Fior di passione (Serao)/Un inventore
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Un Inventore.
— Ebbene, Ulrich, non mi rispondi? — chiese Lottchen, molto indispettita.
Egli stava ritto presso la finestruola archiacuta, dai vetri impiombati, guardando fisso nella viottola. Nell'ombra della sera che cresceva, il suo duro ed energico profilo teutonico si addolciva; e il corpo alto si curvava, quasi preso dalla stanchezza.
— Ulrich, tu non mi ascolti — ripetè Lottchen, con una certa tristezza nella voce.
Egli si volse, e sulle sue labbra spuntò un sorriso debole ed indeciso. Lo sguardo gli vagò incerto per la stanzetta, come se la mente lo mandasse in traccia di un pensiero smarrito.
— A che pensavi tu dunque, mentre io ti parlava?
— A nulla, Lottchen — disse finalmente lui, con la sua voce grave e sonora.
— Sempre così, sempre così, Ulrich. Tu mi ami molto meno delle tue sciocche fantasie.
Ulrich chinò il capo, e parve che attorno maggiormente gli si addensasse l’ombra. Mentre Lottchen continuava a tormentarlo ed a tormentarsi, ricominciando per la centesima volta le sue recriminazioni, egli non osò risponderle parola. La fanciulla si chinava verso di lui per vederne il volto, ma si ritraeva scontenta: sulla faccia di Ulrich non si vedeva alcuna impressione. Solo un lieve tremolío gli agitava le dita. Infine la bionda Lottchen si tacque, stringendosi nelle spalle, come se dicesse che tutto, tutto era inutile; ed i due fidanzati stettero per tanto tempo in quel silenzio penoso, pieno di pensieri dolorosi. Ad un tratto, mentre una fantesca posava un lume monumentale sopra la tavola, una voce infantile gridò di fuori:
— Zio Ulrich! zio Ulrich!
Ed un bambino entrò correndo nella stanza, cercando d’arrampicarsi sulle ginocchia del giovanotto. Quando ebbe conquistato quel posto, col tono lento e carezzevole dei bambini, gli domandò:
— Me lo fai un giocattolo, zio Ulrich?
Ulrich impallidì, arrossì e posò una mano sul capo del bimbo.
— Te lo farò, Hans.
— Bello?
— Bello.
— Un giocattolo che avrò io solo, io solo?
— Tu solo.
— Uno di quei giocattoli belli belli che tu solo sai fare?
— Sicuro, uno di quei giocattoli belli che io solo so fare.
Ulrich per la prima volta sorrise d’orgoglio: ma fu anche una lagrima di orgoglio offeso quella che Lottchen celò andando in un’altra stanza. Il bimbo rideva e stringeva le mani, quasi che possedesse già il prezioso giocattolo.
Perchè, pochi lo sanno e nessuno ci pensa, ma è una piccola città di Germania quella che fa contenti tutti i bambini dell’Europa. Da Nuremberg, la città gotica, dall’architettura fantastica e bizzarra, dalle torricelle merlate e dalle case di legno, dalla piccola Nuremberg partono i tesori che destano il riso sulle labbra infantili: le bambole dal roseo viso di cera, dagli occhi azzurri senza pensiero, dai capelli biondi come la stoppa; i fantoccetti vestiti da zuavo, da Arlecchino, da Rigoletto; le armi miracolose, le trombettine di stagno dal suono stridulo; le scatole donde vengono fuori le casettine microscopiche che puzzano di vernice fresca, gli alberetti fatti con un bastoncello ed un fiocchetto di trucioli tinti di verde, i piccoli appartamenti, le piccole cucine, i piccoli animali, i piccoli soldati ed infine tutto il mondo minuscolo, la vita microscopica che prepara il bimbo alla vita vera. In Nuremberg, città della gioia e della tranquillità, dove gli innocenti operai delle fabbriche di giocattoli sorridono nella consolazione di una coscienza soddisfatta; in Nuremberg dovrebbero andare in gaio pellegrinaggio tutti i bambini, accompagnati dalle madri giovanette, processione fulgida e meravigliosa. Ma dovrebbero salutare con le grida d’allegria la casa di Ulrich, il grande ed ignoto artista, il grande ed umile inventore.
Ulrich era stato un bimbo infelice nella casa di una dura matrigna. Sapeva quante lagrime segrete si possono versare in una notte, come possano soffocarsi mordendo il lenzuolo; aveva conosciuto la monotonia delle lunghe ore, passate in un angolo oscuro, sopra una seggiolina, con le mani in grembo. Non aveva giocattoli e ne vedeva dappertutto e ci pensava spesso, e li desiderava tacitamente e li chiamava nel suo cuore. Chiudendo gli occhi, li rivedeva nella sua mente e li scomponeva, li ricomponeva, cercava loro una forma nova. Passando dinanzi ad una fabbrica, guardava, timido, per la porta socchiusa. Stare là dentro sarebbe stata per lui una felicità. Quelle bacchinucce, quei pennelli, quegli strumentini, quei lembi di stoffa, quei pezzetti di legno, lo seducevano, lo affascinavano. La notte li sognava. E anche di giorno egli era un sognatore, perduto nella contemplazione del suo fantasma. Egli vedeva nella sua immaginazione nuovi congegni, combinazioni strane ed audaci; e fuori egli rimaneva un pallido e debole adolescente, dalle labbra smorte, dallo sguardo errante, troppo alto, troppo magro, talvolta abbattuto ed inerte, talvolta arse le guancie dalla febbre dell’idea. Quando entrò come operaio nella fabbrica, credè di essere diventato un re; ma soffrì profondamente, perchè il lavoro usciva dalle sue mani rozzo e incompiuto. Egli piangeva di rabbia per quelle spaventose difficoltà manuali, ed avrebbe voluto mordere le dita incapaci di tradurre in atto le sue fervide creazioni. Si castigò, condannandosi, lui che aveva un mondo nel cervello, a lavorare di copia, a seguire i modelli antichi. Visse un altro anno in desiderio raddoppiato, ardente, contenuto; si consolava passeggiando sulla piazza e guardando i bambini che s’inseguivano. Provava una grande tenerezza che gli faceva venire le lagrime agli occhi. In fondo era rimasto anche lui un bambino, col cuore buono ed appassionato.
Così, a poco a poco, egli dominava e vinceva la materia, e le sue dita diventavano esperte e leggiere, affinando la loro sensibilità, ed egli potè metter fuori il lavoro utile, le idee nuove che s’erano chiuse come fiori al caldo della sua fantasia. Tutto consisteva nel dare una parte d’anima ai giocattoli, nell’imprimer loro un soffio di vita: fu lui che inventò la bambola, la quale, coricata, chiude gli occhietti, quella che dice papà, mammà, quella che saluta col capo, quella che nuota come una ranocchia. Subito il direttore della fabbrica gli assegnò una stanzetta solitaria, dove potesse lavorare tranquillamente ai modelli che gli altri operai dovevano riprodurre. Da quella stanzetta uscivano tutte le piccole meraviglie che sono la consolazione dell’infanzia. Il sorcio volante che si precipita per due trampoli di legno; il ginnasta che sale per una scaletta con l’agilità di uno scoiattolo e si slancia dall’altra parte, per ricominciare ogni momento il suo gioco; il coniglio accovacciato che suona il timpano, abbassa la testa e si frega il muso con le bacchette; il violinista vestito da marquis, in raso ed oro, che nel medesimo tempo suona il violino e balla un passo di gavotta; le oche, le anitre, le navicelle galleggianti attirate alla sponda da un pezzetto di calamita; i cavallini galoppanti, le carrozzette semoventi; tutto questo usciva dalle mani fatate di Ulrich. La sua ispirazione non si fiaccava mai: talvolta egli si stringeva la testa calda fra le mani gelate, per timore gli scoppiasse, tante idee battevano contro le pareti del cervello per uscire; correva di notte, nella campagna, facendosi soffiare il vento aquilonare sul volto. Quando cominciava il lavorío interno per qualche cosa di nuovo, egli si concentrava profondamente e nulla valeva a distrarlo: nè la voce di Bertha sua sorella, nè quella di Lottchen, la fidanzata che egli amava nei suoi momenti di libertà. L’arte ha questi feroci egoismi. Finalmente l’opera veniva alla luce, dopo tre o quattro giorni, tre o quattro notti passate nel laboratorio, curvo sui suoi congegni delicati, senza nè dormire, nè mangiare, non toccando neppure il boccale di birra che gli ponevano accanto; l’opera veniva alla luce bella e perfetta. Allora egli sorrideva, cantava, ballava dalla gioia, amava Bertha, amava Lottchen, amava tutto il mondo, viveva, scendeva in piazza, acchiappava un par di bambini e li soffocava di baci, mormorando, balbettando che aveva lavorato per essi, che li voleva veder contenti per quanto egli aveva sofferto. E il suo pensiero si fermava sulle infinite testoline bionde e brune che sono le stelle della terra; si fermava con orrore nelle cupe officine, dove tristi inventori lavoravano a creare un’arma nuova e più delle altre micidiale — ed allora l’anima sua si allargava nell’orgoglio di un lavoro onesto e giocondo.
Malgrado la sua cera assorta, noncurante, le sue distrazioni, il suo silenzio, la gente gli voleva bene. Il direttore se lo teneva caro, sfruttandone il genio inventivo. Bertha lo curava come un grosso bambino inesperto, dandogli sulla voce, carezzandolo, dirigendolo in tutte le azioni della vita in cui si mostrava tanto ingenuo. Lottchen lo disprezzava, lo tormentava e lo amava. I bambini se lo mostravano a dito nella via, gli tenevano dietro, gli saltavano addosso, gli frugavano nelle tasche, era la divina provvidenza per loro. Egli camminava colla testa nelle nuvole, artista innamorato dell’arte, sognatore incorreggibile, con le dita che gli si movevano come se toccassero molle misteriose. L’idea fissa scacciava a poco a poco tutte le altre. Alle volte si stordiva tanto da rimanere inebetito per un paio di minuti; poi nel cervello cominciava una ridda infernale d’idee che cozzavano fra loro, e allora gli operai non avevano il tempo di copiare un modello che già dalla cameretta usciva nuovo lavoro. Il direttore sorrideva. Lottchen diventava sempre più triste, sempre più collerica; il polso di Ulrich era mosso da una febbre continua che ne consumava e rinnovava il sangue. Egli si faceva sempre più esperto nell’arte, ne aveva penetrati tutti i segreti: era arrivato alla finezza dell’ultimo tocco, della più lieve sfumatura, all’eleganza più leggiadra, al gusto raffinato, alla solidità, a tutte le qualità riunite insieme in un’armonia completa. Creava dei giocattoli meravigliosi — e mai, mai si era sentito così intensamente felice.
Il direttore gli dava sempre notizie del favore che toccava a que’ giocattoli. Venivano grandi ordinazioni. Solamente, un giorno, gli disse con un mezzo sorriso:
— Siate più semplice.
Ulrich non vi badò. Anzi, nella sua mente s’intrigavano, si complicavano sempre più mille forme, mille congegni. Fece un uccellino che apriva le ali, gonfiava la gola e cantava. Il direttore lo ammirò, ma non molto; fece qualche difficoltà per le riproduzioni, poi non disse più nulla. Dopo un paio di mesi, duramente:
— Sapete, Ulrich? L’uccellino ha fatto fiasco. È troppo ingegnoso: i bambini non lo capiscono.
Il povero artista impallidì e tacque. Solo, pianse. Ecco che i bambini non lo comprendevano più, adesso! Si spezzava dunque il grande legame fra lui e il suo piccolo pubblico? Poi, ubbidiente e buono, si sfogò a far semplice. Non gli riusciva. Era arrivato ad un punto in cui l’arte divenuta poema, non s’adatta a ritornar sillabario. Le forme semplici gli sfuggivano e correva dietro, di nuovo, alle astruserie più alte. L’insuccesso cresceva, Ulrich tremava di paura ogni volta che una nuova creaturina del suo cervello gli usciva dalle mani. Era mortificato. Dubitava di sè stesso, dell’arte, di tutto. Temeva sempre aver commesso qualche grosso sbaglio materiale. Sentiva intorno a sè una diffidenza vaga; non osava guardare in viso sua sorella, la sua fidanzata. I ragazzi gli davano soggezione: a volte un dolore cocente lo spingeva quasi a chieder loro: Ma che debbo io fare di meglio? Perchè non vi comprendo più, perchè non mi comprendete più? Invece fuggiva nella campagna a sfogare solitario i suoi lamenti. Odiava quasi l’arte sua; lasciava inoperosi gli strumenti, vuota la cameretta, secchi i pennelli. Pensava troppo, oramai. Il suo pensiero si smarriva. Era ammalato, aveva un fuoco insolito negli occhi. Poi, dopo un lungo periodo d’inerzia, prese una risoluzione energica e si chiuse nel suo laboratorio. Voleva meravigliar tutti con un lavoro stupendo, riacquistare d’un tratto la sua fama d’artista, riconquistare per sè l’ammirazione e il riso dei fanciulli. Concentrò tutta la sua attenzione, adoperò utilmente, riunendole, raddoppiandole, le forze dell’arte, compì sino alla perfezione ogni piccolo pezzo, lavorandoci con amore infinito, con ardore, con la passione della disperazione. Ne venne fuori un giocattolo straordinario: sullo stesso piano, una fattoria, delle contadinelle che battevano il burro, le pecore che pascolavano, le galline che razzolavano, il gallo sul campanile della chiesetta, l’acqua del ruscello fra le pietre, le lavandaie che lavavano; tirata la corda, tutto questo mondo si muoveva, il gallo cantava, le galline pigolavano, le contadinelle agitavano le braccia, le pecore brucavano l’erba, il ruscello scorreva, le lavandaie lavavano. Una meraviglia, a compire la quale Ulrich aveva esaurita tutta la potenza del suo ingegno. Compiuta che fu, una soddisfazione gli entrò nell’anima esacerbata, e sorrise. Dopo tanto tempo che non sorrideva. Ma quando fu a dar la via al suo capolavoro, tremò....
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Egli sedeva nella sua cameretta, con la testa fra le mani, ansioso, trepidante. Era l’ultima prova che tentava. Sulla porta Lottchen comparve.
— Dove è Hans? — chiese egli vivamente.
— È di là.
— Chiamalo.
— Non verrà.
— Perchè?
— Ha paura di venire.
— Paura di venire?... e perchè?...
— Non affliggerti, Ulrich, e non castigare il bimbo. Ha rotto il giocattolo.
— ....Lo ha rotto?
— Per la rabbia. Non lo capiva, Ulrich.
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Ora quando la luna piove la sua luce pallida nelle viuzze di Nuremberg, dove tutti dormono, un uomo corre e gesticola, oppure siede in terra e guarda il cielo. Ma le sue dita si agitano come se lavorassero intorno a misteriosi congegni. È Ulrich che folleggia, avendo nel cervello l’idea grandiosa ed informe di un giocattolo mostruoso, immane, impossibile.