Elettra (D'Annunzio)/Le città del silenzio (III)

Le città del silenzio

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Le città del silenzio Le città del silenzio


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LE CITTÀ DEL SILENZIO.
pistoia.
I.

T
’amo, città di crucci, aspra Pistoia,

pel sangue de’ tuoi Bianchi e de’ tuoi Neri,
che rosseggiar ne’ tuoi palagi fieri
veggo, uom di parte con antica gioia.

5Come s’uccida in te, come si muoia
i Panciatichi sanno e i Cancellieri.
Fin quel de’ Sigisbuldi, tra pensieri
d’amor, grida: “Emmi tutto ’l Mondo a noia!„

Vanni Fucci odo, come nell’Inferno
10tra i sibili del serpe che l’agghiada,
"A te le squadro!" ulular furibondo.

Cino rincalza, folle del suo scherno:
“E’ piacemi veder colpi di spada
altrui nel volto e navi andar al fondo.„


II.
Or placato è nel suo marmo senese,
fuor d’ogni parte, il buon Giureconsulto;
e stanno intorno a lui nel marmo sculto
gli alunni che animò Cellin di Nese.

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5È in pace la Città dal pistolese
di lama corta. Intorno al suo sepulto
dorme, né vede sul sepolcro occulto
sorridere la bella Vergiolese.

Là dove il mul nemico a Dio Signore,
10col Mironne e con Vanni della Monna,
involava a Sant’Iacopo il tesauro,

ella ride il Digesto e il suo dottore,
quasi celata dietro la colonna,
Musa furtiva che nasconde il lauro.


III.
Ma nella sagrestia de’ belli arredi
io conosco un sorriso più divino.
Trema, o Pistoia, in te come il mattino
quando nasce su’ colli; e tu no ’l vedi.

5Colselo un giorno Lorenzo di Credi
forse in un giovinetto fiorentino,
stando con Leonardo e il Perugino
presso Andrea che di gloria ebbeli eredi.

Dalla tavola al marmo, ove riposa
10il Forteguerri sotto il grave incarco,
si diffonde quel tremito leggero.

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E la Speranza ha la maravigliosa
bocca che il Vinci incurverà com’arco
a mirar l’infinito del Mistero.


prato.
I.

O
PRATO, o Prato, ombra dei dì perduti,

chiusa città, forte nella memoria,
ove al fanciul compiacquero la Gloria
e la figliuola di Francesco Buti!

5Spazzavento, alpe delle mie virtuti,
che lustri come di ferrigna scoria,
ove parvemi svelta alla Vittoria
penna di nibbio fra’ tuoi sassi acuti!

O lapidoso letto del Bisenzio
10ove cercai le sìlici focaie
vigilato dal triste pedagogo,

camminando in disparte ed in silenzio,
mentre l’anima come le tue ghiaie
faceasi dura a frangere ogni giogo!

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II.
sul petrame ove raro striscia il biacco,
rosseggiar come sangue che s’accaglia
e incupirsi io vedea l’alta muraglia
che il Cardona scalò per dare il sacco.

5E ogni sera nel verde bronzo il Bacco
infante alla nascosta mia battaglia
ridea dal fonte. “Il tuo riso mi vaglia
contra il compagno scaltro dal cor fiacco!„

E amico l’ebbi, il pargolo divino,
10su l’agil coppa sua, tra i freschi getti.
Ei m’insegnava il riso di Lieo.

Or fatto è prigioniere nel museo
squallido, in mano degli scribi inetti.
Io spremo dai miei grappoli il mio vino.


III.
ma ancora pende sopra il capitello
florido, al sole e al vento come un grande
nido, il pergamo ricco di ghirlande
ignude, o Michelozzo, o Donatello!

5Nel marmo appeso udii cantar l’augello
come nel nido; e il Duomo, che in sue bande

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verdi e bianche chiudea le venerande
reliquie, fogliar vidi al sol novello.

E non il Sacro Cingolo, che v’è
10tra le mura cui pinse Agnolo Gaddi,
adorai quivi reclinando il capo;

ma il metallo che Bruno di Ser Lapo
fece di grazie naturato. E caddi
in ginocchio dinanzi a Salomè.


IV.
La figlia d’Erodiade, apparita
al Tetrarca, in sua frode e in sua melode
magica ondeggia: entro il bacino s’ode
bollire il sangue della gran ferita.

5Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita
danza come colei davanti a Erode,
voluttuosa; e il tuo desìo si gode
d’ogni piacer quand’ella ti convita.

Ma il Dolore guardar sai fisamente
10e la Morte, e le lacrime, e lo strazio
delle bocche e l’orror de’ volti muti.

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Io ti vedea sopra la sabbia ardente
schiavo in catene; e ti vedea poi sazio
dormir sul seno di Lucrezia Buti.


V.
Filippino, in sul canto a Mercatale
quante volte intravidi pe’ razzanti
vetri del Tabernacolo i tuoi Santi
come i fiori d’un orto angelicale!

5Fiori tu désti alla città natale:
freschi petali i volti, aiuole i manti.
E intorno alla Maria le tue spiranti
grazie non ebber mai sì lievi l’ale.

Vedevi, oprando, la materna porta
10ove l’antica suora in atti umìli
pregava pel figliuol del suo peccato.

Demoniaco segno, il seggio porta
al piede, come l’ara dei Gentili,
testa bicorne di capron barbato.


VI.
Tali m’ebb’io maestri. O Giuliano
da San Gallo, il tuo tempio fu misura

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dell’arte a me che la sua grazia pura
mirai caldo del fren vergiliano.

5La croce greca l’ordine soprano
reggea della pacata architettura,
spaziandosi in ritmo ogni figura
come il bel verso al batter della mano.

La cupola dai dodici occhi tondi
10il bianco-azzurro fregio dei festoni
i fiori i frutti gli òvoli i dentelli

i dorici pilastri dai profondi
solchi eran come nelle mie canzoni
fronti sìrime volte ritornelli.


VII.
O grande architettor della Canzone,
più anni Convenevole il Grammatico,
dal Bisenzio natìo maestro erratico,
alunno t’ebbe in Pisa e in Avignone.

5La fame eragli al fianco assiduo sprone;
e tu benigno al vecchierel salvatico
fosti, quando per pane e companatico
ei mise in pegno il bel tuo Cicerone.

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Non la foglia di lauro ma d’assenzio
5rugumando, ei tornò nel tardo autunno
alla tua terra che gli diede un’arca.

E dalla Sorga a lui verso il Bisenzio
mandò la gloria il suo divino alunno.
L’epitafio da te s’ebbe, o Petrarca.


VIII.
E Guido del Palagio, il Fiorentino,
non mandò egli sue canzoni al banco
di Porta Fuia, al mercatante Bianco,
all’orfano di Marco di Datino?

5Guido le belle rime e l’angioino
fiordaliso donavagli il Re franco.
Per le terre a far paci, non mai stanco,
sen giva il vecchio vestito di lino.

“Probitas„ scrisse il re nel suo diploma.
10Cantava Guido: “O gentil popolano,
sia chi si vuole, ascolta il mio latino!„

E l’orfano di Marco di Datino
ripetea, tra la rascia e il pannolano:
“Recatevi a memoria l’alta Roma!„

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IX.
Nel novel tempo del Decamerone,
o Ser Lapo Mazzei, sottil notaio,
che buon villico foste e pecoraio
e, innanzi Fra Girolamo, piagnone,

5ogni giorno s’avea vostro sermone
"Francesco ricco" in quel giardin suo gaio,
alla Porta, fiorito dal denaio
dei fondachi di Pisa e d’Avignone.

Gli mutaste in bigello ed in albagio
10i drappi di Damasco e quei d’Aleppo;
ond’ei fece del Ciel l’ultimo acquisto.

Seguì nel Cielo Guido del Palagio;
e l’unta quercia del suo banco in Ceppo
ritornò, per i Poveri di Cristo.


X.
Ma al sol s’allegra in la vita serena
Messer Agnolo; e par che gli fiorisca
vermiglio il cor se Mona Amorrorisca
favelli, o canti Bianca la sirena.

5Il felice Bisenzio è la sua vena.
Discorrer fa la Sapienza prisca

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negli Animali, sì che le obbedisca
il buon re di Meretto Lutorcrena.

Oh di nostro parlar limpida fonte
10in cui mi rinfrescai! Della Bellezza
Celso ragiona all’ombra degli allori.

Dice: “Le guance bramano bianchezza
più rimessa che quella della fronte...„
Le tue, Selvaggia che il bel Prato infiori!


XI.
E nella villa di Lorenzo Segni
sopra Sant’Anna, ove a Bernardo è caro
meditar le sue Storie o legger Maro,
e suoni e balli allegrano i convegni.

5Tempo non è che d’aspro sangue impregni
la polve il Guazzalotro o il Dagomaro;
tempo è che il figlio di Fioretta a paro
col Firenzuola i molli amori insegni.

Ma il Ferrucci stramazza a Gavinana.
10Scossa da Lorenzino l’ultimo urlo
getta la Libertà dalla man mozza.

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Sotto il maligno agosto, in su l’alfana
bolsa cavalca giù da Montemurlo
tra gli schemi plebei Filippo Strozza.


XII.
O Libertà, colui che abbeverasti
del tuo latte alla tua sinistra mamma
sì che col nutrimento egli la fiamma
del tuo gran cor si bevve e i sogni vasti,

5il Leon primogenito nei Fasti
della tua nova genitura, infiamma
de’ suoi vestigi il suol, dall’alto dramma
di Roma escito agli ultimi contrasti.

Quivi il Profugo sosta. E la giogaia,
10la gleba, il fonte, l’albero, la porta
ch’egli varca, la mensa ove s’asside,

il pan che spezza, l’uomo a cui sorride
sono sacri. E il molino di Cerbaia
splenderà fin che Roma non sia morta.


XIII.
O Vaiano, Cammin di Spazzavento,
Madonna della Tosse, umili e insigni

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nomi di luoghi e di fati! I macigni
e gli sterpi indagai pien di spavento.

5Taceva il suolo, senza mutamento.
Ma non vidi, pe’ tramiti ferrigni,
passi d’eroe? Me li facea sanguigni
tutto il sangue del cor mio violento.

Lui seguitai per monti e boschi e fiumi,
10Lui vidi giungere al Tirreno, ignoto
entrar nel mare come un dio marino.

E, quando mi chinai su’ miei volumi
ebro, nel canto omerico il piloto
re d’Itaca mi parve men divino.


XIV.
Lascia che in te s’indugi la mia rima,
Città della mia chiusa adolescenza,
ove alla fiamma della conoscenza
si rivelò la mia bellezza prima.

5L’anima del fanciullo è fatta opima.
Ave, ingigliata figlia di Fiorenza!
Quei ch’era ignaro della sua potenza
ora combatte a conquistar la cima.

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Ti mando sette e sette spade acute
10che recisero i dìttami e gli acanti
della Memoria, e n’hanno aulente il ferro.

Le promesse ti furon mantenute.
Ma il più fiero de’ mostri or m’ho davanti.
L’onta cada su me, se non l’atterro.