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trighi.... Basti dire che si è tirata in casa una sua bastarda, figliuola di una zingara.... e la tiene insieme alla moglie e alla sua figlia vera! — esclamava il farmacista.

— Ora dicono che è la sua ganza! — aggiungeva un vicino per colorir meglio il quadro con questa ardita pennellata.

La sola Cleofe si salvava da cotali morsi. Chi sa! Forse la temevano sapendola capace di pigliarsi una grossa rivincita. Forse le giovava anche in quell’ora di crisi il suo farino gentile con tutti, la calma imperturbabile e l’aver sempre accarezzate, per massima, le piccole vanità de’ suoi simili. E poi, in quel momento, il suo dolore era così grande, la sua disperazione così profonda, che nessuno poteva mirarla senza impietosirsene. Non pareva più lei, come dicevano le sue conoscenti. Era dimagrata, impallidita, e nella splendida capigliatura d’ebano, spiccavano qua e là, intorno alla fronte specialmente, i primi capelli bianchi. Passava i giorni e le notti al letto della sua creatura, incurante di sè, avvolta in un ampio accappatoio che non si levava mai.

All’alba, dopo una lunga notte agitata, l’ammalata piombava in un sonno grave. Allora, invece di approffittare di quel momento per riposarsi a sua volta, la madre addolorata si gettava sulle spalle un mantello, e, così com’era, spettinata, andava alla vicina chiesa a sentire la prima messa, a piangere e a pregare.