Fior di passione (Serao)/Commediola
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Commediola.
Nel parco, nel bosco, ne' prati, avevan passeggiato per molto tempo. Avevan calpestato moltissima erba odorosa, e le scarpette della signora dovevan esserne profumate; lei si lagnava di una pietruzza fra la calza di seta e la suola. Avevan disturbato una quantità infinita di nervose lucertoline, di grilli, di formiche; anzi, a proposito delle formiche, il signore, un po' intenerito, voleva dare un tuffo nella poesia. Il sole di luglio, dal cielo, avrebbe voluto disturbar loro, ma l'ombrellino della signora era largo, gli alberi erano pieni di foglie ed un leggiero ponente soffiava. Poi erano profondamente allegri, con una vena inesauribile di spirito, mordendo tutte le malinconie umane col loro sorriso, che nella signora era gaio e sincero, e nel signore un po’ scettico. Questi due esseri, che per conto mio e di chi mi legge dichiarerò insopportabili, erano ancora giovani, e se non belli, simpatici; eran soli, nella campagna, nella stagione ricca e non erano punto innamorati. Neppure turbati. Ridevano, si divertivano immensamente e non si erano dati braccio. Si erano burlati di molte cose insieme, dell’idillio specialmente. Si erano burlati delle eterne vergini bionde che sfogliano un’eterna margarita, di Paolo e Virginia a proposito del grande ombrellino della signora, delle famose farfallette innamorate che s’inseguono sulle siepi, dell’usignuolo storico che canta fra i rami, di Catullo che la signora non aveva letto ed il signore sì, della Faute de l’abbé Mauret che ambedue avevano letto, di tutte le elegie più o meno malinconiche, di tutte le descrizioni più o meno colorite che da tempo immemorabile si scrivono sui boschi, sui prati, sui fiori. Quante risate sull’edera tenace e sul ruscello che mormora! La signora aveva dei dentini bianchi da gattina cattiva, ed il signore dei mustacchietti biondi dalle curve armoniose e seducenti. Passavano una mattinata gioconda. I loro cuori erano tranquilli, i nervi quieti, lo spirito agile, la parola briosa. Con tutta l’arditezza del suo carattere e l’indipendenza della sua vita, la signora era onesta, pacificamente onesta: aveva marito, a Milano, e lo amava e si scrivevano ogni paio di giorni. Essa adorava il mare e veniva a prendere i bagni a Castellammare. Il signore aveva moglie, a Potenza, in Basilicata; ed era di carattere freddissimo sotto il suo allegro scetticismo, avendo in fondo al cuore un tacito disprezzo della donna. Ecco perchè non erano innamorati; e insomma, senza tante spiegazioni, non s’amavano perchè non s’amavano. Difficilmente si potrebbe assegnare una ragione all’amore: ed è la stessa cosa per l’indifferenza.
— Se noi facessimo colazione? — domandò a un tratto la signora.
— Signora Lucia, ecco che avete un’idea — disse lui, con cera spaventata.
— Preparatevi perchè ne ho un’altra. Che vuol dire quando mi ci metto! È una valanga. Signor Federigo, andiamo a far colazione qui, a cento passi di distanza, da Giovannino, nei boschetti delle rose e delle mortelle.
— Ci darà delle rose e delle mortelle per colazione? Il dubbio è crudele.
— Bah! m’han detto che si pranza benissimo. A quest’ora non ci sarà nessuno. Solo i matti come noi vanno in giro. Ci comprometteremo orribilmente di fronte al cameriere ed all’oste...
— Signora Lucia, le classi dirigenti debbono moralizzare....
— Basta, basta, per carità. Siete voi deciso?....
— Dal primo momento che parlaste di colazione, un dolce palpito...
— Agitò il mio povero cuore....
— Una soave immagine....
— Intravveduta nella nebulosa dei miei sogni.....
— Parve si realizzasse....
E risero di nuovo e camminarono nella polvere alta della via maestra, e ne ingoiarono della polvere! Il meriggio era soffocante. L’osteria di Giovannino, tutta bianca, aveva le persiane socchiuse; il silenzio più completo dominava.
— Signora Lucia, qui non si fa colazione.
Si guardarono con una cera afflitta. Erano rossi dal caldo. In questa un cameriere con un calzone militare ed una marsina civile, venne sulla porta, sogguardandoli con la più grande meraviglia. Quando essi salivano per la scaletta, li seguì.
— Ho da preparare in una stanzina particolare? — poi chiese, come se parlasse fra sè, sottovoce, timidamente.
Federigo esitò un momento, ma lei prontamente, con un risolino schietto, si voltò e disse:
— Sicuro.
Dopo, rimasti soli, nella sala grande, furono un po’ imbarazzati. Ma fu un lampo. Subito subito, da persone di spirito, compresero la graziosità della posizione.
— Sì, o signora, — esclamò Federigo, con accento drammatico, — turbiamo l’onesta coscienza di quest’uomo....
— Scandalizziamo addirittura. Noi ci amiamo, noi siamo due esseri colpevoli e felici, in procinto di fare una tragica colazione, mangiando la costoletta del disonore e bevendo il vino del tradimento...
— Signora, noi rotoliamo in un abisso...
— Senza fondo....
— Noi potremo essere sorpresi. O Lucia, io vi farò scudo del mio petto, tanto più che non avrei altri scudi....
— Perchè non ho io un velo, un lungo velo nero? Che vi pare, signor Federigo, io dovrei tremare ed impallidire?
— Provate un momento; io proverò ad essere agitato.
Il cameriere venne ad annunziare che era apparecchiato. La signora Lucia si alzò, con un passo affrettato; Federigo la seguì, parlandole sottovoce, dicendole delle scempiaggini che figuravano frasi d’amore — il cameriere si manteneva, come di dovere, a distanza. Ella, arrivata nella stanzina, si lasciò cadere sopra una sedia e nascose il volto fra le mani con molta naturalezza.
— Amica mia, che volete da colazione?
— Amico mio, non ho fame — fu la malinconica risposta.
— Prenderete del Chablis?
— Sì, sì — rispose lei, con la voce gutturale e lo sguardo vagante delle donne che perdono la testa.
Il cameriere uscì con gli ordini. Essi dettero in uno scoppio di risa; non ne potevano più. Lucia aveva le lagrime agli occhi, Federigo si nascondeva la testa nel tovagliolo. Che cosa buffa! Si spassavano come scolaretti in vacanza. Poi Lucia venne a un tratto seria. Guardava attorno un po’ disillusa. Non trovava nulla di strano, nulla di nuovo. Lui comprese.
— Ecco un salottino che non ha nulla di particolare. Non ce ne sono più che nei romanzi. Noi diventiamo borghesi.
Lei sorrise distrattamente. Ritornò alla commediola.
— Che faremo ora, signor Federigo, che faremo per ingannare quest’uomo? Inventate.
— Dovremo darci del tu.
— È vero, è vero; anzi, fingiamo d’imbrogliarci col tu e col voi.
— Sicuro. Poi guardiamoci lungamente e balbettiamo qualche parola incomprensibile....
— Quando lui ci parla fingiamo di essere distratti, io fisserò l’acqua nel mio bicchiere....
— Ed io farò delle pallottoline di pane...
La commediola andava innanzi, concentrata a meraviglia, recitata a meraviglia. Il pubblico composto del cameriere e dell’oste, in lontananza, in un corridoio, ci cascava. Ma per cinque minuti gli attori si occuparono delle costolette, con molta attenzione.
— Signora Lucia, noi non dovremmo mangiare.
— O perchè?
— Capite, col cuore divorato dai rimorsi...
— Avete ragione.... infatti.... Ma infine noi saremo di quelli che mangiano per rabbia....
— E bevono per disperazione....
— Per annegare il rimorso....
Continuarono quindi a far colazione col buon appetito dei giovani che hanno l’anima tranquilla e la salute in equilibrio. Ma non si scordavano la loro parte.
— Quando lui viene, signora Lucia, fingeremo di bere nel medesimo bicchiere.
— Io dirò: «Federigo, ti ricordi di Viareggio?».
— Ed io mi turberò, sospirerò, farò un atto di rimpianto.
Ci prendevano gusto; come si dice in vocabolo teatrale, s’investivano del carattere. Pensavano che cosa si potesse far di meglio, di più fine. Si guardavano in volto, interrogandosi. Nella stanzetta il calore estivo diventava insopportabile, dalla finestra aperta, con le gelosie socchiuse, non entrava un filo d’aria ed entravano molte mosche. La signora Lucia agitava il suo ventaglio; aveva bevuto due bicchieri di Chablis e la commedia la esaltava. Federigo rimaneva più calmo; del resto, in ambedue era chiara, netta, lucida la coscienza del dualismo. Non si confondevano, no. Non entravano in una intimità maggiore per la rappresentazione; non si aumentava di una linea la mutua confidenza. Erano lì buoni amici, contentoni, felici di burlare l’oste ed il cameriere. Una commediola perfetta, addirittura un successo. Il cameriere parlava sottovoce, era pieno di rispetto, camminava forte venendo, camminava piano andandosene. Essi sorridevano, dietro le sue spalle. Lucia sbucciò una pesca, e staccandone un pezzetto, lo diede a Federigo con un vezzoso gesto d’amore: un’idea venuta lì per lì. Federigo prese il pezzetto di pesca, baciò lievemente le dita della manina: anche questa un’idea improvvisata. Il cameriere vide e finse di non vedere: scappò a prendere il caffè. Essi si strinsero la mano, scambiandosi le loro felicitazioni: in verità, si ammiravano. Non si erano mai tanto divertiti nella loro vita.
Trovavano naturale quello che facevano, naturale la propria indifferenza, l’impersonalità. Anzi, non pareva loro neppure arrischiata la posizione, tanta era la serenità del loro animo. Andavano innanzi come due fanciulli soddisfatti di un nuovo giuoco, trovato per caso. Federigo sapeva, poichè aveva vissuto; Lucia indovinava, perchè era donna. L’impensato la interessava.
— Signor Federigo, non vi pare che dovremmo fumare delle sigarette?
— Accendendole, scambieremo un’occhiata. Poi scambieremo proprio le sigarette.
— E guarderemo il fumo con aria triste.
Quando il cameriere venne a sparecchiare, essi fumavano. Un rumore di ruote s’intese sulla via. Lucia gittò un grido e si lasciò cadere quasi nelle braccia di Federigo, tremando.
— Dio mio, tu ti ucciderai con queste emozioni... — mormorò lui, sorreggendola, dandole coraggio.
— È un carro, signora — osò dire il cameriere.
— Va bene, andate — disse severamente Federigo.
O cordiali risate! Non le avrebbero ritrovate più. Si sentivano vivificati, rinfrescati in quel meriggio di luglio. Rimasero a discorrere di tante cose leggiadre, come nel parco, scherzando sulle maniere del mondo intiero. Fumavano. Ogni tanto il cameriere passava innanzi la porta socchiusa, senza volgersi. Essi sorridevano ancora e ripigliavano il discorso. Se ne partirono dopo un’oretta di conversazione. Si dettero il braccio scendendo le scale. Voltandosi, videro sulla porta il cameriere, il guattero, il cuoco, l’oste che li sbirciavano.
E se ne andarono leggieri, riposati e quieti fra la polvere alta.
All’albergo la signora Lucia dormì profondamente per tre ore. La sera non vide Federigo nello Stabia-Hall. La mattina seguente ricevette un dispaccio dal marito che la richiamava a Milano, per andare sui laghi. Cosa che le procurò una grande consolazione, poichè Castellammare cominciava ad essere noioso. Scrisse un bigliettino di congedo, ringraziandolo, a Federigo, e se ne partì affrettando l’ora del ritorno. Federigo lesse il biglietto mentre si radeva la barba, si strinse nelle spalle e andò al bagno.
Per tre anni non si videro mai, non seppero nulla l’uno dell’altro. Ma la sera prima in cui si rividero, il primo momento, in un palchetto della Pergola, a Firenze, senza parlare, senza toccarsi la mano, dinanzi a molta gente, scambiarono quello sguardo ardente che rimescola il sangue e per cui due vite s’uniscono. E fu una spaventosa tempesta la passione che li travolse.