Eros (Verga)/XLIX
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XLIX.
Piovigginava, la campagna era brulla, le ruote della carrozza s’affondavano nella via fangosa che i cavalli salivano a fatica. Alberto guardava macchinalmente lo sgocciolar della pioggia sui cristalli, si udivano lenti lenti i rintocchi dell’avemaria, e di tanto in tanto, a seconda dello svoltare della strada, lo squillare ora acuto ed ora soffocato di un campanello che sembrava inseguire Alberto da un pezzo.
— E così? domandò aprendo lo sportello bruscamente.
— I cavalli non ne possono più.
— Ammazzali!
Ma come se il suono di quella parola l’avesse colpito, gettò un’occhiata sulle povere bestie fumanti e sgocciolanti di pioggia, e si ricacciò in fondo al legno.
I noti alberi che fiancheggiavano la strada sfilavano lentamente attraverso gli sportelli, e lo salutavano mestamente inclinando il capo con sommesso mormorío. La carrozza oltrepassò il cancello; poco dopo il marchese appoggiò il viso al cristallo per vedere una fontana che cadeva in rovina. La carrozza svoltò pel viale e si fermò.
— Diggià! mormorò Alberto.
Nessuno era corso ad aprire lo sportello, ei balzò a terra. La villa sembrava disabitata, tutte le finestre erano chiuse, i rami erano sfrondati, e la pioggia cadeva lenta e monotona. Il campanello che si era udito per l’erta tornò ad udirsi. Alberto bussò risolutamente.
Un domestico sconosciuto venne ad aprirgli e gli domandò cosa volesse, come se fosse un estraneo: però il marchese spinse il servitore per le spalle con un far da padrone che non lasciava alcun dubbio ed andò difilato alle stanze di Adele. Prima ancora di giungervi sentivasi un forte e singolare odore, l’uscio era socchiuso, e non si udiva nè parlare, nè muoversi nella stanza. Alberto aprì esitante, e si arrestò sulla soglia.
La camera era quasi buia; di faccia all’uscio ardevano due candele su di un tavolino coperto da una tovaglia bianca; dall’altro lato c’era il letto che sembrava vuoto, difeso dalla scarsa luce per mezzo di una ventola. Sotto le coperte modellavasi vagamente una forma indecisa, e sul guanciale, appena depresso, spiccavano due folte treccie nere, che inquadravano un viso più bianco della batista sulla quale adagiavasi; gli occhi, su quel viso bianco e sparuto, sembravano due enormi cerchi oscuri, che facevano un effetto affascinante. Su di una piccola tavola accanto al letto c’era un mucchio di piccoli utensili d’argento e di cristallo che luccicavano; di contro al letto, colle spalle all’uscio, vedevasi una poltrona, e una testa interamente canuta che sorpassava la spalliera alla quale appoggiavasi. Tutte quelle cose stringevano il cuore.
L’inferma, vedendo quell’ombra nel vano dell’uscio, volse penosamente il capo, trasalì, e fece un languido movimento per stendere la mano, atteggiando le labbra ad un pallido sorriso.
— Grazie! mormorò con voce che a lui mise il brivido nelle vene.
— Come stai?....
— Lo vedi.
Ei volse gli occhi su quella tovaglia bianca, come se non l’avesse ancor vista, e la guardò a lungo in tal modo che Adele premette tacitamente la mano che teneva nella sua.
Il medico s’era alzato. — Il buon dottore! disse Adele. Alberto gli strinse la mano con forza.
— È la seconda volta che mi vede in questa camera! gli disse con un singolare sorrise. Si rammenta?
— Molto tempo addietro però!
— Sì, molto tempo!
E stette guardando Adele, immobile e bianca nel suo bianco letto. Di quando in quando faceva scorrere uno sguardo stralunato sulla coperta, quasi cercandovi il corpo di lei che vi si smarriva, e le stringeva convulsivamente la mano, come per accertarsi che ella fosse ancor lì, e che quello non fosse un orribile sogno. Adele respirava con pena; i ricami del suo corsetto sembravano alitare a guisa di farfalle. Dopo quel lungo sguardo, e un più lungo silenzio: — Desidero vederti! diss’egli alfine.
Adele volse il capo in attitudine stanca. Ei mise sulla ventola la mano tremante, e la fece girare; allora la luce della candela cadde sul viso dell’inferma. Ei rimase affascinato.
Non piangeva, non diceva una parola, la guardava fiso al pari di spettro, e le stringeva la mano come se un’altra mano di ferro gli stringesse il cuore; sembrava che cogli occhi cercasse avidamente qualche cosa, qualche cosa che non c’era più, e faceva balenare la sua ragione.
Ella gli lesse tutto in viso, e due lagrime scorsero lentamente per le sue guance.
— Non mi riconosci più? disse alfine con voce estinta. Ei non rispose.
— È strano! mormorò quindi sordamente e con calma terribile. Ti amo come non ti ho mai amato!
Tutt’a un tratto si udì squillare vicinissimo il campanello che aveva udito lungo la strada. Il dottore si alzò.
— Son le sonagliere dei cavalli! si affrettò a dire Alberto senza saper troppo il perchè. Nessuno gli rispose. Una vecchia domestica entrò pian piano, e posò sulla tavola bianca due vasi di fiori.
— Cosa fate? domandò Alberto. La vecchia rimase indecisa, non sapendo che dire. Adele gli strinse la mano tacitamente. — Non le faranno male quei fiori in camera? domandò egli al dottore.
Questi scosse il capo mestamente; Alberto ammutolì.
Lo squillare del campanello, che un momento era taciuto, risuonò nell’anticamera, e sembrava avvicinarsi di stanza in stanza, insieme ad uno scalpiccío di passi e ad un borbottare sommesso. Alberto istintivamente avea fatto un passo indietro, quasi si sentisse inseguito; poi, tutt’a un tratto, strappò la sua mano da quella di Adele, con un movimento inesplicabile, indietreggiò sino in mezzo alla camera, e rimase ritto, pallido, fosco, coll’occhio fiso sull’uscio, affascinato.
Entrò il prete, il sagrestano, due o tre contadini; il marchese guardava come in sogno tutta quella gente che entrava così in casa sua, e s’accostava al letto di sua moglie; li vedeva muoversi appunto come le immagini di un sogno, taciti, misteriosi, borbottando parole e facendo segni che non capiva; il letto era inondato di luce, sua moglie non diceva nulla, ed egli non la vedeva più. Poscia tutta quella gente se ne andò col medesimo scalpiccío funebre, col medesimo mormorío di parole sommesse, lasciando un odor singolare che non aveva mai sentito. Adele rimaneva distesa sul letto, colle mani in croce sul petto, gli occhi rivolti verso di lui, e gli sorrideva serenamente.
— Ora lasciatemi confessare con mia moglie! disse improvvisamente Alberto alle due o tre persone ch’erano presenti.
Rimase lunga ora nascosto tra le cortine del letto, tenendo abbracciato il capo di lei. Non lo si vide muovere, non si udì un singhiozzo o una parola; nessuno seppe che cosa avesse detto quell’uomo a quella moribonda. Allorchè rialzò il capo, e uscì dall’ombra del cortinaggio, era più pallido di lei, e aveva gli occhi ardenti.
— Dorme! disse piano al dottore, lasciando dolcemente la mano di lei.
Non si udiva altro rumore all’infuori della pioggia che batteva sui vetri. Ei andò ad appoggiarvi la fronte, guardando nel buio. Dopo qualche tempo si accostò al medico, e gli domandò sottovoce:
— Ebbene, dottore?
— Il dottore non rispose. Allora Alberto con la voce ancor più soffocata: — Soffrirà molto?
— No.
— E sarà per stanotte?
— Domani al più tardi.
Ei volse all’orologio uno sguardo indescrivibile.
— Crede che dei dispiaceri.... possono averla uccisa? domandò poscia.
— Il suo è un male ereditario, di quelli che non perdonano.... I dispiaceri non possono che averne accelerato lo sviluppo....
— Anche l’assassino non fa che accelerare! interruppe il marchese collo stesso accento calmo e profondo, lasciandosi cadere su di una poltrona di faccia al medico — e rimase cogli occhi fissi su di lei che dormiva l’ultimo sonno.
— Ella deve aver bisogno di riposo; riprese poco dopo il dottore dolcemente. Approfitti di questa breve ora in cui l’inferma dorme....
— E quando non potrò vederla più?
Il vecchio chinò il capo.
— Mi pare impossibile che non debba vederla più! mormorò poscia Alberto come fra di sè.
E un istante dopo:
— Che cosa diverrà, dottore?
Costui alzò un dito al cielo. Alberto vi rivolse gli occhi anche lui, seguendo macchinalmente quel gesto. Poscia fissando sul medico uno sguardo singolare:
— Ella non è materialista, dottore?
— Non sono uno scienziato, sono un povero medico di campagna. Ho assistito a molti momenti simili, ed ho visto molti dolori....
— Ha visto morire delle persone care?
— Sì!
— Dev’esser così! mormorò Alberti, dopo alcuni istanti di meditazione.
E rimase colla fronte fra le mani, e i gomiti sui ginocchi.
Di tanto in tanto l’inferma era agitata da scosse convulsive, e tremava tutta; sembrava tormentata persin nel sonno da un’arcana ambascia. Allora Alberto levava il capo, fissava su di lei gli occhi ardenti di febbre, e quando la sua respirazione si faceva più calma, tornava a chinarli a terra.
Improvvisamente fu scosso da un rantolo, la moribonda cominciò ad agitare il capo sul guanciale e chiamò Alberto con un suono inarticolato. Egli balzò in piedi, e le prese la mano ch’era fredda come il marmo.
— Dottore! esclamò con voce concitata.
Il medico prese il polso, e lo lasciò ricadere senza dir nulla,
— Soffre?
— Per poco....
La moribonda fissava su di lui gli occhi che si andavano appannando. Il rantolo si faceva più soffocato, e l’ambascia più spasmodica. — Che lunga notte? mormorò Alberto asciugandosi il sudore della fronte.
Cominciavano ad udirsi i campanacci delle mandre che andavano al pascolo. Il marchese levò il capo come svegliandosi, e vide confusamente che i vetri delle finestre cominciavano ad imbiancare. Alla pallida luce dell’alba il viso di Adele sembrava livido; ell’era supina, immobile, col viso affilato e gli occhi appannati. — Adele! mormorò Alberto chinandosi su di lei; ella sollevò le palpebre stentatamente. — Son qui, Adele! ripetè — una di quelle frasi insensate che strappa l’angoscia. Le bianche labbra della poveretta si agitarono.
— Dottore, mi sente? esclamò Alberto con un’immensa commozione nella voce, interrogando il medico con occhi ansiosi; costui chinò i suoi e non rispose — l’uomo forte capì tutto il ridicolo della sua speranza.
Adele ricominciò a tremare. Il medico prese il marchese per un braccio, e volle condurlo via. Ei gli rivolse uno sguardo profondo.
— Non abbiate paura! diss’egli.
— Paura? rispose il vecchio stringendosi nelle spalle.
Un brivido corse per tutto il corpo della moribonda. Alberto prese quasi macchinalmente il crocefisso ch’era a capo del letto, e lo mise fra le mani agghiacciate di lei — il viso si profilò, i muscoli del mento e della bocca si rilasciarono — e rimase immobile.
Ei la guardò, si chinò su di lei, si rialzò lento lento, lasciò dolcemente le mani che stringevano ancora le sue, e fece un passo indietro.
Il medico gli prese la destra.
— Dottore, domandò Alberto con calma spaventevole crede che si possa amare un cadavere?
E senza aspettar risposta:
— Come va che amo questa povera morta assai più di quand’era bella al pari di un angelo?
— O cosa ci ha a fare la bellezza? rispose il buon medico un po’ scandolezzato.
— Dunque!...