, in chiesa, in teatro, a tavola, in letto, un rumore fastidioso, un odore poco soave, un cibo non piacevole, il discorso d’una persona molesta, un lavoro poco geniale ecc; mostravasi sempre ugualmente contenta ed ilare e s’uniformava ai progetti, ai desiderii altrui per non offendere la suscettività di alcuno o recar disturbo a chicchessia. — Se poi trattavasi di curare un ammalato, di consolare un afflitto, di riconciliare gli animi irati di alcuni suoi cari, benchè soffrisse immensamente dentro di sè, sapeva vincersi, e neppure il più orrendo spettacolo di dolore l’arrestava dal compiere la sua opera di misericordia o di pace. — Ella assisteva impavida a qualunque chirurgica operazione, porgeva gli ultimi conforti ai moribondi, s’esponeva al pericolo di malattie contagiose, si spogliava del suo per soccorrere gl’indigenti, senza però mai vantarsene, e mostrando così d’amare il prossimo, il suo dovere di cristiana, più delle sue ricchezze, della sua quiete, della sua stessa vita, ed era salutata ovunque l’angelo di carità.
S’ella poi soffriva qualche male fisico, lo accusava alla madre, al medico per liberarsene il più presto possibile, ma astenevasi dal gemere e lagnarsene per non affliggere i suoi cari. Questa sensibilità, figlia mia, non ti pare più nobile, più utile, più conforme alla religione di quella d’Ortensia?
La ben intesa sensibilità dev’essere più nel cuore che nella fantasia o nelle parole. Chi ben dirige questa potente molla si commuove a tutto ciò che è grande, santo, sublime. Iddio, la patria, l’umanità, la famiglia, la verità, la scienza destano in un cuore nobilmente sensibile puri e vivi affetti, i quali infondono la forza del sacrifizio ed in solenni momenti fanno della donna un’eroina, una martire.
Rammentati, Mariuccia mia, che il piangere al pianto altrui è prova di miglior cuore che annoiarsene e fuggirlo, ed il rasciugarlo con validi soccorsi, potendo, od almeno con soavi e confortevoli parole, è pietà efficace, che ci procura le più dolci consolazioni. Oh! se tutti i doviziosi conoscessero le pure gioie della beneficenza, quanti felici di più vi sarebbero, che non profondendo e sciupando le loro ricchezze in vanità, in frivoli passatempi ed anche peggio, attirandosi l’invidia e fors’anco l’amara censura del povero, invece delle sue benedizioni!
Guendalina Borghese, ricca dama che all’avvenenza del volto accoppiava nobiltà e squisitezza di sentire, spese l’intiera sua esistenza in favore degl’indigenti. Invece di feste, di nuove mode bizzarre ed eleganti, invece di consacrarsi al feticismo d’un cane, d’un pappagallo e simili, ella si occupava a fondare istituti pii, visitava i poveri ne’ loro tugurii, li istruiva nei loro doveri, li confortava colla soave sua parola, li provvedeva di lavoro, e soffriva non riuscendo a soddisfare a tutti i loro bisogni materiali e morali.
Quando, ancora in freschissima età, ella morì, tutta Roma la pianse, come madre, come l’angelica benefattrice, come un essere più unico che raro, mandato da Dio sulla terra per dare l’esempio della vera pietà.
Vi sono persone a poca squisitezza educate, che accusando la loro impressionabilità nervosa si fanno quasi un pregio di sentire molte antipatie, che manifestano poi con volti severi, motti sprezzanti ed alti impazienti. Guàrdati carina mia, dall’imitarle! L’antipatia non si deve sentire che pel vizio, mostrando commiserazione per lo stesso vizioso, il quale a volte per colpa altrui, più che non per sua propria, fu trascinato sopra un cattivo sentiero; e forse chi sa quanto ei soffra di non poter trovare da sè la forza d’emendarsi! Vi sono poi altre persone dotate da natura di tale freddezza ed apatia che non sanno comprendere, nè compatire la maggior commovibilità dei temperamenti nervosi e ne deridono o sprezzano il dolore, accusandoli di esagerazione, di sentimentalismo, perchè non sono atti a mostrarsi calmi, indifferenti al par di loro. Esse si rendono, per tal modo, quasi crudeli! Non lutti hanno lo stesso grado di sensibilità ed è assurdo il pretendere che tutti sentano come noi. La carità c’insegna a compatire chiunque soffra, e l’umiltà a non istimarci più perfetti degli altri. Il Vangelo dice che noi vediamo il fuscello negli occhi altrui e non ci accorgiamo della trave che sta nei nostri. Abbi sempre presente questa giusta allegoria, e pensa che se scorgi dei difetti ne’ tuoi simili, probabilmente ne hai de’ maggiori ancora da correggere in te medesima.