Firenze vecchia/VI. Il ritorno di Ferdinando III in Firenze
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VI
Il ritorno di Ferdinando III in firenze
Preparativi - II ricevimento - L’ingresso del Granduca in città - L’anfiteatro della piazza San Marco - In Duomo - A Palazzo Pitti - L’arrivo di Leopoldo, principe ereditario - Sempre festeggiamenti - Il «grande appartamento.»
Ma il giorno desiderato, il giorno tanto aspettato da tutti, eccettuati coloro, ed erano pur troppo i meno, che si scoraggiavano di fronte a tanta debolezza di un popolo che applaudiva sempre al giogo, fu il 17 di settembre 1814, nel quale Ferdinando III avrebbe fatto il suo trionfale ingresso in Firenze.
Era un vero fanatismo.
Già fin dal dì 1 5 il Granduca aveva mandato da Bologna, per mezzo del principe Rospigliosi che si era recato lassù ad incontrarlo, al segretario d’etichetta Giuseppe Corsi, gli ordini per la funzione del suo ingresso in Firenze; ed il giorno seguente, il signor Gaetano Rainoldi, direttore della reale Segreteria di Gabinetto, tenne formale sessione con i consiglieri Fossombroni e Frullani, ed il Presidente del Buon Governo Aurelio Puccini, onde circolare gli ordini del Sovrano, e dare tutte le necessarie disposizioni. Nella mattina vennero affìssi dappertutto proclami e motupropri, che ristabilivano vari uffìzi soppressi; e dalla Segreteria del Buon Governo fu affìssa una notificazione per il regolamento delle carrozze dei signori intimati, non invitati, alla sacra funzione da farsi nella Metropolitana; e più che altro concernente «il pacifico contegno da tenersi dai sudditi all’arrivo del Real Sovrano in città, e suo tragitto al Real Palazzo.» Nonostante tutto il giubbilo, le lacrime di tenerezza, gli evviva ed i singhiozzi, non c’era proclama che non invitasse il popolo a tenere un pacifico contegno. O dov’era tutta la bontà di quel popolo?
Il maire, che da quel giorno riprese il suo titolo di Gonfaloniere, emanò un editto, col quale si «comandava e intimava» che all’arrivo del Sovrano fossero suonate tutte le campane e nella sera fosse fatta una generale illuminazione.» Più spontanee di così le feste non si possono immaginare !
In vari punti della città si vedevano impastati sui muri dei fogli con lo stemma granducale sul quale era scritto «Viva Ferdinando »; di fogli simili si servirono poi per i fanali della illuminazione.
Dalla Soprintendenza delle «Reali Possessioni» fu fatta annaffiare la strada da via San Gallo fino alla Villa Capponi alla Pietra, da dove sarebbe partito il «Real Sovrano» affinchè egli al suo passaggio non mandasse tanta polvere negli occhi ai sudditi fedelissimi, e al tempo stesso non apparisse in un nuvolo della stessa polvere a guisa di nume.
Non eran però terminate qui le disposizioni, gli editti, le intimazioni e gli inviti. Dalla Segreteria di Stato vennero intimati tutti i capi di dipartimento a presentarsi al Sovrano al suo arrivo a Palazzo: ed un pari invito fu fatto agli arcivescovi e vescovi che s’eran recati alla capitale, per essere presenti all’arrivo di Ferdinando III. A quei tempi, i preti, rigavan molto diritto, col Granduca, per quanto li tenesse a bacchetta come subalterni, sebbene apparentemente fossero trattati con la massima deferenza! Non per nulla gli impiegati di Corte ed i camerieri chiamavano il Granduca «il padrone.»
L’avvenimento del ritorno di Ferdinando III suscitò la gara in tutti del più smaccato zelo. Primi furono gli uffiziali «del nuovo corpo dei Dragoni toscani,» o cacciatori a cavallo i quali domandarono di far servizio come Guardie del Corpo: perciò furono intimati per mezzo del supremo comando militare, a guarnire le regie anticamere, continuando il sistema praticato dal 1791 al 1799.
Molti signori fiorentini andarono a complimentare S. A. I. e R. alla sua villa di Cafaggiolo, dove si trattenne tutto il giorno 16 di settembre predetto «per consacrarsi ad alte cure di Stato, vale a dire alla scelta dei principali ministri.» Ed i ministri prescelti furono il cavaliere Vittorio Fossombroni, «personaggio omai vantaggiosamente noto all’Europa scientifica e diplomatica,» il quale fu nominato ministro degli Affari esteri «ufficio che aveva conseguito sin dal 1796, ad intuito di Napoleone, sagace conoscitore degli uomini.» Il Fossombroni fu anche eletto segretario di Stato. Don Neri Corsini venne destinato agli Affari interni, e Leonardo Frullani alle Finanze.
Si recò a Cafaggiolo anche una deputazione della Accademia delle Belle Arti, per presentare il prospetto della grandiosa festa da essa preparata sulla Piazza di vSan Marco, supplicando il Sovrano ad accettare questa dimostrazione d’affetto e di rispetto dei componenti l’Accademia medesima. Il giorno seguente, non era appena spuntata l’aurora «che la popolazione fiorentina era in moto per aspettare il sospirato arrivo dell’amato sovrano, facendo risuonare l’aria di dolci acclamazioni di gioia.» Era un giubbilo che avrebbe intenerito le pietre!
Una gran quantità di carrozze e di persone a cavallo «per anticipare il contento di vedere la reale altezza sua nel suo ingresso a Firenze,» si recarono fuori della porta a San Gallo fino oltre il Pellegrino. Tutta la milizia, tanto toscana che tedesca, fin dalle sette antimeridiane era già postata per tutta la strada che doveva tenere il Sovrano, e schierata nell’interno del Duomo, per il solenne Servizio di Chiesa.
Alle otto Ferdinando III giunse con la sua comitiva alla deliziosa villa del marchese Pietro Roberto Capponi alla Pietra, ove fu ricevuto dal suo nuovo ciambellano cavaliere Amerigo Antinori e dai due ciambellani di settimana Corsi e Aldobrandini.
Il Granduca appariva mestissimo, poiché in quel momento gli tornava certo alla memoria, benché fossero trascorsi dodici anni, la infelice sua moglie morta a Vienna di parto, il 29 settembre 1802, che avendolo confortato nei primi anni del suo esilio, con tutta la soave delicatezza dell’animo suo, non era ora con lui a dividere la gioia del ritorno negli antichi Stati.
Certi ricordi, seppure carissimi, in simili circostanze, hanno tutta l’atrocità d’una pena!
Riposatosi alquanto, e cambiatisi gli abiti da viaggio per vestire il grande uniforme, Ferdinando III prese posto in una muta a sei cavalli «infioccati a gala» in compagnia del maggiordomo maggiore principe Giuseppe Rospigliosi, e del gran ciambellano già senatore Amerigo Antinori.
Seguiva quindi un’altra muta a sei cavalli con quattro ciambellani. La muta del Granduca era scortata da dodici ufiìziali del nuovo corpo dei Dragoni, i quali avevano ottenuta quella grazia, e alla portiera cavalcava il maggiore comandante il reggimento medesimo. Dalle fortezze rimbombavano le artiglierie, a cui faceva eco il suono delle campane di tutte le chiese, con universale frastuono.
Alla porta a San Gallo, Ferdinando fu ricevuto dal Gonfaloniere Bartolommei, dai Priori e dal Magistrato civico. Il Gonfaloniere gli presentò le chiavi della città; ed essendosi preparato per fare un «ben inteso discorso» analogo alla circostanza, «tale e tanta fu l’emozione provata da esso e dal Sovrano, che troncata ad ambedue la voce, le sole lacrime di tenerezza del Gonfaloniere e Priori furono l’omaggio reso in nome di tutta la città.» Cosicché «il ben inteso Gonfaloniere di Firenze.discorso» nessuno lo udì, e forse per questo tutti credettero che sarebbe stato un gran bel discorso. Il silenzio è d’oro! Anche il popolo, a detta dei cronisti, era in preda alla più grande commozione, poiché, «con unanime voce di giubbilo» festeggiò il felice ingresso del Sovrano nella «esultante sua bene amata patria!...»
Dopo il ben inteso discorso non proferito, le lacrime del Gonfaloniere, dei Priori, del Magistrato civico, ed il giubbilo del popolo, principiò a sfilare il treno consistente «in vari corrieri a cavallo uniformemente vestiti; quindi il direttore delle Poste già senatore cavaliere Pietro Salvetti, in un carrozzino a due cavalli in posta, e la banda detta dei Porti di Piazza elegantemente da sé stessi vestiti.» Dipoi seguiva un distaccamento di granatieri, la banda militare, una divisione di truppa toscana e tedesca; la muta del Real Sovrano e quella dei ciambellani, chiudendo un distaccamento di Ulani tedeschi a cavallo, perchè senza truppe straniere, pareva che le feste non fossero italiane! Il corteggio prese di via San Gallo, voltò in via degli Arazzieri: ed arrivato in piazza San Marco, fece il giro dell’anfiteatro per godere la festa data dall’Accademia di Belle Arti.
Questo anfiteatro era formato di varie gradinate «a semicircolo adornate di verzura e fiori.» Nel mezzo ergevasi una macchina trionfale ornata ai quattro lati di varie pitture in bassirilievi. Il primo rappresentava la Religione seduta su varie rovine sacre, e l’Arno abbracciato dall’Abbondanza che si rallegra con esso. Cose da fare scoppiare il cuore! Nel secondo la Pace che arde con una fiaccola un mucchio d’armi sul quale due guerrieri quasi stanchi di fare il guerriero, gettano le loro spade che si cangiavano in aratri ed arnesi rurali, né mancavano due bovi aggiogati, e delle g’iovani coppie di ninfe e pastori che ballavano. Nel terzo eran rappresentate le primarie città della Toscana, che prestano omaggio al Sovrano, appoggiato presso il fiume Arno sull’urna liberale delle sue acque. Il quarto bassorilievo raffigurava il Dio del Commercio, che consolava l’addolorata Toscana additando Livorno rinata alla navigazione e al commercio.
Sull’alto della macchina vedevasi il carro trionfale, «ove era assiso in statua colossale il Sovrano, tirato dalle quattro virtù: la Vittoria, la Concordia, la Giustizia e la Pace.» Un tiro a quattro da Dei più che da sovrani.
Appena giunto Ferdinando III, una numerosa orchestra di suonatori e di cantanti diedero principio ad una cantata scritta espressamente per quella circostanza straordinaria. «L’armonia del suono, l’applauso universale dei concorsi spettatori, le cannonate» trascrivo le parole del Diario «e il suono delle campane, commossero tanto il Sovrano, che tutti potettero vedere che egli spargeva lacrime di tenerezza e consolazione.» Fatto un giro nel circo senza quasi veder nulla dalla soverchia emozione, seguitò per via Larga fino al Duomo.
Alla porta della metropolitana fu iìicontrato da vari vescovi e arcivescovi della Toscana, eccettuato quello di Firenze rappresentato dal vicario capitolare monsignor Niccolini, che era alla testa del clero e dei canonici. Il canonico Carlini, suddiacono, porse l’acqua santa al Sovrano, che si trovò dinanzi ad un numero infinito di consiglieri di Stato, ciambellani, nobili e uffiziali, «tanto esteri che nazionali,» i quali erano andati ivi ad aspettarlo per fargli atto d’ossequio. Appena entrato, il popolo con un viva universale ha fatto conoscere il suo attaccamento, tacendo da per tutto risuonare il nome di Ferdinando: e tale fu la commozione del Sovrano, che percorse tutta la chiesa «rasciugandosi col fazzoletto le abbondanti lacrime che la gioia e la riconoscenza le faceva spargere». Cantato il Te Deum, il vescovo di Siena diede la benedizione; ed il Granduca tornò a’ Pitti prendendo dal Canto alla Paglia, da Santa Trinità, via Maggio e lo Sdrucciolo. Al corteggio del Sovrano si erano unite tutte le carrozze della nobiltà, dei consiglieri e di altre persone «che avevano l’onore dell’anticamera». Doveva essere un colpo d’occhio stupendo! «Oltre l’immensa quantità di popolo, era meravigliosa la vaghezza degli apparati e dei tappeti che ornavano tutte le finestre delle case e le botteghe piene zeppe di spettatori. A’ Pitti il Granduca fu ricevuto dai quattro ciambellani principe don Tommaso Corsini, duca Ferdinando Strozzi, comm. Alamanno De Pazzi e senatore Marco Covoni».
Passato subito nel quartiere detto delle Stoffe, Ferdinando III si affacciò alla terrazza per salutare il popolo che applaudiva freneticamente, con la sola compagnia del maggiordomo gran ciambellano Antinori. Sfarzosissimo fu l’apparato di tutte le strade da porta a San Gallo al Palazzo; ed in alcuni punti formava un sorprendente colpo d’occhio.
A mezzogiorno, il Granduca diede udienza a tutte le au- torità e cariche dello Stato; ed in ultimo al generale conte di Staremberg con tutta l’ufficialità e lo stato maggiore della truppa toscana e tedesca.
Dopo il ricevimento, andò a pranzo col principe Rospigliosi, con l’Antinori, e con i ciambellani Badeck e Reinack: e nelle ore pomeridiane si recò al passeggio delle Cascine in una muta a sei cavalli, con gli ufficiali del nuovo Corpo dei Dragoni che gli facevano scorta, con i quattro personaggi e i due ciambellani di settimana. Al ritorno, andò per la città sempre con lo stesso treno fino a piazza San Marco per godere lo spettacolo dell’illuminazione, e quindi tornò al Palazzo, ove cenò con le cariche di corte. Il giorno seguente, 18 settembre, arrivò a Firenze alle sette e mezzo di sera anche l’arciduca Leopoldo, Principe Ereditario di Toscana accompagnato dal marchese Araldo suo aio e dal conte Opizzoni sotto aio. In un’altra carrozza erano i precettori abate Biondi e abate Rossola, l’aiutante di camera Nasi, e negi altri legni il resto del suo particolare servizio. L’ingresso dell’arciduca Leopoldo fu festeggiato da un’immensa quantità di popolo.
Fu ripetuta quella sera l’illuminazione, ed il Principe passò egli pure per l’anfiteatro seguitando per il Canto alla Paglia, da San Gaetano e dall’Albergo del Nord, dove è tuttora la locanda del Nord, presso il ponte a Santa Trinità. Quivi fu ricevuto da diversi cittadini pazzi per la casa d’Austria, che furon poi i codini del quarantotto, i quali coi torcetti di cera «alla veneziana gli fecero treno fino alle scale del real Palazzo».
Il Granduca con le sue cariche si recò ad incontrare il diletto figliuolo al primo ripiano della scala, e dopo averlo abbracciato e baciato, lo accompagnò fino in camera sua, dove si trattenne con lui fino alle otto.
Dopo cena l’Arciduca andò a letto, ed il babbo andò invece al Teatro del Cocomero oggi Niccolini, il teatro aristocratico della prosa; ove fu accolto da triplicati applausi. Non e’ erano, in quei giorni, persone più felici dei fiorentini!
Il giorno appresso l’arciduca Leopoldo andò al «passeggio » delle Cascine a farsi vedere anche lui con muta a sei cavalli, secondo il consueto. Tutta la gente che non lo conosceva accorreva a vederlo, perchè essendo andato via di due anni, ora era sviluppato in lunghezza, ma non era un bel ragazzo. La sera alle sette e mezzo arrivarono anche le arciduchesse Maria Luisa Maria Teresa figlie del Granduca. Esse erano in carrozza a sei cavalli, accompagnate dall’aia e dalle dame.
In tiro a quattro seguivano le loro cameriste Schregel, Venner, Del Greco e Cautrer. Dietro, in altre carrozze, le persone di servizio e le donne di guardaroba. Sempre più affollato era il popolo a ricevere le Arciduchesse, in onore delle quali ripetè l’illuminazione della città; e dall’albergo del Pellicano un maggior numero di torce alla veneziana portate da diversi individui, rischiarò fantasticamente la strada fino a’ Pitti. Il Granduca ed il fratello andarono a riceverle, e alle nove si riunirono a cena.
Tanto per la cittadinanza che per il Granduca e tutta la famiglia, cominciò una specie di carnevalino, poiché dopo le tre sere d’illuminazione generale della città furono fatte il 25 e il 27 di settembre a spese del Comune le feste di San Giovanni che si solevan fare il 24 di giugno. Questo forse fu un pensiero gentile verso il Sovrano, per rimetterlo in pari con gli arretrati dei quindici anni trascorsi fuori.
Firenze, in quei giorni, era piena di forestieri, che andaron matti alla corsa dei cocchi fatta con le bighe alla romana in piazza di Santa Maria Novella.
Il Granduca con i principi in tre carrozze a pariglia, con due cavallerizzi di sportello alla carrozza del Sovrano la quale era scortata da ufficiali dei dragoni, non essendo ancora ricostituita la Guardia del corpo, andarono alla corsa dei cocchi, e presero posto alla consueta terrazza sopra la loggia di San Paolino. L’anfiteatro della piazza rigurgitante di popolo, animato e festante, presentava un colpo d’occhio magnifico. Prima di dare il segnale della corsa furono serviti, secondo l’usanza di corte, abbondanti rinfreschi di gelati «ed acque acconce».
Le persone di servizio dei sovrani con biglietti speciali del Maestro della Real Casa assisterono allo spettacolo dal palco di Corte, lasciando libero lo spazio assegnato ai paggi e ai loro precettori, che ancora non erano stati nominati.
La sera alle otto la Corte si recò al casino di San Marco per godere della rinnovata festa dell’anfiteatro fatta pur quella a spese del Comune, che fece illuminare tutta via Larga (ora via Cavour) via del Cocomero (via Ricasoli) e la facciata della Torre del Maglio, lungo le mura in fondo alla strada che oggi si chiama via Lamarmora.
Come sorpresa, fu incendiato dopo «la cantata» un grandioso fuoco d’artifizio rappresentante il tempio della Gloria; e sotto, in un ben inteso e anche ben visto trasparente illuminato, apparì il ritratto del Sovrano circondato dalla Giustizia e dalla Clemenza. Gli spettatori a tale impensata sorpresa applaudirono freneticamente. Ed il Sovrano sentì il dovere di commuoversi, secondo il solito, quasi fino alle lacrime.
Lacrime di tenerezza eran coteste, che gli facevan bene, poiché sollevavano il suo cuore oppresso dalla gioia!
La domenica 25 settembre, come se tutte le feste fatte fino allora non bastassero a manifestare l’esultanza dei fiorentini per il ritorno del padrone, il Comune terminò la ripetizione delle feste di San Giovanni, con la corsa dei barberi dalla porta al Prato alla porta alla Croce.
La Corte vi andò con le carrozze di gala a sei cavalli, preceduta da due battistrada pure in livrea di gala, scortata dai soliti ufficiali dei dragoni, e tutte le cariche, le quali in tre mute anch’esse di sei cavalli e livree di gala, precedevan quella del Granduca e dei principi. Alle quattro e tre quarti il sovrano e i principi presero posto al terrazzino in fondo a Borgognissanti «mentre molta nobiltà estera e nazionale fece corte alla reale famiglia. Secondo il solito prima della corsa furon distribuiti abbondanti rinfreschi di gelati; ed alle Loro Altezze venivan offerti dai due ciambellani di servizio» ai quali per regola d’etichetta Pagina:Giuseppe Conti Firenze vecchia, Firenze 1899.djvu/114