Emma Walder/Parte seconda/I
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I.
Perchè mai, quell’impiegatuccio, quel figliuolo di un guantaio, abbandonava la signorina Mandelli che aveva una dote di duecentomila lire, e un giorno sarebbe stata la prima signora del paese?
La povera gente che campa di stenti, e la gente media che vive di desideri insoddisfatti, i piccoli negozianti e i piccoli speculatori, si ponevano questo problema e non riescivano a scioglierlo.
— Ci sarà il suo motivo — dicevano con un piccolo accento di sprezzo, le rivali della ex-fidanzata, felici che Paolo Brussieri fosse ritornato libero.
E le fantasie si sbizzarrivano nell’inventare i difetti che una bella ragazza può nascondere e un fidanzato scoprire improvvisamente.
Ogni pettegola dava la sua fandonia per verità documentata. Gli amici della famiglia sorridevano con disprezzo di tali calunnie, affermando che era stato il padre della ragazza a mandare a monte quel matrimonio.
Subito qualche donnina dal cuore sensibile rimbeccava;
— Bravo! Intanto sua figlia muore. Sarebbe meglio se il signor organista fosse meno puntiglioso e più uomo di cuore.
La maldicenza, messa al muro da una parte si buttava dall’altra.
Era la volta del padre. Tutte le piccole vanità che il musicista aveva più o meno offese trattandole con la noncuranza istintiva delle persone preoccupate, sputavano il loro veleno.
— Il Mandelli!...L. Oh, signore!
— Un seminarista pieno di vizi. Un mezzo matto; sornione, superbo, avaro.
— E cattivo marito! cattivo padre.... pieno d’intrighi.... Basti dire che si è tirata in casa una sua bastarda, figliuola di una zingara.... e la tiene insieme alla moglie e alla sua figlia vera! — esclamava il farmacista.
— Ora dicono che è la sua ganza! — aggiungeva un vicino per colorir meglio il quadro con questa ardita pennellata.
La sola Cleofe si salvava da cotali morsi. Chi sa! Forse la temevano sapendola capace di pigliarsi una grossa rivincita. Forse le giovava anche in quell’ora di crisi il suo farino gentile con tutti, la calma imperturbabile e l’aver sempre accarezzate, per massima, le piccole vanità de’ suoi simili. E poi, in quel momento, il suo dolore era così grande, la sua disperazione così profonda, che nessuno poteva mirarla senza impietosirsene. Non pareva più lei, come dicevano le sue conoscenti. Era dimagrata, impallidita, e nella splendida capigliatura d’ebano, spiccavano qua e là, intorno alla fronte specialmente, i primi capelli bianchi. Passava i giorni e le notti al letto della sua creatura, incurante di sè, avvolta in un ampio accappatoio che non si levava mai.
All’alba, dopo una lunga notte agitata, l’ammalata piombava in un sonno grave. Allora, invece di approffittare di quel momento per riposarsi a sua volta, la madre addolorata si gettava sulle spalle un mantello, e, così com’era, spettinata, andava alla vicina chiesa a sentire la prima messa, a piangere e a pregare.
— La signora Cleofe! — bisbigliavano sul suo passaggio. — La signora Mandelli! Poverina, come soffre.
E i cuori più chiusi si aprivano alla pietà.
Anche Leopoldo era oppresso, angosciato; ma il suo dolore meno appariscente, meno plastico, era naturalmente meno creduto.
Emma soltanto, intendeva, questa volta come sempre, il dolore chiuso e profondo del suo buon padre. Straziata da un rimorso forse irragionevole, di martire predestinata, Emma gemeva in segreto.
E allorchè gli sguardi appassionati della fanciulla incontravano quelli pensosi dell’uomo anzitempo stanco della vita, muti fissandosi, penetravano il fondo dei loro cuori. Un conforto per tutti e due: l’unico.
Intanto, Paolo Brussieri era in vacanza: ai bagni di mare, dicevasi.
Nessuno sapeva dove fosse realmente. Non aveva scritto, non scriveva a nessuno.
La madre di Annetta invece scriveva alla signora Maddalena, senza rancori, senza rimproveri «da madre a madre» come diceva.
E la guantaia rispondeva con le solite frasi, gentilissime, stereotipate di donna educata dalla vita di magazzino, sempre uguale a se stessa.
«Come le dispiaceva! Gran Dio! Non poteva dire quanto fosse immenso il suo dispiacere. Dopo di avere conosciuto una signora e una signorina così distinte, così buone, dopo di avere sperato un onore così grande, quello che accadeva era per lei inaspettato, inesplicabile, non sapeva darsene pace! Tutto causa quei benedetti uomini, che volevano sempre agire di loro testa! Lei non sapeva cosa fare. Credeva, sperava non si trattasse che di un malinteso, un po’ di puntiglio. Che poi sarebbe passato, perchè in fondo il suo Paolo non era un cattivo ragazzo, anzi era sempre stato di cuore. Consigliava la signora a pazientare e a consolare la sua cara, carissima Annetta, alla quale mandava tanti baci.»
Le lettere erano quasi tutte identiche, con qualche particolare riguardante il negozio, la fabbrica dei guanti, il marito e la figlia, che si era fidanzata con un fabbricante di cravatte. Quanto a Paolo, lei stessa non sapeva precisamente dove fosse, perchè dopo di essere stato «in Riviera» faceva una escursione a piedi, presto però sarebbe ritornato perchè il venti d’agosto gli scadeva il permesso.
Intanto nel paese si sparse la notizia che il cancelliere facesse fuoco e fiamme per essere traslocato e che la signora Maddalena fosse nell’accordi. Alcuni anzi dicevano che erano loro, i vecchi Brussieri, i più contrari al di lui ritorno in Melegnano, perchè il Brussieri padre si era legato al dito certe trascuraggini del signor Mandelli, e voleva fargliela vedere. Si diceva pure che a Milano ci fosse un’altra sposa pronta per l’incomparabile Paolino: la figliuola di un ortolano, di quelli grossi, che sul verziere di Milano fanno la pioggia e il bel tempo. una bella ragazza, con trecentomila lire nel grembialino.
Queste notizie, insieme alla pietà che già ispirava la Cleofe, mutarono l’opinione pubblica. Perfino le più accanite rivali di Annetta s’impietosirono del suo caso. E poichè, chiedendo un trasferimento, il signor Paolo mostrava abbastanza chiaro di non volere alcuna di esse, immemori dei loro sforzi per attirarlo, gli si voltarono contro tutte d’accordo. «Vanesio di un milanese! Bellimbusto infame! Ah! se l’avessero avuto nelle grinfe!...»
Un bel giorno, proprio quando non l’aspettavano più, il cancelliere arrivò.
E come niente fosse tornò a farsi vedere da per tutto.
Subito Andrea Celanzi andò in cerca di lui.
Lo trovò in casa, in quella cameretta che egli sempre occupava presso i padroni dell’osteria della Torre. Stava per uscire.
— Vengo a parlarti di un affare assai delicato — disse Celanzi, trattandolo con quella famigliarità comune tra giovani che si vedono spesso e frequentano le stesse case.
— Parla — fece l’altro — Sono tutto orecchi.
Andrea raccontò ciò che avveniva in casa Mandelli, e che Paolo pareva ignorare. La malattia di Annetta, la disperazione dei genitori, le poche speranze che davano i medici se l’ammalata non usciva dallo stato d’abbattimento in cui la teneva la sua infelice passione.
— Certo — concludeva Andrea — non posso credere che tu ti sii allontanato con la deliberata volontà di mancare al tuo impegno. Neppure i Mandelli ti credono capace di questo. Da quanto scrive tua madre alla signora Mandelli, anche lei crede che si tratti di qualche malinteso. Non è per simili inezie che si manda a monte un matrimonio e si lascia languire una ragazza. In casa tutti ti vogliono bene, e ti aspettano. Lo stesso Leopoldo non è come tu credi. E un galantuomo e un uomo di cuore. Un po’ originale ne convengo, ma sta tanto zitto, e chiude così bene ogni cosa in sè, che dà poco fastidio. Andiamo, non essere ostinato. Sarai contento anche tu. Vedrai Annetta com’è diventata più bella!
— Ti hanno mandato loro? — domandò bruscamente l’impiegato, lisciandosi i baffi.
— No... Non mi hanno mandato loro direttamente.... ma mia cugina sa che sono qui e tutto quello che ti dico sono autorizzato a dirlo.
Paolo Brussieri sorrise enimmaticamente e nicchiò. Che ci poteva lui se il signor Mandelli lo aveva messo alla porta? Un galantuomo non ritorna in una casa dove gli hanno voltate le spalle. Per conto suo non voleva alcun male alla signorina Mandelli, anzi, s’augurava di vederla presto guarita; ma non era tanto vano da credersi la causa di quella malattia. Ma che! Prima di tutto, non si moriva d’amore altro che nei romanzi; poi, lui era troppo poca cosa, lui, un meschino impiegato, figliuolo di un guantaio!... La signorina Mandelli poteva pretendere molto meglio, e sarebbe stata molto stupida a morire per lui. Dopo tutto, se loro credevano che una sua visita potesse far del bene, non ci aveva nulla in contrario, e se la sua dignità non ne era offesa.... ci avrebbe pensato.
Qui, visto che l’ora d’andare all’ufficio era passata di alcuni minuti, domandò scusa all’amico e si avviò verso l’uscio. Celanzi scese con lui, senza più discorrere. Allo sbocco della viuzza si separarono, salutandosi un po’ freddamente.
Questo insuccesso dispiaceva a Celanzi in doppio modo: per Annetta e per sè. Cleofe glielo avrebbe fatto scontare! Disperata com’era per quella figliuola, se egli fosse riuscito a renderla contenta facendo ritornare il Brussieri, sarebbe stato per lui come vincere un terno alla lotteria dell’amore. Così invece doveva temere il peggio. Cleofe sarebbe diventata, sempre più fredda e crudele. Già lo trattava abbastanza male. Tutta assorbita dalla sua maternità non aveva neppure l’aria d’accorgersi quando egli era là e le parlava. Gli chiedeva i servigi più delicati e si dimenticava di ringraziarlo. Nè di questo egli si offendeva. Non gli premevano i complimenti. Intendeva pure che una donna in quelle condizioni si facesse quasi scrupolo di pensare all’amore. Intendeva tutto, lui, ed era assai indulgente. Ma in tutte le cose del sentimento vi sono delle graduazioni, delle sfumature, alle quali le persone sensibili e delicate annettono una grande importanza. Così, egli si diceva che, per quanto preoccupata dal suo affetto di madre, Cleofe avrebbe potuto fargli comprendere che aveva coscienza di ciò che egli soffriva per lei, e della tenerezza e dell’abnegazione di cui le dava continue prove.
Invece, mai nulla. Non un lampo di gratitudine in quegli occhi severi, non una di quelle strette di mano che in dati momenti ci sono più care e lasciano nel cuore di chi ama una impressione più profonda della più completa ebbrezza.
Nulla.
Oh! egli era molto infelice, poichè tutto gli diceva che quella donna non lo aveva mai amato. E una dura parola gli veniva sul labbro:
— Capriccio! Capriccio dei sensi, passeggiero capriccio e smania di dominare.
Con tutto ciò, egli era incapace di ribellarsi. Troppo l’amava. L’amava al punto che, tormentato com’era, non avrebbe ceduto per nulla al mondo, il suo posto di aiuto accanto alla desolata infermiera, sperando sempre un ritorno del passato, un risveglio della passione....
O del capriccio.
— Sono abbietto — diceva qualche volta — sono vile.
E piangeva di vergogna. Ma il fascino di quella strana donna, che aveva tanto cuore per la sua creatura e così poco per chi l’amava, lo teneva incatenato.
Quando si trovava con Leopoldo che lo trattava con particolare simpatia ed amicizia, sentiva rimorso e vergogna insieme. Certo, intuiva che Leopoldo non amava più la moglie, ma non credeva che ciò diminuisse la propria colpa.
— Deve averla amata molto — pensava osservandolo. — Deve averla amata come l’amo io ora. Una volta capito che donna è, ha vinto se stesso. Forse un giorno mi vincerò anch’io.
Queste osservazioni e questi pensieri lo attaccavano stranamente all’uomo che tradiva.
Leopoldo Mandelli era forse la persona da lui più stimata, per l’intelligenza, per la bontà, per la vita illibata, severa. Lo trovava certo un po’ troppo contemplativo; ma quante belle qualità compensavano sì lieve difetto! Ed egli lo tradiva per quella donna!
I giorni passavano, intanto, lenti e gravi nella camera della inferma.
La malattia di languore che struggeva l’innamorata prendeva un carattere meno acuto, più insidioso. Il medico lasciava intendere che non poteva nulla per salvarla se gli altri non l’aiutavano.
— Tu per la prima dovresti aiutarmi — diceva con piglio severo all’ammalata, che trattava quasi come una figlia avendola veduta a nascere e essendo sempre stato il medico della famiglia.
— Se tu volessi, guariresti. Ma tu non vuoi!...
Annetta allora lo guardava attonita, con i grandi occhi un po’ vitrei, e scoppiava in un pianto dirotto, a cui seguiva un assalto nervoso, un tremito convulso, che la faceva peggiorare.
Un giorno il vecchio dottore, sempre più impensierito di quella malattia, propose alla famiglia di chiamare altri medici e di tenere un consulto. Ma Annetta si oppose con tale violenza, con tale ostinazione, che nessuno osò più parlarne.
— È malata come me! — esclamava Marco Fabbi scrollando le sue larghe spalle — È sempre stata così: capace di morire per un puntiglio.
Il dottore sorrideva a mezza bocca.
— Figlia unica! L’hanno abituata ad accontentare ogni suo capriccio. Ed ora è veramente capace di morire, o, peggio, d’impazzire.
— Lo credi?
— Pur troppo. Un po’ malazzata era fin di prima; poi, piangere sempre, non mangiare, stare a letto anche quando io le ordino assolutamente di alzarsi; assecondare tutte le debolezze dei nervi tanto da farsi venire le convulsioni alla più piccola scossa, e sempre con l’idea fissa di morire se quell’altro non ritorna; c’è di che ammazzare un toro! L’auto-suggestione è terribile. Noi stessi non sappiamo fino a quali estremi possono giungere le sue conseguenze. Insomma io pagherei qualchecosa perchè quello stupido ritornasse.
Marco Fabbi rimaneva pensoso, ma sempre un po’ incredulo. Secondo lui, se invece di stare a farle tanti piagnisteri, invece di accarezzarla e di assecondarla, le avessero fatto intender ragione, sarebbe guarita in un momento.
— Troppo tardi — mormorava il medico, dondolando il capo ed allontanandosi per recarsi da altri malati. — Troppo tardi, caro Marco.
Nella camera semibuia, con le tendine calate, Annetta, a letto o in poltrona, tanto debole che non poteva fare il giro del letto senza cadere semisvenuta, voleva sempre Emma presso di sè. Non le aveva mai dimostrato così tenero affetto.
— Cara Emma — le diceva sommessamente, baciandola: — Tu sei buona, generosa; tu mi ami, mentre io sono stata tante volte cattiva con te.
Emma non la lasciava proseguire. Le proibiva di tenere quei discorsi, e si commoveva, oppressa da un oscuro rimorso che si fondeva con una inesprimibile tenerezza.
Qualche volta Cleofe soffriva di quella marcata preferenza che Annetta accordava alla sorella; e, come tutte le madri troppo tenere, assolveva la sua figliuola e accusava l’altra. I suoi sguardi irati dicevano all’intrusa — così la chiamava nel suo segreto — il dispetto che le faceva: il rancore che aveva chiuso in cuore.
Tanti colpi di spillo per la povera Emma.
Ella si chiedeva tutti i giorni:
— Che cosa devo fare? Che cosa posso io fare?
Altra volta, fissando i suoi occhi soavi in quelli di Cleofe, pensava con tristezza:
— Se fossi anch’io tua figlia, o se tu mi amassi, com’io avevo sperato, il mio amore sarebbe tale da compensarti di molte amarezze. Pur troppo io non sono che una povera abbandonata, raccolta per carità, e tu mi odi!
Malgrado tutto, Emma non odiava Cleofe.
Da prima aveva sognato di esserle cara: aveva creduto alle sue dolci parole, alla carezza involontaria di quegli occhi vellutati; ai baci scoccati da quelle labbra fresche e profumate. Come altri cuori forti, di uomini, il piccolo cuore della bimba era stato preso al laccio di quella esteriorità affettuosa; e il precoce disinganno l’aveva crudelmente ferito.
Ora, però, vedendo quella donna altera, così angustiata e ridotta a sopportare le umiliazioni che Annetta le infliggeva, Emma le perdonava tutto, vinta da una immensa pietà.
Cosa non avrebbe dato per mostrare con un’azione straordinaria la sua generosità e la sua riconoscenza a colei che tante volte l’aveva accusata d’ingratitudine!
Ma cosa poteva fare?
Una mattina, mentre la signora Mandelli era andata alla prima messa, a pregare Iddio per la sua figliuola, questa che aveva passata una notte molto agitata, si destò più presto del solito dal breve sopore mattinale.
Emma era là, accanto a lei.
— Come stai, Annetta?
— Meglio, cara. Ho fatto un bel sogno. Paolo era qui; mi amava tanto! Oh! basta il sogno a ridarmi un po’ di forza!
Tacque, e un sorriso spuntò sulle sue labbra, in mezzo alle lagrime che le scorrevano sulle pallide guance.
— La mamma, dov’è?
— A messa.
— Bene! Senti, Emma, se tu sei quella buona sorella che ho creduto sempre, tu puoi fare che il mio Paolo ritorni.
— L’ho sognato. Eri andata a pregarlo, e lui era subito venuto.
— I sogni, Annetta sono inganni della fantasia.
— Non sempre! — esclamò la bionda con un enimmatico sorriso. — Non ti rammenti, quel libro che il babbo ci spiegava l’inverno scorso? Vi erano molte cose difficili e noiose che ho dimenticate. Una però mi ha colpita e l’ho tenuta a mente. Ed è che i sogni possono a volte rivelarci una verità lungamente e invano cercata durante la veglia; perchè il cervello abbandonato a se stesso e libero dalle contingenze della vita esteriore, ragiona meglio ed ha, a volte, una specie di chiaroveggenza....
Una sottile risata interruppe la sottile disquisizione.
— Perchè ridi?
— Sembri un professore.
Annetta rise a sua volta.
— Ti ho convinta?
— Così così.
— Ti convincerò ora. Senti. Io so che Andrea è andato a parlare con Paolo e che non ha saputo ricondurlo. Se mi avessero interrogata prima di fare quel passo, avrei detto subito ch’era inutile. Gli uomini non sanno trattare queste cose. Metti il babbo, per esempio, se io lo pregassi, forse ci anderebbe, a malincuore, pure credo che ci anderebbe; ma con la migliore volontà riescirebbe a guastare tutto, invece di far la pace. Soltanto la mamma potrebbe tentare.... se il suo orgoglio....
— O Annetta, come parli della mamma! Lei andrebbe subito, se lo credesse utile.
— Non ne sono convinta. Ma non importa. Forse non sarebbe tanto utile.... L’unica persona che, secondo me, riuscirebbe, sei tu.
— Io?.... Ma ti pare?
— Tu, sì; tu sola. Prima di tutto perchè tu non, sei mia madre, nè mia sorella vera, e Paolo può credere più facilmente che tu dica la verità. Poi, perchè tu sai parlare, sai convincere, sai commuovere; e hai una grande influenza sugli uomini....
— Io?!....
— Sì, tu. Non te ne accorgi, perchè non sei civetta. Neppure io me ne accorgevo una volta; ma adesso, vedi, capisco tante cose che prima non capivo.
S’interruppe e restò alcuni momenti pensosa, come se avesse riflettuto sulle cose che prima non aveva comprese e che ora comprendeva.
Agitata, tremante, Emma non fiatava.
— Dunque? — riprese finalmente l’ammalata. — Me la farai questa grazia?
— O Annetta! Come puoi domandarmi una cosa simile?
— Io non capisco che sia una cosa tanto straordinaria.
— Dove dovrei andare io per incontrarlo?.... Le Rondani sono ai bagni di mare: e dacchè tu sei ammalata non si va più in nessun luogo...
— Ma da lui devi andare! — esclamò Annetta, balzando a sedere sul letto con una vigoria e un impeto che contrastavano stranamente con la sua abituale debolezza. — A casa sua.... o dalla Teresa.... o magari in Pretura! ...
— È assurdo! — gridò Emma, scattando. — Cosa direbbero di me vedendomi andare così sola in cerca di un giovanotto? Sono anch’io una fanciulla!....
Le lagrime che già si sentivano nella sua voce, scoppiarono d’improvviso.
La signorina Mandelli, tutta rabbuiata, le volse uno sguardo pieno di collera e di disprezzo.
Tornò a buttarsi sui guanciali, come spossata, poi disse lentamente con voce rotta:
— Siamo alle solite. Tu pensi a quello che dirà la gente e hai paura di comprometterti, mentre per me si tratta di vita o di morte.
Sospirò e tacque.
Emma continuava a piangere sommessamente, oppressa da un’angoscia invincibile, e, in apparenza, troppo superiore alla causa.
Il sole batteva alle finestre, e la sua luce dorata entrava nella camera, traverso le fenditure delle persiane. I vetri socchiusi davano adito all’aria pura e fresca della mattina, e dalla veranda e dal giardino salivano gli olezzi delle magnolie, dei gelsomini e della vaniglia. Tutta in celeste, dalle pareti alla stoffa delle mobilie, alla coperta e al padiglioncino del letto, la camera appariva in quell’ora e sotto a quella luce, più che mai graziosa e ridente. Vera camera di fanciulla ricca e di bionda che predilige il colore meglio adatto al suo tipo; elegante in ogni particolare; adorna di specchi e di una quantità di oggetti costosi e attraenti. Vi si sentiva la cura minuziosa della mamma studiosa di allontanare ogni tristezza dagli occhi della sua creatura.
Ma Annetta parlava di morire, e l’Emma si struggeva in pianto, e gli specchi civettuoli riflettevano due visi addolorati.
— Se fai così — riprese l’ammalata — se fai così, dovrò pensar male di te.... Sì; non interrompermi: dovrò pensare che ti senti debole perchè Paolo ti piace; oppure, che ti ha fatto la corte e che hai paura di trovarti sola con lui....
Emma si sentì gelare.
Per fortuna, l’uscio si aprì in quel momento, e potè evitare di rispondere.
La signora Mandelli entrò e si diresse subito al letto della sua figliuola per darle il buon giorno, per stringersela al cuore.
— Come stai, amore mio?
— Meglio, mamma: sto meglio. Ho sognato che guarirò, e spero che sia vero. — Oh! gioia bella, gioia di mamma tua!.... — E la copriva di baci.
Mezzo nascosta nell’ombra del cortinaggio, Emma guardava quella scena. Le pareva che da quelle dolci parole uscisse per lei una condanna.