Fantasia (Serao)/Parte prima/III
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III.
Esse, le tricolori, le più grandi, le più belle, le più orgogliose, nelle ore destinate ai lavori donneschi avevano il privilegio di potersi riunire in gruppo in un cantuccio del lungo salone dei lavori donneschi. Le altre alunne stavano nei banchi, dietro ai telai, in fila, staccate l’una dall’altra, obbligate al silenzio.
Le tricolori, dalle cui mani uscivano i più leggiadri e i più costosi lavori per l’esposizione annuale, godevano di una certa tolleranza. Così, strette in circolo, voltando le spalle alle altre, chinando il capo, ciarlavano sottovoce. Ogni volta che la maestra dei lavori si avvicinava, cambiavano discorso, le domandavano un consiglio, mostrandole il lavoro. Era la loro ora migliore, quasi senza sorveglianza, liberate dall’occhio di pesce fritto di Cherubina Friscia, potendo discorrere di quel che volevano. Camminavano i lavori, ma volavano i pensieri e le parole.
Giovanna Casacalenda ricamava, nella batista finissima, una tovaglia di altare — un ricamo sottile, spumoso, una meraviglia — e aveva certe rotondità di braccio, certe volatine di dita per tirare il filo, tutte aggraziate e studiate. Ginevra Avigliana era assorbita in un merletto coi fuselli, a punto veneziano: doveva regalarlo alla direttrice alla fine del corso: ogni palmo costava cinque lire di seta. Carolina Pentasuglia ricamava in oro un cuscino di velluto rosso. Giulia Pezzali ricamava in ciniglia uno stracciacarte. Ma non pensavano al lavoro, tirando l’ago, arrotolando i fuselli, facendo volare la spoletta. Non vi pensavano quella mattina, in cui non si parlava d’altro che dello scandalo Altimare.
— Dunque l’hanno chiamata in Direzione? — domandò Vitali che ricamava, con le perline, un cartoncino bucherellato.
— No, non ancora. Credete che la chiameranno? — disse timidamente Spaccapietra, che non levava gli occhi dalla camicia che cuciva.
— Diamine! — esclamò Avigliana. — Non hai intese le cose spinte che ci erano nel còmpito? Una ragazza non deve saperle.
— Altimare è innocente come una creatura che nasce — rispose gravemente Spaccapietra.
Nessuna rispose. Ma tutte guardarono verso Altimare. Staccata da loro, lontana, solitaria, con la testa china, faceva filacce. Era la sua nuova inclinazione, quella di far filacce per gli ospedali. Si era segregata volontariamente, ma pareva calma.
— Sciocchezze, amiche mie, sciocchezze — osservò Minichini, passandosi maschilmente la mano nei capelli. — Queste cose si sanno, ma non si possono dire.
— Ma scrivere che una moglie può tradire il marito, Minichini? che te ne pare?
— Scusa, nel mondo è sempre così. La signora Ferrari tradisce suo marito con mio cugino — soggiunse Minichini: — li ho visti io.... dietro una porta....
— Come, come, che cosa?... — chiesero due o tre, e le altre spalancavano gli occhi.
— Viene la maestra — avvisò Spaccapietra.
— Al solito, Minichini, voi non lavorate? — osservò la maestra.
— Sapete che mi fa male agli occhi.
— Queste sono le vostre lenti? Non siete molto miope, mi pare. Potreste lavorare.
— E perchè?
— Ma per la casa vostra, quando vi ritornerete....
— Mia madre ha tre cameriere: voi forse non lo sapete — disse l’altra, rizzandosi come una vipera.
La maestra si chinò sul lavoro di Avigliana, mormorando qualche cosa come orgoglio.... insolenza. Minichini si strinse nelle spalle. Dopo un momento:
— Di’ dunque, Minichini: che cosa faceva la signora Ferrari con tuo cugino, dietro la porta?
— Lo volete proprio sapere?
— Ma sì, ma sì, ma sì....
— Ebbene, si baciavano.
— Ah! — fece il coro, subitamente impallidendo e arrossendo.
— Sulle labbra, nevvero? — chiese tranquillamente Casacalenda, mordendo le sue per farle venire più rosse.
— Già.
Le fanciulle tacevano, pensando. Sempre Minichini, coi suoi racconti, turbava le ore del lavoro: diceva le cose più semplici con certe reticenze maliziose e certe franchezze rudi che agitavano quelle fantasie.
— Voglio farmi, quando esco da questa casa, una vestaglia ricamata, come questa tovaglia — disse Casacalenda: — fa bene sulla pelle.
E la provò sulla mano: una trasparenza rosea e provocante.
— Dio, quando uscirò da questa casa! — esclamò Avigliana.
— Ci vogliono ancora tre mesi, otto giorni, e sette ore — disse Pentasuglia.
— Altimare vorrebbe già esser fuori — mormorò Vitali.
— Chissà che castigo avrà — disse Spaccapietra.
— Per me risponderei delle insolenze alla direttrice.
D’un tratto un zittìo si udì. Entrava la vice-direttrice: un avvenimento. Solo per un momento Altimare alzò gli occhi e le batterono le palpebre. Continuò a far filacce. La vice-direttrice si chinò, così per far mostra di niente, su due o tre telai, facendo qualche osservazione. Infine:
— Altimare, la direttrice vi desidera.
Quella si alzò, d’un pezzo solo, camminando rigida, tra due file di collegiali, senza guardare nè a destra nè a sinistra. Le collegiali tacevano, lavorando attivamente.
— Madonna Santa, aiutala tu — pensò Caterina Spaccapietra.
— Me ne parlò la mia sorella maritata: i libri di Zola non si possono leggere — disse Giovanna Casacalenda.
— Cioè, si possono leggere — osservò Minichini: — ma non conviene dire, innanzi ai giovanotti, che si sono letti.
— Uh! quanti libri ho letto che nessuno sa — esclamò Avigliana.
— Io so di un matrimonio che non si è fatto — disse Minichini — perchè la fidanzata si lasciò sfuggire di aver letto La Signora dalle Camelie....
— La Signora dalle Camelie, quanto deve esser bella! Chi l’ha letta, ragazze?
— Io no, io no, io no — fu un coro, accompagnato da lievi sospiri.
— L’ho letta io — confessò Minichini.
— Viene la maestra — mormorò Vitali alla vedetta.
— Che avete, che non cucite, Spaccapietra? — chiese la maestra.
— Nulla — fece costei, e chinò gli occhi sul cucito. Le tremavan le mani.
— Vi sentite male? Volete uscir fuori all’aria?
— No, grazie, sto bene: preferisco star qui.
— Sei in pena per Altimare? — chiese Avigliana.
— No.... no.... — mormorò l’altra vergognandosi.
— Che le potranno fare? — domandò Casacalenda.
— Diamine! non la mangeranno mica — disse Minichini: — se le fanno qualche cosa, noi la vendicheremo.
— La direttrice è crudele — disse Avigliana.
— E la vice-direttrice è una birbona — soggiunse Vitali.
— Sì che Cherubina Friscia non scherza, per malignità — osservò Pentasuglia.
— Dio mio, fateci uscire presto da questa casa — esclamò Casacalenda.
Tutte le teste si abbassarono in questo desiderio. Vi fu un po’ di silenzio. Caterina Spaccapietra traeva lentamente l’ago, presa da una stanchezza grave.
— Minichini bella, raccontaci questa Signora dalle Camelie — pregò Giovanna Casacalenda con la sua dolce voce, dove soffiava la passione dell’ignoto.
— Non posso, core mio.
— Perchè? Tanto è terribile? Raccontala, Minichini. Artemisia bella, raccontaci questo libro.
Le altre non parlavano. Ma negli occhi lampeggianti si leggeva la curiosità, ma sulle labbra aride il desiderio disseccava le parole. Giovanna pregava per loro, con gli occhioni supplichevoli e un sorriso languido sopra le grosse labbra.
— Lo racconterò, ma non ne dirai nulla, Giovanna.
— No, amore caro.
— Oggi la storia non potrà finire....
— Non importa, non importa, va pure.
— Ebbene, lavorate assiduamente, senza guardarmi, come se non mi ascoltaste. Io mi rivolgerò tranquillamente a Giovanna, come se le facessi un discorso qualunque: lei approverà ogni tanto col capo o dirà qualche parolina. Ma per carità, non date a vedere che mi prestate attenzione.
«Così, nel tempo, a Parigi viveva una povera sartina che si chiamava Margherita Duplessis....
— Violetta Valery — interruppe Pezzali: — ho udita la Traviata.
— Non m’interrompere: il nome è mutato.... «Era una splendida creatura, a quattordici anni, delicata, sottile, coi lunghi capelli biondo-castani, gli occhi grandi e azzurri: forma fantastica. Era poverissima, con un abito di percallo stinto, uno scialletto nero trasparente per la vecchiaia, e gli stivalini scalcagnati. Passava ogni giorno dal friggitore e comperava due soldi di patate. La conoscevano per la biondina dalle patate fritte. Ma ella era nata per le cose belle, per il lusso, per l’eleganza: ella non poteva essere povera e infelice. Resistè per un pezzo, ma non per molto. Un giorno la bella colomba ebbe un nido profumato....
— Che aveva fatto? — chiese storditamente Avigliana.
— Era diventata.... una di quelle.
— Ecco Altimare — disse Spaccapietra alzandosi a metà sulla seggiola.
Tutte si voltarono. Lucia si avanzava lentamente, con un passo incerto, urtando qua e là nelle sedie, come se non vedesse. Le braccia le pendevano lungo l’abito, come abbandonate nel vuoto. Non era pallida in viso; era livida. Gli occhi sbarrati. Sedette al suo posto, ma non riprese il suo lavoro. Le sue compagne la guardavano, sbalordite. Sempre quella magra figura di ascetica ardente le aveva intimidite, ma oggi le spaventava. Certo qualche cosa di gravissimo aveva dovuto accadere fra lei e la direttrice. Senza dire nulla, Caterina Spaccapietra depose il lavoro, uscì dal circolo delle tricolori, e andò a sedere vicino a Lucia. Costei sembrò non se ne accorgesse, rimanendo lì come impietrita, con una espressione penosa sul volto.
— Che hai, Lucia?
— Nulla.
— Dimmi, Lucia, hai dovuto soffrir molto? Soffri ancora?
Neppure un respiro; neppure una linea del volto si mosse.
— Lucia, sai che non posso dirti nulla per consolarti. Io non so dirti.... non so.
E tacque. Le prese una mano fra le sue: era gelata. Questa mano rimase inerte, senza vita: Caterina la carezzò in silenzio, come se volesse mettervi del calore, un fremito. In verità ella cercava qualche cosa da dire, ma non trovava, non sapeva. Stava lì accanto, un po’ curva, cercando di farsi guardare da Lucia. Le tricolori di lontano spiavano. L’intiero collegio era in attenzione.
— Se tu piangessi, Lucia? — suggerì timidamente Caterina.
Niente. Nessuna impressione. L’altra sentiva crescere il suo imbarazzo e la sua confusione.
— Dimmi dunque, Lucia, dimmi che hai. Consolarti, vedi che non posso. Ma parla, piangi, sfogati; tu soffochi.
Nulla. D’un tratto la mano di Lucia Altimare si contrasse nervosamente: ella si alzò ritta in piedi, come irrigidita, si cacciò le mani nei capelli, li strappò, poi gittò un grido lungo, straziante, orribile — e via di corsa per il salone. Lo scompiglio fu grande. Caterina Spaccapietra rimase un momento stordita.
— Al terrazzo! — le gridò Minichini — lì è il pericolo. Al terrazzo!
Lucia Altimare fuggiva pel salone, con la testa china, la veste bianca che- sbatteva intorno alle gambe, disciolte le trecce nere che sbattevano sulle spalle. Fuggiva pel salone, fuggiva pel corridoio, senza guardarsi innanzi, sentendo dietro il respiro affannoso di quelle che correvano per raggiungerla. Nel corridoio lungo raddoppiò la velocità; alle scale che conducevano al refettorio buttò via la sua cintura tricolore.
— Altimare, Altimare, Altimare! — gridavano dietro le sue compagne, ansimanti. Ella non si voltava: faceva le scale a salti: inciampò, si rizzò subito, riprese lena, uscì nel corridoio superiore che fiancheggiava il dormitorio, si slanciò alla prima porta, la trovò chiusa: ruggiva di dolore.
— Altimare, per carità, Altimare, Altimare! — ripeteva l’eco del collegio in tumulto.
Corse a un’altra porta, la spinse, entrò nel dormitorio: dinanzi al Cristo, sul suo letto, fece un gesto folle di saluto. In fondo alla corsìa era il balcone che dava sul terrazzo. Sempre, a trenta passi, correvano dietro, dieci, quindici fanciulle: poi tutto il collegio. Lei non udiva. Oramai non la raggiungevano più. In uno slancio supremo arrivò al balcone, lo schiuse, corse sull’asfalto nero che bruciava al sole di luglio, acciecata di luce, acciecata d’aria, acciecata di disperazione, quasi vedendo abbassarsi al suo desiderio il parapetto di pietra. Ma lì giunta, mentre si segnava in furia, due braccia l’afferrarono alla vita, braccia di ferro.
— Lasciami, Caterina, lasciami buttar giù.
— No.
— Lasciami, voglio morire.
— No.
E per un minuto lottarono sul terrazzo ampio e deserto, presso il parapetto, dopo il quale era il precipizio. Caterina la teneva stretta, affannando ma non lasciandola: Lucia si dibatteva con moti serpentini: le dette dei pugni, la graffiò, la morsicò. Poi mise un urlo e cadde svenuta sull’asfalto.
Quando le altre giunsero, quando giunse il collegio intero su quell’immenso terrazzo, Caterina agitava il fazzoletto sulla faccia di Lucia e si succhiava dalla mano il sangue delle graffiature.
— Senza te era morta — disse Minichini, baciandola. — Come hai fatto?
— Sono venuta per la scala della cappella — rispose Caterina, semplicemente. — Direttrice, scusi, vorrebbe far portare dell’aceto?