Esempi di generosità proposti al popolo italiano/La speranza generosa/I
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I.
Ora vo’ raccontarvi una storia che vi mostri quanto possa, anco per il prospero e onorato riuscimento delle cose del mondo, una speranza coraggiosa insieme e paziente, che nè si lascia inebriare nè si addormenta, che sa operare e sa attendere, che pone in atto le proprie forze intanto che fida nella Provvidenza Divina (e qui noteremo che Provvidenza Divina i nostri vecchi solevano scriverla con lettera maiuscola, e che così la scrive anche il Conte di Cavour con Vittorio Emanuele per distinguerla da quell’altra provvidenza della civiltà1, che è una personificazione rettorica, anzi una figurina mitologica, venuta di corto delle selve d’Arcadia, alla quale arderanno incensi gli schiavi in America, gli Africani che scapparono al fumo e alle fiamme del generale Pelissier, i Polacchi in Siberia e in Polonia, gl’irlandesi in Irlanda, i Cattolici in Isvezia, i Francesi a Caienna. E se voi domandaste qual sia l’idoletto mitologico, se la civiltà propriamente o la sua provvidenza, o siano due idoli in uno; io vi risponderei che a noi basta sapere che questa provvidenza, e questa civiltà, modeste e semplici come gli Dei d’Egitto, si contentano d’una lettera minuscola e vi pregherei di lasciarmi chiudere la parentesi poichè già m’accorgo che incominciare la narrazione da una digressione non è secondo le regole.
Era il popolo d’Iraello non lontano dalla terra promessa; e Mosè propose d’inviare dodici de’ principali, uno per ciascuna tribù, che vedessero quale fosse il paese, e quali i popoli che l’abitavano; se gente robusta o dappoco, se le città munite o sguernite, se pingue o sterile il suolo, se ignudo, o ricco di piante. Perchè la prima cosa è conoscere il luogo che si desidera e la gente con cui s’ha a venire alle prese. Andarono i dodici dalla parte di mezzogiorno, prendendo dalla montagna; e spesero quaranta giorni a girare tutto quanto il paese: perchè quella buona gente intendeva che troppi già sono i vantaggi di chi s’ha a combattere sul terreno dov’è piantato, di chi lo conosce a palmo a palmo. Trovarono una terra che correva (secondo l’ardito modo di quella lingua, e secondo le immagini che leggiamo anco nella pagana poesia) latte e miele. Trovarono città forti e fiorenti; una delle quali aveva nome Città delle Lettere; perchè la provvidenza della civiltà da gran tempo l’aveva provveduta di molto sapere, che non la salvò però da rovina. Correva la stagione che colgonsi le uve primaticce: e i dodici pellegrini viaggiando arrivarono ad un torrente, lungo il quale erano vigne con grappoli tanto grandi da far meraviglia; onde gli posero nome il torrente del grappolo. E prese delle melegranate e de’ fichi, e un di que’ grappoli più generosi si pensarono di portarlo per saggio e, per non lo sciupare, lo appesero a un legno da cui penzolasse. Giunsero salvi alle tende; e, raccolta l’assemblea di tutto il popolo, esposero a Mosè e ad Aronne le cose vedute. Parlarono Càleb figliuolo di Ièfone, e Giosuè figliuolo di Nun; che la terra era buona: e mostrarono i frutti. Questo con parole non molte; perchè non intendevano, come i ciarlatani o i matti sogliono, irritar le speranze, e dissimulare al desiderio impaziente le difficoltà dell’impresa. Non basta che la cosa sia desiderabile, e che ce ne venga promesso il prossimo godimento bisogna saper contenere la impronta significazione; delle voglie e delle speranze. Bisogna non nascondere a noi stessi quel che resta da fare per giungere al godimento; e questo tanto, per poco che sia quando si apparisca come un peso o un intoppo inaspettato, sgomenta o turba o irrita, e avvelena la gioia del possesso, e talvolta lo ritarda o anche lo fa disperabile. Càleb e Giosuè parlarono dunque poco, ma fermo; e perciò appunto dovevano essere con più fiducia creduti. Ma i dieci loro compagni, gl’inviati delle altre dieci tribù, stavano a fronte bassa e annuvolati; e mentre che i due parlarono, o crollavano il capo o stringevano le labbra; ai quali atti la moltitudine guardava sospesa, e l’uno all’altro li additava, e si distraevano. Corsero, l’un dopo l’altro que’ dieci; e chi, con molte parole, e chi con poche, rivolsero i pensieri del popolo a diffidenza e sgomento. Dissero insomma: Quella è una terra buona all’aspetto, ma coloro che la calcassero divorerebbe. Ha città terribilmente munite, con mura che vanno al cielo: e, quasi più minacciosi che le mura, i petti de’ loro guerrieri, robusti e alti in forme mostruose, giganti che, verso loro, noi si parrebbe locuste. Fra questi parlari, incominciava a correre nel popolo un cupo mormorio, come d’onde che, al primo fremere del vento, già stanno per levarsi in fortuna. E ad ora ad ora interrompevano i dicitori. E, perchè nulla è più audace della paura quando si fa svergognata, quanto più lo spavento si diffondeva per le turbe, più risuonava il tumulto. E a modo d’echi che ripercuotendo moltiplicano le voci in un tuono cupo, e a modo di specchi che rendono l’uno all’altro un’immagine come se fossero tante, e ciascuna propria a ciascuna, il terrore comunicato cresceva. Si fecero allora sentire grida discordanti; e indarno Càleb e Giosuè, col cenno della mano chiedendo parlare, e alzando la voce sopra quei clamori confusi, si sforzavano d’attutirli. Dicevano: Fidate in Dio Signore, che ci ha sin qui per tante meraviglie condotti; e c’introdurrà in quella terra lieta. Il signore è con noi: non temete. E, vedendo la burrasca della viltà imperversare, si stracciavano di dosso le vesti, vergognando e sdegnati: ma la moltitudine, come acque che si abbassano per accavallarsi, già si chinava per dar mano a’ sassi per lapidarli. E gridavano contro Mosè: Perchè non ci ha egli lasciati in Egitto morire? Perchè non possiam noi almeno lasciare in questa solitudine i nostri cadaveri? Perchè ci traggi tu a perire di ferro? E le nostre donne e i poveri nostri figliuoli rimanere orfani in cattività, nelle mani d’ignoto nemico? - Così per fuggir da una nuova, sognata, sospiravano all’antica insopportabile servitù. Così, giunti anelando a una cima luminosa, impauriti di quel lume stesso, si voltavano a precipitare più per i dirupi nella valle profonda. E soggiungevano: «Che ci vieta ritornare in Egitto un’altra volta? Facciamoci un capitano». E salivano al cielo querele e urla miste, e pianti di diffidenza somigliante a bestemmia. Aronne e Mosè, non irati e non timidi, stavano in mezzo, quasi supplichevoli non per sè, ma per l’onore del nome comune e di Dio, chinando in atto di dolore la faccia. Allora al disopra della tenda che ricopriva l’arca del patto divino si vide risplendere una gran luce, e gli occhi abbagliati si volsero a quella parte, e le pietre ghermite caddero dalle mani, rimase aperte e immobili come di statue; e in quella attitudine che ciascuno era, restò. Sì fece sentire una voce, rimproverò la diffidenza ingrata, e la prima turbazione acquetò di subito, e d’una turbazione nuova riscosse gli animi tutti, come se quello splendore sperdesse il buio della paura, e illuminasse l’intimo degli spiriti. Si riconobbero, si vergognarono, e piansero.
Gran pianti la notte, e promesse a Mosè e a sè medesimi di levarsi a muovere verso l’Amalecita, e combattere. Il savio conduttore, impensierito di quello spensierato ardimento non meno che dei passati timori, consigliava a più riposatamente rimettersi a Dio e rifarsi in pace con gli animi proprii. Ma già sull’alba ascendevano al monte, e colle armi brandite in alto, e assordando con le grida se stessi: siam pronti a ire al luogo di cui Dio parlò perchè abbiamo peccato a Lui. - Mosè rispondeva: Perchè trasgredite voi il cenno? Non andate; non vi riuscirà a bene; con voi Dio non è. - S’avviavano alla montagna più come turba tumultuante che come esercito pensoso di ben meditata battaglia. E l’arca del patto non era innanzi a loro. Gli Amaletici e i Cananei, avvertiti forse di quelle discordie, e presone animo, li affrontano, rompono, inseguono. Mosè, umiliato dall’umiliazione loro (perchè i generosi e i pii non esultano della vendetta che fa la sventura sopra chi dispregiava i loro consigli presaghi), si asteneva dalle riprensioni; ordinava che fosse provveduto ai feriti, che ai morti si desse sepoltura d’onorati guerrieri; le famiglie vedovate e orfane consolava. Ma un duro annunzio da ultimo gli era pure forza apportare al popolo suo diletto, che quanto più sconoscente ed errante, tanto più gli era santamente caro; annunziargli una legge che nè egli imponeva nè avrebbe potuto eseguire se il cenno da Dio non veniva. Radunato tutto il popolo, disse che, per il rifiuto di prontamente possedere la terra assegnata da Dio, non l’avrebbero; che, in gastigo dei quaranta giorni di diffidenza infingarda, toccavano loro quarant’anni di vita vagante; che trascinerebbero per tutto quel tempo il peso del fallo commesso; che quanti uscirono liberati d’Egitto sopra i vent’anni, tutti lascerebbero nella solitudine i loro cadaveri; che soli i figli loro godrebbero il bene già a loro stessi promesso; che i due benemeriti di generosa speranza nelle parole divine, Giosuè e Càleb, soli sarebbero privilegiati, che il piede loro calcherebbe la terra contesa che egli medesimo, Mosè, in pena dell’aver diffidato un momento delle meraviglie di Dio, n’era escluso, e doveva nel deserto morire. Piangeva il popolo umiliato.
Note
- ↑ Accennasi alla correzione che fece della parola dal Re pronunciata in Parlamento, nella risposta a quel discorso, la Camera. Un ateismo più minuscolo, una professione di fede più prudente, una irriverenza pedantesca alla maestà regia, dacchè mondo è mondo, non s’è mai veduta. La prima parte di questo capitolo è per i giovanetti di mente più adulta.