Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Appendice/I

Prologo di G. B. Marino nella favola pastorale del signor conte Guidubaldo Bonarelli

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Prologo di G. B. Marino nella favola pastorale del signor conte Guidubaldo Bonarelli
Appendice Appendice - II


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I PROLOGO DI G. B. MARINO NELLA FAVOLA PASTORALE DEL SIGNOR CONTE GUIDUBALDO BONARELLI.

La notte.

          
          Fermate ormai, fermate,
          rapidi miei corsieri, il vostro volo,
          tanto sol ch’io comprenda
          qual disusata è questa
          meraviglia terrena, e quale in terra
          vive virtù, possente,
          in si brev’ora, a trasformare il mondo.
          Godino pur più de l’usato intanto
          de la lampa diurna il dolce lume
          gl’ignoti di sotterra
          popoli abitatori :
          e voi, de la mia corte alate ancelle,
          famigliuola volante,
          sospendete e librate
          (qual nel concetto già fèste d’Alcide)
          su le terga d’Atlante
          del mio carro immortai gli assi e le rote:
          né spiaccia al biondo dio che vi distingue
          ch’io ne’ partiti uffici
          del termine prescritto, oltra il costume,

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          breve spazio m’usurpi. Anch’egli vٍlse,
          de la vittoria altrui
          cortese spettator, più che non debbe,
          tenere a pro del generoso Ebreo,
          fatto quasi scudiero, in man la face.
          Ma dee qui forse a la notizia altrui
          di me, si come oscura è la sembianza,
          oscuro esser ancor lo stato e ? nome.
          Chiunque aver desia
          di mia condiz’ion piena contezza,
          questa bruna quadriga
          miri, e questi aurei fregi, e saprà poi
          quale e quanta i’ mi sia. M’appella il vulgo
          d’incanti empia nudrice,
          e d’errori e d’orror madre infelice.
          Io mi son perٍ quella
          genitrice de’ vezzi,
          sopitrice de’ mali,
          dispensiera de’ sogni,
          quiete universal: quella mi sono
          gran reina dell’ombre, alta guerriera,
          che sotto la mia duce,
          che guernita si mostra
          d’inargentato arnese,
          eserciti di stelle intorno accampo,
          e di tenebre armata il giorno uccido.
          Indi del giorno ucciso,
          su questo carro eccelso,
          coronata di lumi,
          per gli spazi del ciel trionfo altera:
          quella, ch’apro a’ mortali
          tra le miniere de’ zaffiri eterni
          di piropi immortali ampi tesori,
          e diviso un sol foco in più faville,
          d’un sol ne faccio mille.
          Notte, notte figliuola

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          de la terra son io. Sagaci amanti,
          non ravvisate voi forse colei
          che chiamaste sovente
          secretaria fedel de’ vostri furti?
          Quante volte v’accolsi
          sotto l’ombre cortesi, onde passaste
          celatamente a le bramate prede!
          E voi, giovani donne,
          quante occulte dolcezze
          dentro il mio fosco sen talor provaste!
          Quante volte in virtù di questo mio
          placidissimo figlio,
          gemello de la morte,
          dolce vita vi porsi e, con leggiadre
          imagini amorose
          appannandovi gli occhi, il ciel v’apersi!
          Cara a voi, s’io non erro, esser mi deggio,
          o magnanimi eroi, se, per me sola
          con caratteri d’or segnate e scritte
          nel gran libro del ciel, l’anime illustri
          fra’ miei lucenti segni
          vivono immortalmente.
          Quinci risplende, aggiunto
          al drappel de le stelle,
          con altri mille il domator de1 mostri.
          Né sarٍ (quant’ io creda) a voi men cara,
          spettatrici amorose, a voi, ch’avete
          le bellezze e gli amori entro il bel viso,
          s’io d’imitar m’ingegno
          ne’miei lumi i vostri occhi;
          ed è la dea più bella,
          la stella ch’innamora,
          de le ministre mie G ultima suora.
          Or da voi la cagion saper bram’ io
          d’accidente sí novo.
          Che veggio? or non è questa

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          la riviera di Sciro,
          dove rotto e battuto,
          non senza alto destin, piegٍ pur dianzi
          le sue lacere vele il legno trace?
          Già vid’io (non è molto) il salso flutto
          orgoglioso e superbo
          contro i lidi del ciel si gonfio alzarsi,
          ch’omai potuto avrebbe,
          co’ pesci che di stelle hanno le scaglie,
          guizzar nel mar vicino
          il celeste Delfino.
          E vidi or ora i lampi,
          delle orride tempeste
          corrieri arditi e spaventosi araldi,
          con insegne di fiamma
          minacciar d’or in or, scorrendo a prova
          per l’ampia region l’isola tutta,
          battaglie senza fine
          di piogge e di pruine.
          I tuoni strepitosi,
          trombe de l’universo,
          s’udian con rauca voce
          quinci e quindi portar per la confusa
          guerra degli elementi
          le disfide de’ venti :
          e i turbini co’ nembi,
          procellosi guerrieri,
          vedeansi in fier duello
          ne’gran campi del ciel giostrando urtarsi:
          e da saette alate
          piover sangue di gel nubi piagate.
          Chi fu, ditel, mortali,
          che per nova dal ciel grazia concessa
          poté di tai nemici in sé discordi
          sedar le risse ed amicargli in pace?
          chi mi rischiara il tenebroso volto?

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          chi m’asciuga o m’indora
          questo già d’aspre grandini e di nebbie
          pur ora umido manto, oscuro crine?
          e qual luce novella
          a cangiar qualità tutta mi sforza?
          Ecco non più turbato
          ride il ciel, ridon l’acque,
          e la terra fiorita
          apre ai parti odorati il ricco seno,
          emulator del mio stellante aprile.
          Altro di tempestoso
          qui più non veggo o sento,
          che baleni d’onore
          e fulmini d’Amore.
          Oh miracol gentile! Or che non puote
          di divina beltà forza infinita?
          Tutto è vostra mercé, luci beate:
          ne’ vostri archi pacifici e sereni
          splender si vede un’ iride benigna,
          tranquillatrice d’anime e di cori,
          non che di venti e d’onde.
          Oh, ma che raggio è quel che mi saetta?
          che folgore, che lampo
          mi dل luce in un punto e mi fa cieca?
          Ahi, che se ben di mille occhi gemmati,
          quasi immenso pavon, roto la pompa,
          mancano tutti a si sfrenato oggetto:
          e vaga pur di vagheggiar si chiaro
          paradiso di grazie e di bellezze,
          altrettanti ne bramo.
          Ma veggio omai che ? Sol, pittore eterno,
          si leva e sorge a miniare il cielo;
          ed ecco già che, intinto
          il pennel de la luce
          ne’ color de l’aurora,
          mesce con varie tempre i lumi e l’ombre,

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          e tratteggiando il ciel con linee d’oro,
          già parmi già che di vermiglio e rancio
          abbia abbozzato in campo azzurro il giorno:
          già d’Eto ê di Piroo,
          che m’anelano a tergo,
          sento i sonori freni, odo i nitriti,
          onde fuggir convienimi.
          Ah non fuggo, ma seguo
          con regolato corso
          il tenor che mi volge,
          e del sommo Motor gli ordini eterni.
          Già non fuggo da l’alba
          per invidia ch’io senta
          che si fregi e s’infiori :
          e già non fuggo il Sole
          per vergogna ch’io prenda
          che mi segua e mi scacci :
          fuggo, fuggo da’ vostri,
          belle e candide fronti,
          serenissimi albori, e fuggo i vostri,
          occhi vaghi e leggiadri,
          lucidissimi ardori.
          Non che a scorno io mi rechi
          soggiacer vinta a quelle,
          onde il Sole abbagliato esser s’onora:
          ma non si vuoi d’Amor romper le leggi;
          che legge è pur d’Amore
          alternar di natura
          le diverse vicende, e ? mio ritorno
          non ritardar cotanto
          1 a gente che di là forse m’aspetta.
          ? Or, tu, Sonno, disgombra
          da l’altrui pigre ciglia;
          e tu, Silenzio, annoda
          l’altrui garrule lingue, ond’oggi ? mondo
          qui taciturno ammiri

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          di Tirsi e Filli, i duo ben nati amanti,
          l’amorose fortune.
          E voi, figlie de l’aere e de la luna,
          rigatrici de’ fiori e de l’erbette,
          mattutine rugiade, omai chiudete
          le vostre urne d’argento:
          non han più sete le campagne, ed hanno
          assai bevuto i prati.
          Volate, Ore veloci, e lievemente
          de la scala ond’io poggio all’orizzonte
          siate preste a varcar l’ultimo grado.
          Seguite pur, seguite,
          o de la dea di Cinto
          luminose compagne, a l’armonia
          de le spere rotanti
          sul gran palco de l’aria i vostri balli:
          e fra le liete danze
          sciogliendo alto concento
          da le musiche gole,
          cedete il lume e date il loco al Sole.