Emma Walder/Parte seconda/II
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II.
a quel giorno Annetta non lasciò un momento di riposo alla sua sorella adottiva. Le sue insistenze divennero ossessioni. Ella si era intestata che Emma riuscirebbe a convincicere Paolo del suo dovere di ritornare e mantenere l’impegno. Perchè soltanto Emma avrebbe trovato parole capaci di commoverlo e, nel medesimo tempo, di rassicurarlo. Perchè Emma sapeva che lei non era più quella di prima, che non avrebbe più cercato d’imporre la sua volontà e magari i suoi capricci all’uomo che doveva essere suo marito.
Tutto questo era vero. Ma la riluttanza di Emma, i replicati rifiuti, le lagrime e le agitazioni che li accompagnavano, avevano destato nel cuore appassionato della bionda una viva gelosia, un pungente sospetto.
Ella si diceva: Emma è una ragazza leale, incapace di tradirmi; tuttavia potrebbe amare Paolo; ovvero Paolo — si sa come sono gli uomini — potrebbe averle fatto qualche dichiarazione. Da qui la sua ripugnanza. Se è vero, ella non andrà e di fronte alla mia insistenza finirà col dirmi tutto. Saprò almeno la verità. Se invece non c’è nulla di vero nel mio sospetto, allora vuol dire che la sua ripugnanza viene soltanto dalle sue solite paure di compromettersi davanti alla gente. In questo caso cederà, perchè è buona e mi vuol bene ed è capace anche di un sagrificio per darmi una prova della sua tenerezza.
Questo ragionamento era abbastanza logico e fine. Soltanto Annetta non teneva conto dei mille riguardi e del sentimento di delicatezza per cui Emma non poteva raccontare a lei, in quello stato, l’abbietto contegno di Paolo a suo riguardo.
Più di una volta però sentendosi così pressata e sospinta, Emma era stata sul punto di confessare quale fosse il più forte motivo delle sue riluttanze. Ma al momento di parlare le pareva che una mano di ferro le serrasse la gola, e la sua bocca rimaneva come suggellata. Se a quella rivelazione Annetta fosse caduta in convulsione? Se fosse morta? O se non le avesse creduto? E se Paolo fosse venuto a smentirla? E se avessero detto che era lei la civetta, lei che aveva cercato di attirare l’attenzione del giovine, per farsi sposare invece di Annetta? Conosceva troppo bene la ingiustizia passionata della signora Cleofe, e la maldicenza del borgo. Sapeva già di quante calunnie era vittima. No, ella non poteva parlare. Brussieri non l’avrebbe trattata così se non avesse saputo che ella non poteva accusarlo. L’impunità lo aveva reso ardito.
A poco a poco, sotto alle pressioni di Annetta che ogni tanto ricadeva nelle convulsioni dopo le quali continuava a singhiozzare per ore e ore senza che si trovasse modo di calmarla, Emma cercò di convincersi che le sue paure erano esagerate, i suoi rifiuti crudeli.
Una volta entrati in questa nuova direzione, i suoi pensieri non tardarono a dimostrarle che Annetta doveva — come le aveva già detto una volta — pensar male di lei e dare a quei suoi rifiuti la peggiore interpretazione. Non più dubbi allora. Un giorno, mentre la signora Cleofe e suo marito accompagnavano il medico nell’anticamera, e Annetta, spossata da una crisi, fissava i suoi occhi languidi nel vuoto, per non guardare l’amica, questa si chinò su lei, e rapidamente mormorò:
— Ho deciso: andrò oggi stesso.
Subito il viso di Annetta si trasformò, illuminato da un lampo di contentezza.
— E se non riesco? Mi accuserai?!
— Se non riesci — rispose Annetta dopo un momento di riflessione — credo che morirò per davvero.... Ma sono certa che riuscirai: l’ho qui nel cuore!...
Subito ricominciò a migliorare, o almeno a lottare energicamente contro lo stato di abbattimento a cui prima si abbandonava.
Emma aveva risoluto di andare a trovare il Brussieri in Pretura, nelle ore d’ufficio. Era decisa, e cercava di mantenersi nella tranquillità di spirito e lucidezza di mente che l’impresa non facile le sembrava richiedere.
Appena uscita dalla camera di Annetta, entrò nella sua, il cui uscio dava sul medesimo corridoio, un poco più lontano dalla scala.
Voleva riflettere ancora sul contegno che doveva tenere e sulle cose che avrebbe dette. Ma la riflessione non le giovava; le pareva anzi che il suo coraggio non resistesse all’analisi, e che i bei ragionamenti già preparati nella mente cadessero alla prima opposizione, come un castello di carte.
Meno adorna e meno ingombra di gingilli, la camera di Emma era elegante e gaia come quella di Annetta. Il signor Mandelli le aveva fatte disporre l’anno addietro, con la medesima cura: quella di sua figlia in celeste con mobili di legno chiaro; e quella di Emma in legno nero e stoffa rosa. Le due finestre davano sull’angolo della casa, una sulla facciata sopra la veranda e il giardino, l’altra sul fianco destro verso il bosco. Emma si affacciò a questa finestra e si fermò un momento a guardare gli alberi le cui foglie, che già cominciavano a tingersi nei magnifici colori autunnali, splendevano al sole.
— Mio Dio!... Mio Dio! — susurrò stringendosi le tempie con le palme aperte. — Mio Dio!... faccio bene o faccio male?...
I suoi occhi vaganti sul tranquillo paesaggio, avevano una espressione angosciosa d’incertezza e di paura.
— Sono pur debole! — disse ancora a se stessa dopo alcuni istanti. Poi, come se il sereno spettacolo della natura le avesse ispirato un po’ di coraggio, soggiunse:
— Non devo essere così debole.
Le due suonarono alla Madonna dei Servi.
— È ora di vestirmi — pensò la fanciulla.
Rientrò. Si tolse di dosso l’abito di percalle a fondo chiaro che portava per la casa e ne levò dall’armadio uno di finissima lana, da estate, color sabbia, con ricami in seta e perline, lavoro delle sue mani. La gonna un po’ a strascico e il giacchetto a lunghe falde formavano tutt’insieme un costume serio e modesto che rispondeva ai suoi gusti. Un cappellino di paglia nera, ornato di alcune rose pallide, i guanti lunghi e l’ombrellino, completarono in pochi minuti il suo abbigliamento.
Uscì di camera, e scese le scale, senza rientrare nella camera di Annetta.
Era pallidissima e il cuore le batteva in modo insopportabile. Un’idea strana, importuna, le era venuta improvvisamente. Le pareva di andare a un appuntamento!
Gli sforzi che faceva sopra se stessa per allontanare questo fastidioso pensiero, non servivano che a ribadirlo.
La voce interna le ripeteva con insistenza: «Tutti quelli che ti vedranno, diranno che vai a un appuntamento.»
Il signor Leopoldo che si trovava nel salotto del primo piano, con l’uscio aperto, e stava segnando sulla carta un motivo di romanza creata poco prima, la vide e la chiamò.
— Dove vai?
— Vado.... a salutare la Giulia Rondani che è ritornata dalla Riviera.... e parte domani per la campagna.
La coscienza di mentire sfacciatamente, le fece salire al volto fiamme di vergogna.
— Come sei bella! — sciamò Leopoldo stupefatto. — Non ti ho mai visto quegli occhi.
— Oh, babbo!....
E rise.
Ma s’arrestò a mezzo e tremò, spaventata dalla falsità di quel riso.
Sentiva dentro, nel cervello, come due punte acute, gli occhi azzurri, limpidi, penetranti del suo padre adottivo.
Allora le parve che la sua personalità si sdoppiasse e che una parte di sè, quasi estranea all’altra, fredda e sarcastica, le suggerisse: — Digli che vai a richiamare il fidanzato di sua figlia, perchè non gli muoia.
Rabbrividì.
— Emma! esclamò lui tutto a un tratto, come riscuotendosi — dimmi che tu almeno sei felice ancora!...
Nel cuore della fanciulla sorse impetuoso un desiderio violento di buttarsi ai piedi di quell’uomo e dirgli tutto.
Invece rispose pacatamente:
— Come vuoi che io sia felice se vedo tutti piangere intorno a me? Sarei un’egoista.
Egli ebbe un tetro sorriso.
— Io non piango — disse.
— No. Ma sei forse il più disperato. Io ti leggo nell’anima.
— Chi sa. Io sono un debole, Emma. Intorno a me si piange, si muore, e io non faccio nulla; non aiuto nessuno. Mi diletto di musica e di filosofia.
Questa volta essa ribattè con piena sincerità:
— Non è vero. Non è colpa tua se le disgrazie ti perseguitano.
Un lampo di commozione passò negli occhi del musicista.
— Tu sci buona. Sai consolare senza ipocrisia. Felice l’uomo che sarà amato da te.
A questa uscita la fanciulla arrossì un’altra volta e il suo cuore ricominciò a battere con veemenza.
Vi fu un silenzio tra loro c un lieve reciproco imbarazzo.
Emma fece l’atto di andarsene.
— Non hai incontrato il Brussieri, in questi giorni — domandò Leopoldo.
— No.... E tu?
— Io sì; l’ho visto da lontano; ma l’ho sfuggito. Mi sentivo un impeto di strozzarlo. So che si vorrebbe da me che lo invitassi a ritornare.... Non posso.
— E se ritornasse? — domandò Emma con la voce velata e sentendosi quasi mancare. — Se ritornasse, cosa faresti?
— Ah! — sciamò lui dopo alcuni istanti di riflessione. — Ringrazierei il cielo. Senti, come uomo ragionevole, ti dico la verità che preferirei di vederla morta la mia creatura, piuttosto che moglie di quel farabutto.... Come padre.... avrei la debolezza di essere grato a chi lo facesse tornare.... Non ritornerà però; deve avere qualche altro capriccio, e forse la prospettiva di un matrimonio più vantaggioso.
— Eh! chi sa!... Ora vado; se no faccio tardi. — Addio!
Ella andava, col cuore leggiero. Le ultime parole del Mandelli le avevano dato un gran sollievo.
I suoi pensieri rimessi in careggiata non oscillavano più. Non vedeva più davanti a se paurosi fantasmi. Era sicura di far bene.